Accertamento, il prezzo del preliminare non giustifica la rettifica

L’accertamento è nullo se fondato sugli importi elevati indicati nel contratto preliminare cessione di immobili , risultando irrilevante il conseguente mutuo erogato ai compratori.

Si deve tenere conto, pertanto, del fatto che dopo la stipula del compromesso sottoscritto su progetto gli accordi possono variare, a nulla rilevando che prima della crisi economica del sistema bancario 2007 era più agevole ottenere finanziamenti dagli istituti di credito così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 26286/17 . Contesto normativo. Circa le modalità operative degli uffici finanziari, l’art. 39 d.P.R. n. 600/1973 disciplina il potere di accertamento che in presenza di irregolarità contabili può procedere ad accertamento analitico, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente quando invece riscontri un’inattendibilità globale delle scritture contabili può procedere, ai sensi del secondo comma della stessa norma, al metodo induttivo. Tale attività, comunque, subisce delle limitazioni, essendo prevista una garanzia per il contribuente nei cui confronti siano stati eseguiti verifiche quest’ultimo, infatti, può comunicare all’ufficio, entro il termine di sessanta giorni, osservazioni e richieste che dovranno essere valutate in ordine ai dati ed elementi su cui si fonderà l’accertamento art. 12 l. n. 212/2000 . La vicenda. Nel caso in esame la società ha impugnato l’accertamento analitico-induttivo con cui l’Agenzia delle Entrate ha rettificato i ricavi sulla base del diverso prezzo riscontrato tra preliminare e rogito la differenza, emergente tra il prezzo definitivo rispetto a quello dei rispettivi preliminari, era stata riscontrata in alcune operazioni di compravendita precedute da compromesso. In primo grado sono state accolte le ragioni della società mentre in appello i Giudici hanno annullato l’accertamento. La Corte, accogliendo l’interpretazione dei Giudici di merito, ha ritenuto che il contratto preliminare è sottoscritto su progetto, quando ancora il manufatto non è ultimato. Pertanto è possibile che siano inserite delle opzioni che non saranno poi realizzate. Pertanto la motivazione del giudice di merito ha correttamente escluso ogni valore presuntivo di maggior ricavo conseguente alle differenze di prezzo tra preliminare e contratto definitivo. I Giudici hanno escluso, inoltre, che la teoria secondo cui in passato le banche erogavano i finanziamenti immobiliari più facilmente sia riconducibile ad opinioni soggettive della CTR. La Corte ha evidenziato che ciò rappresentava, al contrario, un dato largamente condiviso nell’esperienza comune, attribuibile agli anni precedenti alla crisi economica che aveva investito il sistema bancario americano tra il 2007 e 2008 crisi di cui tuttora si risentono le conseguenze, tanto è vero che gli istituti di credito hanno reso più complessa la procedura per accedere a tali finanziamenti riducendone in modo apprezzabile il numero. In conclusione. Sule tema in esame si evidenzia che l’ufficio finanziario non può procedere con metodo induttivo per accertare una plusvalenza patrimoniale a seguito di cessione di immobile. Il legislatore, con la disposizione di cui all’art. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015, ha infatti escluso che l’amministrazione finanziaria possa procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda Cass. n. 16748/17 . Viceversa l’accertamento induttivo che rileva costi esorbitanti” rispetto ai redditi dichiarati dal contribuente può ritenersi legittimo la mancata dimostrazione dei costi contestati dall’ufficio finanziario può giustificare costi così elevati solo se il contribuente ha fornito la prova dell’esistenza ed inerenza dei medesimi Cass. n. 26078/16 .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, ordinanza 14 settembre – 6 novembre 2017, n. 26286 Presidente Cirillo – Relatore Napolitano Ritenuto in fatto 1. Con sentenza depositata in data 27 marzo 2012, la Commissione Tributaria Regionale dell'Aquila, accogliendo parzialmente l'appello proposto per D.G., ha riformato la decisione di primo grado, che aveva respinto il ricorso avverso l'intimazione di pagamento con cui l'ente esattore aveva recuperato la maggiore imposta IRPEF per gli anni dal 1998 al 2002, oggetto di una precedente cartella di pagamento, escludendo l'applicazione delle sanzioni nei confronti della contribuente e compensando le spese di entrambi i gradi di giudizio. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale indicata in epigrafe l'Avvocatura Generale dello Stato per l'Agenzia delle Entrate, articolando tre motivi. 2.1. Con il primo motivo, si lamenta violazione di legge, in riferimento all'art. 132 cod. proc. civ., a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4 , cod. proc. civ., avendo riguardo alla nullità della sentenza per difetto di motivazione. Si deduce che la statuizione di esclusione di applicazione delle sanzioni è del tutto immotivata, perché la sentenza della Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto del tutto infondate le eccezioni del contribuente, e non offre comprensibili ragioni sulla base delle quali ritenere non dovute le sanzioni. Ciò, tanto più che la cartella di pagamento è stata ritenuta dal giudice pienamente valida ed efficace. 2.2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione di legge, in riferimento all'art. 112 cod. proc. civ., a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4 , cod. proc. civ., avendo riguardo alla nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Si deduce che la questione relativa alla inapplicabilità delle sanzioni non era mai stata sollevata dal contribuente nei gradi di merito. A tal fine, si riportano, integralmente sia il testo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, sia il testo dell'atto di appello. Si osserva, poi, che la conclusione presente nei due atti, laddove si chiede che comunque siano dichiarati non dovuti i compensi di riscossione e gli interessi di mora e le sanzioni, non avendo avuto conoscenza della cartella di pagamento , fa riferimento all'atto di intimazione e non alla cartella di pagamento. 2.3. Con il terzo motivo, si lamenta violazione di legge, in riferimento all'art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997, a norma dell'art. 360, comma 1, n. 3 , cod. proc. civ., avendo riguardo alla erroneità dell'esclusione delle sanzioni. Si deduce che, quand'anche si ritengano infondate le censure formulate con i primi due motivi del ricorso, non può escludersi la pretesa erariale con riferimento a sanzioni ed interessi, una volta che si è ritenuta legittima la cartella di pagamento regolarmente notificata a norma dell'art. 60 d.P.R. n. 600 del 1973, mediante affissione dell'atto nell'albo comunale. Ed infatti, l'art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997 dispone che, in caso di omesso o ritardato pagamento dell'imposta, l'ufficio finanziario è legittimato a richiedere l'imposta, maggiorata di una sanzione pari al 30% di ogni importo non versato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito precisate. 2. L'omesso o ritardato pagamento dell'imposta comporta l'applicazione di una sanzione pari al 30% di ogni importo non versato, salvo il caso di eccezioni espressamente previste. Invero, l'art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997 dispone, in linea generale, l'applicazione della sanzione in questione per il caso di omesso o ritardato pagamento dell'imposta e prevede, espressamente, che le sanzioni non si applicano solo quando i versamenti sono stati tempestivamente eseguiti ad ufficio o concessionario diverso da quello competente. Le ipotesi di applicazione di sanzioni in misura ridotta, inoltre, sono previste per situazioni testualmente indicate sia dal medesimo art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997, sia, per il caso di ravvedimento, dall'art. 13 d.lgs. n. 472 del 1997. Inoltre, la generale applicabilità della sanzione pari al 30% dell'importo non versato è stata già evidenziata in giurisprudenza, la quale ha affermato che l'art. 13 del d. Igs. 18 dicembre 1997, n. 471, concernente la riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, imposta sul valore aggiunto e riscossione dei tributi, ha previsto, per tutte le ipotesi di pagamento tardivo, una sanzione generalizzata pari al trenta per cento di ogni importo non versato così Sez. 5, n. 3569 del 16/02/2010, Rv. 611923/01 . 3. La sentenza impugnata ha escluso l'applicazione delle sanzioni per omesso pagamento dell'imposta dovuta, e non contestata, senza esplicitare alcuna ragione, e, quindi, senza evidenziare alcuna situazione idonea a legittimare la mancata applicazione o anche solo la riduzione delle sanzioni. Può aggiungersi che, agli atti, non risulta, né è allegata, l'esistenza di situazioni dalle quali dipende la mancata applicazione o la riduzione delle sanzioni. Di conseguenza, il terzo motivo di ricorso deve essere accolto, con assorbimento degli altri due. L'accoglimento di tale motivo determina l'integrale rigetto dell'originario ricorso proposto dalla contribuente. Le spese del giudizio di merito debbono essere compensate, mentre, in ragione della soccombenza, la contribuente deve essere condannata al pagamento a favore della ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in euro cinquemilaseicento, oltre spese prenotate a debito. P.Q.M. Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l'originario ricorso. Dichiara compensate le spese del giudizio di merito e condanna l'originaria ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.