Negozio in perdita, «solo per far prendere la pensione a mia moglie»: legittimo l’accertamento del Fisco

La giustificazione addotta dal titolare ha convinto i giudici di primo e di secondo grado, ma ha lasciato perplessi quelli della Cassazione, che ritengono corretti il ragionamento e l’operato dell’Agenzia delle Entrate. Indicativi due dati un reddito annuale bassissimo e una spesa per i dipendenti pari a circa 40mila euro.

Negozio costantemente in perdita, almeno stando ai dati ufficiali, e tenuto aperto dal proprietario solo per consentire alla moglie, sua collaboratrice , di raggiungere i requisiti previsti per la pensione minima. Questa ricostruzione non convince però i giudici, come già non aveva convinto il Fisco, e così riprendere vigore l’accertamento a carico del piccolo imprenditore – pensionato e proprietario di immobili, peraltro – per una cifra superiore ai 20mila euro Cassazione, ordinanza n. 8925/20, sez. tributaria, depositata il 14 maggio . Riflettori puntati su una bottega. A insospettire il Fisco due dati su tutti il reddito annuale dichiarato, che non raggiunge neanche i 500 euro, e la spesa relativa ai dipendenti, pari a circa 40mila euro. Inevitabile l’ accertamento , caratterizzato dal sospetto che in realtà ci siano almeno 20mila euro di ricavi non dichiarati. Due le carte giocate dall’Agenzia delle Entrate gli studi di settore , da un lato, e l’evidente antieconomicità dell’impresa, dall’altro. Per i giudici tributari, però, la gestione chiaramente in perdita del negozio è giustificata dalle entrate ulteriori percepite dal negoziante quale pensionato e titolare di redditi immobiliari e dall’essere lui coadiuvato dalla moglie, per la quale non è ancora decorso il periodo necessario per conseguire la pensione minima . In sostanza, per i giudici tributari la continuazione della attività di impresa è rinvenibile non nel conseguimento del profitto, ma nella necessità di portarla avanti per far decorrere il tempo utile alla maturazione del diritto alla pensione della moglie . La visione tracciata in secondo grado viene fortemente censurata dall’Agenzia delle Entrate, che sostiene come la antieconomicità della gestione imprenditoriale – reddito dichiarato pari a 178 euro, a fronte di costi per lavoro dipendente pari a circa 40mila euro – è sufficiente a legittimare l’accertamento di un maggiore reddito imponibile con ricavi ipotizzati sopra i 26mila euro. Per i Giudici della Cassazione le osservazioni proposte dall’Agenzia delle Entrate sono dotate di senso, anche perché l’avviso di accertamento è fondato non solo sui dati risultanti dagli studi di settore con determinazione di maggiori ricavi per circa 26mila euro , ma anche sulla antieconomicità della gestione dell’impresa, in quanto a fronte di un reddito annuo dichiarato per il 2004 pari a 178 euro, sono stati sostenuti costi per spese per il personale pari ad 40mila euro, dovendosi anche tenere conto dell’apporto della moglie del titolare quale coadiutrice . Nessun dubbio, quindi, sul fatto che tali dati siano sufficienti per parlare di condotta antieconomica e per consentire un accertamento induttivo a carico del proprietario del negozio. Va respinta, invece, chiariscono dalla Cassazione, la tesi secondo cui l’antieconomicità della condotta imprenditoriale è giustificata dalle parole del proprietario, il quale ha dichiarato di avere continuato l’attività commerciale solo per consentire alla moglie, coadiutrice dell’impresa, di maturare la pensione minima . Per i Giudici del ‘Palazzaccio’ non è affatto convincente la tesi per cui un’impresa continua la sua attività, con redditi praticamente azzerati, pur continuando ad erogare spese per lavoro che arrivano anche a 40mila euro solo per consentire alla coniuge del titolare di maturare la pensione minima . E neppure è plausibile che l’imprenditore porti avanti una attività in pareggio di bilancio, attingendo, quindi, per il suo sostentamento alla propria pensione ed alla titolarità di redditi immobiliari , concludono dalla Cassazione. Necessario ora un approfondimento in Commissione tributaria regionale, laddove, tenendo presenti non solo le risultanze degli studi di settore ma anche ricavi, costi sostenuti, spese per il pagamento dei dipendenti, numero dei dipendenti e posizione dell’attività , i giudici dovranno pronunciarsi nuovamente sulla legittimità dell’accertamento operato dal Fisco.

Corte di Cassazione, sez. Tributaria Civile, ordinanza 29 gennaio - 14 maggio 2020, n. 8925 Presidente Crucitti - Relatore D'Orazio Rilevato che 1. La Commissione tributaria regionale della Toscana rigettava l'appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara che aveva accolto il ricorso proposto da En. No. contro l'avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, per l'anno 2004, utilizzando anche lo strumento degli studi di settore ed evidenziando l'antieconomicità dell'impresa di merceria da lui gestita al centro di Massa. In particolare, il giudice di appello evidenziava che l'antieconomicità della gestione era giustificata, da un lato, dalle entrate percepite dal contribuente quale pensionato e titolare di redditi immobiliari e, dall'altro, dall'essere coadiuvato dalla moglie, per la quale non era ancora decorso il periodo necessario per conseguire la pensione minima . L'interesse che aveva indotto il contribuente alla continuazione della attività di impresa era, dunque, rinvenibile non nel conseguimento del profitto, ma nella necessità di protrarre l'attività per far decorrere il tempo utile alla maturazione del diritto alla pensione della moglie. 2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate. 3. Resta intimato il contribuente, nonostante la regolarità della notifica. Considerato che 1. Anzitutto, si rileva che il ricorso per cassazione è tempestivo. Invero, la sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 7-6-2011 ed il ricorso per cassazione della Agenzia delle entrate è stato spedito per la consegna il 16-7-2013. Tuttavia, ai sensi dell'art. 39 comma 12 D.L. 6 luglio 2011, n. 98 al fine di ridurre il numero delle pendenze giudiziarie e, quindi, concentrare gli impegni amministrativi e le risorse sulla proficua e spedita gestione del procedimento di cui al comma 9 le liti fiscali di valore non superiore a 20.000 Euro in cui è parte l'Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 31 dicembre 2011, dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio possono essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto l'atto introduttivo del giudizio con il pagamento delle somme determinate ai sensi dell'articolo 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 . Inoltre, all'art. 39, comma 12, lettera c si precisa che le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente comma sono sospese fino al 30 giugno 2012. Per le stesse sono altresì sospesi, sino al 30 giugno 2012 i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio . La controversia in esame, in effetti, ha per oggetto l'impugnazione di un avviso di accertamento per l'importo di Euro 20.580,25, comprensivo però di sanzioni per Euro 3.823,50 e sanzioni irap per Euro 279,75 cfr. avviso di accertamento n. R5X01T200287/2006 e ricorso del contribuente in primo grado prodotti in atti sicché il valore della lite è inferiore alla soglia dei 20.000 Euro. 1.1. Con il primo motivo di impugnazione l'Agenzia delle entrate deduce la violazione e/o falsa applicazione di legge, segnatamente delle norme di cui al combinato disposto degli artt. 62 sexies , D.L. 331/1993 e 39, comma 1, lettera d, D.P.R. 600/1973, in relazione all'art. 360, n. 3 , c.p.c. , in quanto il giudice di appello ha ritenuto provata la antieconomicità della gestione imprenditoriale, tanto che il reddito dichiarato era di Euro 178,00 per l'anno 2004, a fronte di costi per lavoro dipendente pari ad Euro 40.990,00, ma ha affermato che tale circostanza non è sufficiente a legittimare l'accertamento di un maggiore reddito imponibile. 2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la assenza e/o carenza e/o illogicità della motivazione, ed omessa disamina circa fatti decisivi per il giudizio, in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c. , in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto di alcuni fatti decisivi per la soluzione della controversia, rappresentati, oltre che dai dati provenienti dagli studi di settore, dai quali è emersa la determinazione di maggiori ricavi per l'attività svolta pari ad Euro 26.336,00, anche dagli imponenti costi sostenuti per pagare le spese del personale. 2.1. I motivi primo e secondo, che possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati. Invero, dagli atti processuali emerge che l'avviso di accertamento è fondato non solo sui dati risultanti dagli studi di settore con determinazione di maggiori ricavi per Euro 26.336,00 , ma anche sulla antieconomicità della gestione dell'impresa, in quanto a fronte di un reddito annuo dichiarato per il 2004 pari ad Euro 178,00, sono stati sostenuti costi per spese per il personale pari ad Euro 40.990,00, dovendosi anche tenere conto dell'apporto della moglie del contribuente quale coadiutrice. L'art. 62 sexies D.L. 331/1993, nel testo all'epoca vigente, prevede che gli accertamenti di cui agli artt. 39, primo comma, lettera d, D.P.R. 600/1973, e successive modificazioni, e 54 D.P.R. 633/1972, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell'art. 62 bis del presente decreto . Nella specie, emerge dagli atti che l'accertamento si è fondato anche sugli studi di settore, da cui è emersa una discrepanza tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi pari ad Euro 26.336,00, ma ha utilizzato anche il metodo induttivo, in relazione alla antieconomicità della condotta imprenditoriale. Il fatto che l'accertamento sia basato sullo studio di settore non esclude, dunque, che esso possa trovare anche altre giustificazioni, come nel caso di ritenuta antieconomicità della gestione. Si è affermato, quindi, che un accertamento tributario può dirsi fondato su uno studio di settore solo nel caso in cui trovi in esso il suo fondamento prevalente. Ciò non si verifica quando, mediante l'utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l'Ente accertatore ad approfondire l'analisi, scoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell'esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l'Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell'accertamento tributario Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, Cass., 6 giugno 2019, n. 15344 . Per questa Corte l'Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest'ultima sia intrinsecamente inattendibile per l'antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un unico elemento presuntivo, purché preciso e grave Cass., sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27552, che evidenzia l'abnormità della percentuale di ricarico Cass., sez. 5, 25 ottobre 2017, n. 25257 Cass., sez. 5, 18 maggio 2012, n. 7871 . Non v'è dubbio, quindi, che l'avere dichiarato redditi per l'anno 2004 pari ad Euro 178,00, a fronte di spese per lavoro dipendente per Euro 40.990,00, costituisca condotta antieconomica, idonea a consentire un accertamento induttivo ai sensi dell'art. 39 comma 2 lettera d D.P.R. 600/1973. Il giudice di appello ha reso una motivazione del tutto insufficiente, laddove ha giustificato l'antieconomicità della condotta imprenditoriale, semplicemente avvalorando la tesi del contribuente che ha dichiarato di avere continuato l'attività commerciale solo per consentire alla moglie, coadiutrice dell'impresa, di maturare la pensione minima . Non è affatto convincente la tesi per cui un'impresa continua la sua attività, con redditi praticamente azzerati Euro 178,00 nel 2004 ed Euro 344,00 nel 2004 , pur continuando ad erogare spese per lavoro dipendente pari ad Euro 40.990,00 nel 2004 ed a Euro 38.403,00 nel 2003, al fine esclusivo di consentire alla coniuge di maturare la pensione minima. Neppure è plausibile che l'imprenditore porti avanti una attività in pareggio di bilancio, attingendo, quindi, per il suo sostentamento alla propria pensione ed alla titolarità di redditi immobiliari. Peraltro, in motivazione non si indicano né l'importo della pensione dell'imprenditore né l'eventuale locazione a terzi degli immobili di proprietà del No Il giudice del rinvio dovrà, dunque, rivalutare gli elementi di fatto, del tutto negletti nella motivazione della sentenza della Commissione regionale. In particolare, occorrerà porre attenzione, oltre che alle risultanze degli studi di settore, anche ai ricavi, ai costi sostenuti, alle spese per il pagamento dei dipendenti, al numero dei dipendenti ed alla posizione dell'attività al centro di Massa. 3. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, che provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.