«La sentenza è un atto di arroganza» e «dimostra una schizofrenia della giustizia»: l’ordine lo sanziona

L’avvocato, dopo la condanna in appello del suo assistito, rilascia un’intervista ad un quotidiano, ma utilizza espressioni lesive della dignità e del prestigio della Corte e scatta il procedimento disciplinare.

Le espressioni pronunciate dall’avvocato nel corso di un’intervista rilasciata all’esito della lettura del dispositivo di una sentenza non sono in alcun modo riferibili all’esercizio del diritto di difesa, in quanto non pronunciate nel corso del giudizio, ma all’esito dello stesso e non nell’esercizio del diritto di impugnare una sentenza sfavorevole. Così affermano le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione nella sentenza n. 2567/12, depositata il 22 febbraio scorso. Il caso. Non sempre gli avvocati gradiscono le pronunce dei giudici, soprattutto quando danno loro torto. Può capitare poi che qualche professionista sanguigno reagisca in modo poco consono. È questo il caso di un avvocato che, intervistato da un quotidiano, ha definito la condanna emessa dalla Corte d’appello nei confronti del suo assistito come un gravissimo atto di arroganza frutto della cessione alla tentazione di un recupero di giustizialismo da parte dei magistrati, la cui decisione dimostrerebbe una schizofrenia della giustizia . Le dichiarazioni rilasciate vengono sanzionate. Esternazioni, queste, che fanno scattare l’apertura di un procedimento disciplinare da parte del consiglio dell’Ordine. Gli addebiti sono violazione dei doveri di probità, dignità e decoro, violazione del divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive, violazione della norma del codice deontologico riguardante i rapporti con i magistrati. La sanzione applicata è quella dell’avvertimento. Secondo l’organo disciplinare, le espressioni utilizzate eccedono i criteri di correttezza imposti dalla legge e dalla dignità della funzione difensiva. La difesa invoca il diritto di critica. L’avvocato non ci sta ed impugna la decisione sostenendo di aver esercitato il diritto di critica che, costituzionalmente garantito, deve ritenersi rafforzato per il difensore in ragione del magistero esercitato. Le frasi sono lesive della dignità della Corte. Il C.N.F., però, rigetta il ricorso rilevando come le espressioni utilizzate dal professionista esorbitano il diritto di critica ledendo il prestigio e dignità della Corte d’appello la cui capacità di giudizio è messa in dubbio dall’accusa di versare in uno status soggettivo patologico –la schizofrenia e dall’accusa di essere condizionato da finalità estranee al processo – recupero di giustizialismo-. L’accusato sostiene di aver agito nell’esercizio dell’attività di sua competenza. Si arriva quindi in Cassazione dove l’avvocato, non contestando la ricostruzione dei fatti, ribadisce di non aver accusato la Corte di alcunché, ma di aver pronunciato quelle frasi nell’esercizio dell’attività di sua competenza, al fine del difendersi efficacemente . A suo dire dunque, ammesso che le frasi costituiscano offesa, non sarebbero punibili in quanto concernono l’oggetto della causa e a sostegno della tesi richiama gli articoli 89 c.p.c e 598 c.p Inoltre, continua l’avvocato, la decisione sarebbe da annullare in quanto, limitandosi a sostenere che le espressioni esorbitano dal diritto di critica, integrerebbe un caso di motivazione apparente. Il diritto di difesa non c’entra. La Suprema Corte dichiara il ricorso infondato. Del resto, non è sostenibile la tesi secondo la quale le frasi sarebbero state pronunciate nell’esercizio del diritto di difesa. Si tratta invero di espressioni in alcun modo riferibili all’esercizio di tale diritto, in quanto non pronunciate nel corso del giudizio, ma all’esito dello stesso e non nell’esercizio del diritto di impugnare una sentenza sfavorevole. Non vi è quindi luogo a ricondurre le dette espressioni, per la sede nella quale sono state pronunciate, allo svolgimento della attività professionale dell’incolpato e all’esercizio del diritto di difesa in favore del suo assistito . Inoltre, la valutazione circa l’esistenza dell’esimente del diritto di critica costituisce accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se sorretti da motivazione congrua, esaustiva ed esente da vizi logici, come in questo caso. Non sono critiche, ma esternazioni prive di fondamento. Infine, aggiunge la Suprema Corte, avendo l’avvocato incolpato pronunciato le richiamate espressioni solo sulla base del dispositivo della sentenza emessa dalla Corte di assise d’appello, appare difficilmente sostenibile non solo che quelle espressioni fossero correlate all’esercizio del diritto di difesa, ma che le stesse potessero costituire anche una critica argomentata sul piano tecnico delle ragioni di base alle quali l’organo giudiziario era pervenuto ad una decisione sfavorevole al suo assistito, una tale critica potendosi ipotizzare solo una volta che la sentenza venga depositata e siano quindi conoscibili le motivazioni che hanno indotto il giudice ad adottare una determinata decisione .

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 27 settembre 2011 – 22 febbraio 2012, n. 2567 Presidente Lupi – Relatore Petitti Svolgimento del processo Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Latina, con deliberazione assunta nella seduta del 12 aprile 2005, deliberava di aprire procedimento disciplinare nei confronti dell'Avvocato T.C. in relazione al seguente addebito violazione degli artt. 5 doveri di probità, dignità e decoro , 20 divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive e 53 rapporti con i Magistrati del Codice Deontologico, in particolare, per avere, nel corso di un'intervista rilasciata al quotidiano omissis in data omissis , affermato che la condanna di D.S. è un gravissimo atto di arroganza la richiesta di condanna avanzata dal Procuratore Generale grida già da sola vendetta questa sentenza dimostra una schizofrenia della giustizia i giudici hanno ceduto, forse, alla tentazione di un recupero di giustizialismo una sentenza di questo genere è frutto di una presunzione incredibile . In Genova 24 gennaio 2002”. Con decisione depositata il 2 agosto 2007, il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Latina dichiarava l'incolpato responsabile della violazione degli articoli 5, 20 e 53 del codice deontologico forense e applicava la sanzione dell'avvertimento. L'Organo disciplinare, dato atto che non vi era contestazione sulla ricostruzione del fatto storico la cui violazione era stata addebitata all'incolpato, pur reputando che il diritto di difesa e la libertà critica ben possano essere esercitati con vigore, affermava, tuttavia, che tale diritto trovava come limite invalicabile il rispetto dell'altrui personalità e del decoro e riteneva che, con le affermazioni riportate dal quotidiano, il professionista avesse travalicato il limite indicato, ledendo la dignità e il prestigio dei componenti della Corte di assise d'appello di Genova. Con specifico riferimento alla contestata violazione dell'articolo 53 del codice deontologico, il Consiglio dell'Ordine affermava che le espressioni utilizzate dall'Avvocato T. eccedevano i criteri di correttezza imposti dalla legge e dalla dignità della funzione difensiva. Tale decisione veniva impugnata dall'Avvocato T. , il quale ne chiedeva la riforma assumendo la inesistenza, nel caso di specie, di qualsivoglia illecito disciplinare. In particolare il ricorrente deduceva che, una volta affermata la sussistenza del diritto di critica costituzionalmente tutelato, doveva ritenersi che esso fosse rafforzato per il difensore in ragione del magistero esercitato, esso pure costituzionalmente tutelato, nell'ambito di vicende di rilevanza pubblica. L'Avvocato T. osservava quindi che la semplice lettura del dispositivo consentiva di rilevare che, in presenza degli stessi elementi di vantazione, erano stati assunti provvedimenti giurisdizionali di segno opposto, che giustificavano l'affermazione di una visione schizofrenica della medesima questione ad opera dell'autorità giudiziaria. L'affermazione secondo cui la sentenza della Corte di assise d'appello sarebbe stata espressione di arroganza si giustificava poi per avere tale organo giudiziario manifestato un contegno incurante della competenza dell'esperto che il giudice di primo grado aveva nominato e che aveva assunto conclusioni favorevoli alle tesi difensive dell'imputato. Ed ancora, quanto all'affermazione secondo cui i giudici avevano ceduto ad una tentazione di giustizialismo, il ricorrente rilevava che la stessa era riferita ad una filosofia processuale antitetica a quella che si sostanziava nel cosiddetto garantismo. Il ricorrente osservava infine che non era, nella specie, evocabile in alcun modo la violazione del limite di continenza. Con decisione depositata il 22 ottobre 2010, il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso. Il Consiglio ha innanzitutto rilevato non essere controverso il fatto storico oggetto del procedimento disciplinare e cioè che l'Avvocato T. , nel corso di un'intervista, avesse pronunciato le frasi riportate nel capo di incolpazione, atteso che in tutto il procedimento l'Avvocato T. non aveva mai negato di aver pronunciato le dette frasi. Il Consiglio Nazionale Forense ha poi ritenuto infondato l'assunto del ricorrente che aveva invocato, quale scriminante, il diritto di critica ed aveva contestato la portata offensiva delle espressioni oggetto di incolpazione. Richiamata la propria giurisprudenza sui limiti al diritto di critica, il C.N.F. ha rilevato che l'espressione schizofrenia della giustizia era palesemente offensiva, sia se riferita al singolo organo giudicante, sia se riferita all'intero sistema giustizia, richiamando, nel linguaggio medico e in quello comune, una grave patologia psichiatrica. Sconveniente era poi il fatto di aver qualificato l'operato della Corte di assise d'appello come un gravissimo atto di arroganza, posto che l'arroganza nel linguaggio comune è definita come presunzione temeraria e insolente, e di aver ulteriormente accentuato il disvalore della condotta dell'organo giudicante affermando che la sentenza era frutto di una presunzione incredibile. Censurabile era infine l'accusa rivolta all'organo giudicante di aver ceduto alla tentazione di un recupero di giustizialismo, atteso che tale ultimo termine era stato utilizzato per indicare in tono spregiativo un presunto abuso di potere da parte dell'autorità giudiziaria. In conclusione, ad avviso del C.N.F., le espressioni utilizzate dal professionista per le quali era stata irrogata la sanzione disciplinare - singolarmente esaminate e, a maggior ragione, valutate nel loro insieme - esorbitavano dal diritto di critica ed erano lesive del prestigio e della dignità della Cotte di assise d'appello di Genova, poiché il professionista non si era limitato ad indicare le ragioni per cui egli riteneva erronea la decisione, ma aveva posto in dubbio la capacità di quella Corte di giudicare in modo sereno e corretto, accusando l'organo giudiziario di versare in uno status soggettivo patologico e caratteriale tale da comprometterne la capacità di giudizio e di essere condizionato da finalità estranee al processo. Né la condotta del professionista poteva trovare giustificazione nel contesto in cui le espressioni erano state pronunciate, atteso che la lettura della sentenza della Corte di assise d'appello evidenziava come il detto Giudice avesse dimostrato in modo puntuale, chiaro e lineare le ragioni per cui aveva disatteso le conclusioni del consulente d'ufficio su cui si era fondata la sentenza di primo grado. La sentenza d'appello, del resto, era stata confermata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto che la Corte di assise d'appello avesse dimostrato in modo assolutamente lampante e inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali sulla scorta delle argomentazioni puntuali e pertinenti del consulente tecnico del Pm”. Per la cassazione di questa decisione ha proposto ricorso l'Avvocato C T. sulla base di un unico motivo. Motivi della decisione Con l'unico motivo di ricorso, il ricorrente denuncia erronea applicazione dell'art. 20 codice deontologico forense, nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione, per non avere la decisione impugnata valutato unitariamente, in tutti i profili, i comportamenti oggetto degli addebiti. Il ricorrente rileva innanzitutto che il citato articolo 20 del codice deontologico è volto a presidiare l'onore, il decoro e il prestigio della classe forense nei confronti dei magistrati, dei terzi e delle controparti osserva tuttavia che le espressioni oggetto del capo di incolpazione non integravano affatto una infrazione della regola deontologica giacché con esse non era stata posta in dubbio la capacità di giudizio della Corte di assise d'appello, né la stessa era stata accusata di versare in uno status soggettivo patologico, trattandosi piuttosto di espressioni pronunciate dal difensore nell'esercizio dell'attività di sua competenza, ai fine del difendersi efficacemente”. La difesa dell'Avvocato T. ricorda quindi che in tema di espressioni sconvenienti od offensive assume rilievo la disposizione di cui all'articolo 89 cod. proc. civ., il quale stabilisce che le parti e i difensori, negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati innanzi al giudice, non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive. La citata disposizione, nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile e il diritto della controparte al decoro e all'onore, ha attribuito prevalenza al primo, nel senso che l'offesa all'onore e al decoro della controparte comporta l'obbligo del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l'esercizio del diritto di difesa obbligo che viceversa non sussiste nell'ipotesi in cui le espressioni, pur non trovandosi in un rapporto di necessità con le esigenze della difesa, presentino, tuttavia, una qualche attinenza con l'oggetto della controversia. In tal senso rileverebbe anche l'articolo 598 cod. pen., a norma del quale non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'autorità giudiziaria, quando le offese concernono l'oggetto della causa. Sarebbe quindi sufficiente che le offese provengano dalle parti o dai loro patrocinatori e concernano l'oggetto della causa per ritenere le espressioni non sanzionagli così come non sanzionabili dovrebbero ritenersi le offese dirette ai giudici delle precedenti fasi dei giudizio o ai loro ausiliari, o anche a persone estranee alla causa, purché ovviamente esse concernano l'oggetto della causa medesima. Sotto altro profilo il ricorrente si duole del fatto che la decisione impugnata non abbia ricondotto le espressioni oggetto di incolpazione all'esercizio del diritto di critica, che deve ritenersi ammissibile anche nel caso in cui sia aspra ed abbia ad oggetto le sentenze, sia sotto il profilo giuridico che sul piano della valutazione dei fatti. Il Consiglio Nazionale Forense - conclude il ricorrente - ha invece escluso l'esimente dell'esercizio del diritto di critica utilizzando una locuzione le espressioni utilizzate dal professionista e per le quali è stata irrogata la sanzione disciplinare esorbitano dal diritto di critica che integrerebbe un caso classico di motivazione apparente. Il ricorso è infondato in entrambi i profili in cui si articola. Deve innanzitutto escludersi che le espressioni pronunciate dall'incolpato nel corso di un'intervista rilasciata all'esito della lettura del dispositivo di una sentenza da parte della Corte di assise d'appello di Genova possano costituire, così come sostenuto dal ricorrente nella prima parte del motivo di ricorso, esercizio del diritto di difesa. Si tratta invero di espressioni in alcun modo riferibili all'esercizio di tale diritto, in quanto non pronunciate nel corso del giudizio, ma all'esito dello stesso e non nell'esercizio del diritto di impugnare una sentenza sfavorevole. Non vi è quindi luogo a ricondurre le dette espressioni, per la sede nella quale sono state pronunciate, allo svolgimento della attività professionale dell'incolpato e all'esercizio del diritto di difesa in favore del suo assistito. Infondato è altresì il motivo nella parte in cui censura la decisione impugnata per il mancato riconoscimento della esimente derivante dall'esercizio del diritto di critica dei provvedimenti giudiziari. Il Consiglio Nazionale Forense, invero, ha premesso che, seppure il diritto di critica nei confronti di qualsiasi provvedimento giudiziario costituisca facoltà inalienabile del difensore, tale diritto deve essere sempre esercitato, in primo luogo, nelle modalità e con gli strumenti previsti dall'ordinamento processuale e mai può travalicare i limiti del rispetto della funzione giudicante, riconosciuta dall'ordinamento con norme di rango costituzionale nell'interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa. Richiamando un proprio precedente ha quindi affermato che la giusta pretesa di vedere riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità dell'avvocato rispetto al magistrato impone, nei reciproci rapporti, un approccio improntato sempre allo stile e al decoro, oltre che, ove possibile, all'eleganza, mai al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio. Fatta tale premessa ed esaminate le espressioni addebitate all'Avvocato ricorrente, sia singolarmente e per il tenore delle parole utilizzate alla luce anche della portata evocativa delle stesse, sia nel loro complesso, il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto che le dette espressioni esorbitassero dal diritto di critica e fossero perciò lesive del prestigio e della dignità della Corte di assise d'appello di Genova. A riprova di tale valutazione, il Consiglio Nazionale Forense ha ricordato che la Corte di cassazione penale ha confermato la sentenza della Corte di assise d'appello alla quale si riferivano le espressioni dell'incolpato, rilevando come la detta sentenza abbia dimostrato in modo assolutamente lampante e inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali sulla scorta delle argomentazioni puntuali pertinenti del consulente tecnico del Pm”. Orbene, vertendosi in materia di responsabilità disciplinare, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti o delle dichiarazioni, l'accertamento in concreto dell'attitudine offensiva delle espressioni usate, la valutazione dell'esistenza dell'esimente del diritto di critica costituiscono accertamenti di fatto, apprezzamenti e valutazioni riservate all'organo disciplinare, insindacabili in sede di legittimità se sorretti - come nella specie - da motivazione congrua, esaustiva ed esente da vizi logici. Si può solo aggiungere che, avendo l'Avvocato incolpato pronunciato le richiamate espressioni solo sulla base del dispositivo della sentenza emessa dalla Corte di assise d'appello di Genova, appare difficilmente sostenibile non solo che quelle espressioni fossero correlate all'esercizio del diritto di difesa, ma che le stesse potessero costituire anche una critica argomentata sul piano tecnico delle ragioni in base alle quali l'organo giudiziario era pervenuto ad una decisione sfavorevole al suo assistito, una tale critica potendosi ipotizzare solo una volta che la sentenza venga depositata e siano quindi conoscibili le motivazioni che hanno indotto il giudice ad adottare una determinata decisione. Il ricorso deve essere quindi rigettato. Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio in assenza di parti costituite. P.Q.M. La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.