Il litisconsorzio necessario nel processo tributario

Pur essendo vero che il ricorso proposto da uno dei soci, o dalla società, avverso un avviso di rettifica riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci, ricorrendo in tali casi un’ipotesi di litisconsorzio necessario originario, tuttavia, la partecipazione di tutti i soci al giudizio relativo al reddito societario, fa comunque sì che la sentenza resa sia ad essi opponibile e che non sia violato il disposto dell'art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui, se l'oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo.

Il caso. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16204/18 depositata il 20 giugno, per quanto qui di interesse, ha chiarito quali sono i presupposti per poter invocare il litisconsorzio necessario nel processo tributario. Nel caso di specie, una S.a.s. e le socie impugnavano l'avviso di accertamento con il quale, a seguito dell’applicazione della normativa sulle società non operative ed il rigetto dell'istanza di interpello disapplicativo, veniva accertato un maggior reddito imponibile per l'anno 2006. La socia accomandante era anche destinataria di separato avviso di accertamento individuale per il recupero della maggiore IRPEF, in conseguenza del maggior reddito accertato alla società, poi impugnato davanti ad altra CTP. La CTP rigettava il ricorso proposto dalla società e dalle socie, con sentenza poi confermata dalla CTR. Contro la sentenza della CTR la stessa società e le socie ricorrevano in Cassazione, deducendo, tra le altre, nullità della sentenza per violazione degli artt. 39 e 101 c.p.c., nonché dell'art. 14, comma 1, d.lgs. n. 546/1992, e dell’art. 5 d.P.R. n. 917/1986, per avere la CTR emesso la sentenza senza previa integrazione del contraddittorio con tutti i soci. La decisione. Il ricorso, secondo la Suprema Corte, era infondato. Evidenziano infatti i Giudici di legittimità che, pur essendo vero che il ricorso tributario proposto da uno dei soci, o dalla società, avverso un avviso di rettifica riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali , ricorrendo in tali casi un’ipotesi di litisconsorzio necessario originario tra tutti questi soggetti cfr., Cass., n. 20488/15 , tuttavia, nel caso di specie, l’avvenuta partecipazione di tutti i soci al giudizio relativo al reddito societario, faceva comunque sì che la sentenza resa fosse ad essi opponibile. Contro l'avviso di accertamento relativo alla società, sia la persona giuridica, che la socia accomandataria, che la socia accomandante e quindi l'intera compagine sociale , avevano infatti proposto ricorso alla CTP e, successivamente, alla CTR. E anche il ricorso in cassazione, sempre relativamente all'ambito del procedimento sul reddito della società, era stato proposto dagli stessi soggetti. Si era pertanto verificato, nella sostanza, quanto richiesto dall'art. 14 d.lgs. n. 546/1992, secondo cui se l'oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo. Poichè il giudizio sul reddito societario è logicamente pregiudiziale rispetto a quello sul reddito dei singoli soci, perchè unica è la materia imponibile, sebbene soggetta a diversa disciplina impositoria, nel momento in cui questi ultimi partecipano al primo, sono comunque pienamente contraddittori, di fatto, anche per quanto riguarda i propri redditi imputati, per trasparenza, in dipendenza del reddito societario. E il fatto che, nella specie, la socia accomandante avesse impugnato separatamente l'avviso di accertamento relativo al proprio reddito personale ai fini Irpef non era manifestazione, quindi, di un’avvenuta violazione del litisconsorzio necessario, perchè, partecipando la stessa anche al giudizio sul reddito della società, la sentenza resa in questo giudizio era ad essa pienamente opponibile, sia in senso favorevole che sfavorevole, ai fini del giudizio sul proprio reddito personale. Conclusioni e osservazioni. Anche con riguardo al contenzioso tributario, l'integrazione del contraddittorio è obbligatoria, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., non solo in ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, quando cioè i rapporti dedotti in causa siano assolutamente inscindibili e non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio cd. cause inscindibili , ma altresì in ipotesi di cause che, riguardando due o più rapporti scindibili, ma logicamente interdipendenti tra loro, o dipendenti da un presupposto di fatto comune, meritano, per esigenze di non contraddizione, l'adozione di soluzioni uniformi nei confronti delle diverse parti cd. cause dipendenti . Laddove tali rapporti siano stati decisi, nel precedente grado di giudizio, in un unico processo, la norma assicura dunque che il simultaneus processus non sia dissolto, e che le cause restino unite anche in sede di successiva impugnazione, al fine di evitare che, nelle successive vicende processuali, conducano a pronunce definitive di contenuto diverso. Nell'ipotesi di omessa impugnazione, nei confronti di tutte le parti, di sentenza pronunciata in causa caratterizzata sia da litisconsorzio necessario sostanziale che processuale, il giudice di appello, in applicazione dell'art. 331 c.p.c., deve quindi disporre l'integrazione del contraddittorio, e, in difetto di emissione di tale ordine, il gravame non è inammissibile, ma sono nulli - e il relativo vizio è rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità - l'intero procedimento di secondo grado e la sentenza che lo ha concluso. L'intervento adesivo dipendente, previsto dall'art. 14 d.lgs. n. 546/1992, determina, del resto, anch’esso un'ipotesi di causa inscindibile, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., con conseguente configurabilità di un litisconsorzio necessario processuale in grado di appello. Non esiste quindi nullità del giudizio quando la trattazione delle cause risulti essere avvenuta senza pregiudizio del diritto di difesa delle parti e con esclusione di ogni possibilità di contrasto tra giudicati. L'art. 14, comma 1, mutua, peraltro, la previsione di litisconsorzio necessario disposta dall'art. 102 c.p.c., il quale stabilisce che quando l'oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, tanto che la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi, tutti i legittimi contraddittori devono essere parti nello stesso processo. Laddove per inscindibilità tra più soggetti si intende la necessità di una com presenza in giudizio di una pluralità di soggetti, i quali, comunque, costituiscono così un'unica parte processuale.

Corte di Cassazione, sez. Tributaria Civile, sentenza 28 marzo – 20 giugno 2018, n. 16204 Presidente Locatelli – Relatore Venegoni Fatti di causa La società Fattoria di Martignana sas e le socie impugnavano l'avviso di accertamento con il quale veniva accertato un maggior reddito imponibile per l'anno 2006, a seguito della applicazione della normativa sulle società non operative ed il rigetto dell'istanza di interpello disapplicativo. La socia accomandante N.F. di omissis era anche destinataria di separato avviso di accertamento individuale per il recupero della maggiore irpef in conseguenza del maggior reddito accertato alla società, che impugnava davanti alla CTP di Grosseto. La CTP di Firenze rigettava il ricorso contro il primo avviso di accertamento proposto dalla società e dalle socie, e la CTR della Toscana rigettava l'appello. Contro la sentenza della CTR la stessa società e le socie ricorrono a questa Corte sulla base di sette motivi. L'Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso. Il ricorso, già assegnato alla Sesta sezione per l'udienza del 10.6.2015, è stato rimesso a questa sezione con ordinanza n. 23987 del 2015 per impossibilità di decisione camerale per mancata condivisione da parte del collegio delle conclusioni del relatore. Ragioni della decisione Con il primo motivo le ricorrenti deducono nullità della sentenza di appello per violazione degli artt. 39 e 101 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 1, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la CTR emesso la sentenza senza previa integrazione del contraddittorio con tutti i soci. Con il secondo motivo deducono violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in relazione alla L. n. 724 del 1994, art. 30, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denunciando la illegittimità costituzionale della normativa sull'accertamento del reddito delle società di comodo che si basa su presunzioni senza necessario previo contraddittorio. Con il terzo motivo deducono violazione del principio comunitario di proporzionalità, in relazione alla L. n. 724 del 1994, art. 30, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, chiedendo la disapplicazione della normativa suddetta, ed in subordine il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Con il quarto motivo deducono nullità della sentenza di appello per violazione dell'art. 112 c.p.c., perchè non si è pronunciata sul difetto di motivazione dell'avviso di accertamento, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Con il quinto motivo deducono violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 1, L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 2 e 3, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato sulla interpretazione della normativa sulla motivazione dell'avviso di accertamento, in quanto quest'ultimo non conteneva alcuna spiegazione sul motivo per cui aveva ritenuto che nella specie non ricorressero oggettive situazioni che giustificavano la disapplicazione della normativa sulle società di comodo. Con il sesto motivo deducono nullità della sentenza di appello per violazione dell'art. 112 c.p.c., poichè non si è pronunciata sull'eccepita violazione del divieto di doppia imposizione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Con il settimo motivo deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 1 e 163, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, e L. n. 724 del 1994, art. 30, nonchè degli artt. 981,982 e 984 c.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente applicato i principi in tema di soggettività passiva tributaria del nudo proprietario ed avere, di conseguenza, violato il principio di divieto di doppia imposizione. Il primo motivo è infondato. E' vero che il ricorso tributario proposto da uno dei soci o dalla società anche avverso un solo avviso di rettifica riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali , cosicchè in tali casi ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario originario tra tutti questi soggetti Sez. 6^-5, n. 20488 del 2015 . Nel caso di specie, tuttavia, la partecipazione di tutti i soci al presente giudizio, relativo al reddito societario, fa sì che la sentenza resa in questo giudizio sia ad essi opponibile. La stessa parte ricorrente afferma, infatti, nell'atto introduttivo del presente giudizio che contro l'avviso di accertamento relativo alla società, sia la persona giuridica, che la socia accomandataria, che la socia accomandante e quindi l'intera compagine sociale , ricorrevano alla CTP di Firenze e, successivamente, alla CTR della Toscana, come del resto emerge anche dalla lettura della sentenza di quest'ultima. Anche il ricorso del presente giudizio, sempre nell'ambito del procedimento sul reddito della società, è proposto dagli stessi tre soggetti. Si è verificato, quindi, nella sostanza quanto richiesto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, secondo cui se l'oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo. Poìchè il giudizio sul reddito societario è logicamente pregiudiziale rispetto a quello sul reddito dei singoli soci - perchè unica è la materia imponibile, sebbene soggetta a diversa disciplina impositoria Sez. Un., n. 14815 del 2008 con riferimento all'ilor ed all'irpef, e Sez. Un., n. 10145 del 2012 con riferimento all'irap ed all'irpef -, nel momento in cui questi ultimi partecipano al primo, sono pienamente contraddittori, di fatto, anche per quanto riguarda i propri redditi imputati per trasparenza in dipendenza del reddito societario. Il fatto che nella specie la socia accomandante abbia impugnato separatamente l'avviso di accertamento relativo al proprio reddito personale ai fini irpef non è manifestazione, quindi, di una avvenuta violazione del litisconsorzio necessario, perchè, partecipando la stessa anche al giudizio sul reddito della società, la sentenza resa in questo giudizio è ad essa pienamente opponibile - sia in senso favorevole che sfavorevole - ai fini del giudizio sul proprio reddito personale. Il secondo motivo è infondato. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, in una controversia relativa sempre all'anno 2006, come la presente, anche su uno degli aspetti denunciati nel presente ricorso - e cioè la applicazione della nuova versione della norma, introdotta proprio durante il 2006 con il D.L. n. 223, di quell'anno, conv. in L. n. 248 del 2006, all'anno in corso - affermando, con motivazione che si condivide in questa sede ed alla quale ci si richiama, che è vero che lo stesso si limita a prevedere un meccanismo di determinazione del reddito basato su presunzioni, ma esse sono superabili con prova contraria, laddove il contribuente, in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi e degli altri elementi rilevanti per la determinazione del reddito imponibile, può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive Sez. 5^, n. 21358 del 2015 . Nè questa appare trattarsi, come ritiene il contribuente, di prova impossibile, riguardando dati oggettivi che possono venire indicati come elementi che hanno avuto una influenza sulla mancata produzione del reddito. Al riguardo, infatti, questa Corte ha precisato che la nozione di impossibilità di cui alla disposizione in esame va intesa non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato Sez. 5^, n. 5080 del 2017 , e quindi non si tratta di una prova che non può, per sua natura, essere mai fornita. Il terzo motivo è infondato. La normativa in questione - peraltro puramente nazionale - non appare violare il principio di proporzionalità anche alla luce del diritto dell'Unione atteso che, come affermato dalla Corte di Giustizia, una normativa nazionale che si fonda su un esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se una transazione consista in una costruzione di puro artificio ai soli fini fiscali va considerata come non eccedente quanto necessario per prevenire pratiche abusive quando il contribuente è messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione è stata conclusa CGUE, caso C524/04 . Trasponendo tale principio alla fattispecie del presente giudizio, nel momento in cui la normativa permette al contribuente di dimostrare senza eccessivi aggravi le ragioni per le quali la società non è stata in grado di produrre il reddito minimo al di sotto del quale si applica la normativa in tema di società non operative, tale normativa non può considerarsi non conforme al principio di proporzionalità. Nè sussistono i presupposti per disporre il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Premesso che, per giurisprudenza della stessa Corte Europea, l'obbligo per il giudice di ultima istanza di operare il rinvio non determina la rinuncia ad una valutazione autonoma da parte del giudice stesso circa la necessità di rivolgersi alla Corte di giustizia CGUE, 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit Cass., sez. un., ord. n. 20701 del 2013 , nel caso di specie appare lecito dubitare della influenza della questione in relazione al caso concreto, requisito che è, invece, necessario per disporre il richiesto rinvio pregiudiziale. Quand'anche, infatti, la Corte di Giustizia dichiarasse che il diritto dell'Unione osta all'esistenza di una normativa come quella di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, e ciò volesse significare che il contribuente deve avere la possibilità di provare il reddito realmente conseguito - e non vederselo determinato sulla base di una presunzione ciò non muterebbe i termini della questione controversa nella presente causa, posto che in questa, Più che addurre il fatto che la società avesse realmente conseguito un reddito inferiore a quello accertato con le presunzioni, che il contribuente è stato nell'impossibilità di dimostrare in virtù della suddetta normativa, si discute della opponibilità al fisco dell'operazione societaria in base alla quale la società invoca l'assenza di reddito in quanto mera nuda proprietaria dei beni sociali, ed i fatti a base di tale operazione non sono solo stati pienamente dedotti dal contribuente, ma sono anche stati valutati dalla CTR. In altri termini, posto che nella specie l'applicazione della normativa sulle società non operative deriva dalla valutazione di non opponibilità all'erario di una operazione societaria - che però la normativa in questione non ha affatto impedito di dedurre e provare in giudizio e di valutare -, una pronuncia sulla suddetta normativa e sulle presunzioni che impedirebbero di dimostrare il reddito effettivo non avrebbe, in realtà, alcun effetto sulla suddetta valutazione dell'operazione societaria che è l'origine, nella prospettazione del ricorrente, dell'assenza di reddito. Il contribuente, in altre parole, non potrebbe dedurre e provare nulla di più di quanto ha già dedotto e provato. Il quarto e quinto motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto attengono alla stessa questione - la motivazione dell'avviso di accertamento sull'esistenza delle condizioni oggettive che hanno impedito alla società di produrre un reddito minimo tale da non fare operare la disciplina di cui alla L. n. 724 del 1994 - sono infondati. E' del tutto evidente, infatti, dalla lettura della sentenza, che la CTR ha considerato implicitamente superato l'aspetto della esistenza delle suddette condizioni oggettive, laddove ha ritenuto che il motivo addotto dalla società per dimostrare la mancanza di reddito il fatto che l'usufrutto di tutti i suoi beni facesse capo ad una socia, e la società fosse solo la nuda proprietaria non fosse idoneo a giustificare questa situazione, e non ha, quindi, omesso di prendere in considerazione tale aspetto. Nè la CTR ha violato la interpretazione delle norme sulla motivazione dell'avviso di accertamento, ritenendo sufficiente quella dell'avviso del caso di specie. Per come è strutturata la norma, il fatto che l'avviso dia solo atto dell'assenza di condizioni oggettive per la disapplicazione della normativa soddisfa l'onere motivazionale a carico dell'ufficio, e, per il contenuto dell'avviso come riprodotto dal contribuente, è evidente che l'Agenzia, pur dando atto della possibilità astratta di disapplicazione in presenza delle suddette condizioni oggettive, ha ritenuto che le stesse non ricorressero, non avendo provveduto in tal senso, motivando così - anche in questo caso almeno implicitamente, ma chiaramente - sul punto. Il sesto e settimo motivo, che ugualmente possono essere trattati congiuntamente attendendo alla stessa questione della doppia imposizione che, secondo il contribuente, si verrebbe a determinare nel caso di specie, sono infondati. La questione può riassumersi nel fatto che, secondo il contribuente, poichè la società è solo nuda proprietaria dei beni, e non produce ricchezza, laddove l'accertamento dell'ufficio attribuisce maggior reddito per la stessa fonte sia alla società che ai soci determina una doppia imposizione. Quanto al motivo basato sulla addotta omessa pronuncia su tale aspetto, in realtà la CTR, seppure con motivazione stringata, si è pronunciata sulla questione. La CTR afferma al riguardo che nel caso di specie le contestazioni di una qualche concretezza riguardano solo la computabilità o meno ai fini delle presunzioni sopra indicate di beni di cui la società di persone avrebbe solo la nuda proprietà essendo l'usufrutto in capo alla socia accomandataria amministratrice. E' infatti evidente come tale ripartizione di diritti reali costituisce solo una modalità di utilizzazione del bene aziendale e dunque il bene stesso possa costituire punto di riferimento per il calcolo presuntivo del reddito configurandosi in caso contrario un palese abuso di diritto . Con ciò la CTR dimostra di avere preso in considerazione la questione della doppia imposizione, escludendola, quanto meno implicitamente, ritenendo corretto il riconoscimento della soggettività passiva tributaria in capo alla società, e considerando la costituzione dell'usufrutto alla socia una mera operazione interna di ripartizione di diritti reali per l'utilizzo dei beni aziendali. Anche il settimo motivo, che riguarda la asserita violazione del principio di divieto di doppia imposizione, è infondato. Lo stesso, infatti, si fonda sull'applicazione strettamente civilistica del principio secondo cui i frutti del bene si producono solo in capo all'usufruttuario e non al nudo proprietario. Tuttavia, non può non evidenziarsi in questo caso la differenza tra il concetto di possesso del reddito ai fini civilistici e quelli tributari, laddove in questi ultimi - in particolare a fini antievasivi o anche antielusivi - può essere necessario fare riferimento alla situazione sostanziale facente capo alle parti e non a quella formale risultante da negozi giuridici. Nella specie, la CTR, in linea con l'interpretazione costante che viene data di tale situazione specifica, ris. 94/e del 2005, 25/e del 2007 e concetto ribadito nella circolare 44 del 2007 secondo la quale è vero che i beni societari in usufrutto a terzi non rilevano ai fini della determinazione del reddito della persona giuridica, ma solo a condizione che dell'usufrutto non siano titolari gli stessi soci, ha ritenuto che l'accertamento fosse fondato ravvisando la titolarità sostanziale del reddito in capo alla società, dovendo - diversamente - considerarsi l'operazione posta in essere come elusiva, e rientrante nel concetto di abuso del diritto. Ha escluso, quindi, che si sia verificata doppia imposizione non ponendo in discussione l'efficacia civilistica dei negozi intervenuti tra società e soci, ma affermandone l'irrilevanza ai fini fiscali, sulla base del suddetto principio della distinzione tra il concetto di reddito ai fini civilistici rispetto a quelli tributari. Il ricorso, in conclusione, deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico delle parti ricorrenti in solido e si liquidano in Euro 2.000. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali del presente giudizio, liquidate in Euro 2.000.