La richiesta di rateizzazione della cartella di pagamento non equivale all'abbandono della contestazione in giudizio

La rateizzazione chiesta dal contribuente sulla cartella di pagamento non costituisce acquiescenza al contenuto imperativo della stessa cartella e, pertanto, non rappresenta una manifestazione di rinuncia al diritto di contestare in giudizio la pretesa.

Tale assunto è stato statuito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3347 dell’8 febbraio 2017. Il caso. Un contribuente ha impugnato dinanzi al giudice tributario una cartella di pagamento. L'Agente della riscossione, in via pregiudiziale, ha eccepito che il contribuente aveva prestato acquiescenza alla pretesa, atteso che aveva richiesto e ottenuto, prima della notifica del ricorso, la rateizzazione degli importi dovuti. Entrambi i giudici di merito hanno omesso di pronunciarsi sul punto. Equitalia ha proposto ricorso incidentale in Cassazione eccependo la nullità della sentenza del giudice del gravame, per mancata pronuncia sull’eccezione pregiudiziale di acquiescenza da essa proposta, per avere il contribuente chiesto ed ottenuto prima della promozione del ricorso introduttivo di primo grado, senza alcuna riserva, la rateizzazione degli importi portanti in cartella. Gli Ermellini, con la pronuncia citata, hanno precisato che costituisce principio generale nel diritto tributario che non si possa attribuire al riconoscimento di essere tenuto al pagamento contenuto in atti della procedura di accertamento e di riscossione pagamenti, domande di rateizzazione, etc. l'effetto di precludere ogni contestazione sulla pretesa, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario. II contribuente può comunque rinunciare a contestare la pretesa, ma affinché tale forma di acquiescenza si verifichi, occorre il concorso di requisiti indispensabili e cioè - che una controversia tra contribuente e Fisco sia già nata e risulti nei suoi termini di diritto o, almeno, sia determinabile in base agli atti del procedimento - che la rinuncia del contribuente sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci. In definitiva, la rateizzazione chiesta dal contribuente non costituisce acquiescenza in tal senso, atteso che nella specie, lo stesso entro i termini, aveva impugnato la cartella. Riflessioni. Con il termine acquiescenza si indicano determinati effetti che la legge ricollega a certi comportamenti umani, incompatibili con la volontà di avvalersi del sistema di impugnazioni previsto dall’ordinamento giuridico, in ordine ad atti, provvedimenti o decisioni giurisdizionali. L’istituto è frequentemente invocato per paralizzare l’azione del ricorrente e farla dichiarare inammissibile. L’acquiescenza è ravvisabile solamente nel caso in cui ci si trovi in presenza di atti o comportamenti univoci, posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto, tali da dimostrare la chiara ed inconfutabile volontà dello stesso di accettarne gli effetti e l’operatività. L’acquiescenza rilevabile anche d’ufficio è un comportamento, differente ontologicamente dalla rinuncia, che determina l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale. L’acquiescenza può venire prestata esplicitamente rendendo una specifica dichiarazione compiendo atti chiari e concordanti che mettono in evidenza la volontà del soggetto interessato di accettare gli effetti del provvedimento ponendo in essere atteggiamenti comportamentali integralmente incompatibili con la volontà di impugnare il provvedimento innanzi al giudice competente. Non ogni comportamento adesivo equivale ad acquiescenza, ma solo quello caratterizzato dai seguenti requisiti conoscenza piena del provvedimento da parte del soggetto acquiescente comportamento consistente in atti, dichiarazioni, ecc. spontaneo e non imposto, tenuto liberamente dal destinatario dell’atto, che dimostri la chiara ed univoca volontà di accettarne gli effetti anche se pregiudizievoli. Peraltro, all’esecuzione spontanea tendente ad impedire il pregiudizio derivante dall’esecuzione forzata di una sentenza non può attribuirsi un significato di per sé univoco di accettazione della pronuncia ed un errore che sia caduto sull’esecutività della decisione non consente di ravvisare nell’esecuzione spontanea l’elemento psicologico necessario ad attribuire all’adempimento il significato di una condotta non conciliabile con la volontà di impugnare Cass., sent. n. 6050/2002, n. 2281/2004 e, SS.UU., n. 1242/2000 . L’acquiescenza opera sia sul piano sostanziale che su quello giustiziale e consiste in manifestazioni espresse o tacite che rivelano la volontà di accettazione spontanea delle conseguenze di un atto da parte di chi è interessato alla sua caducazione. L’acquiescenza alla sentenza che, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., esclude la proponibilità delle impugnazioni, consiste, oltre che nell’accettazione espressa della pronuncia da parte del soggetto titolare del diritto controverso, anche nel compimento di atti assolutamente incompatibili con la volontà di valersi delle impugnazioni medesime o dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito del soccombente di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia L’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge , consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione Cass. civ., SS.UU., n. 8453/1998 . È esclusa la possibilità di affermare l’acquiescenza per mera presunzione”, perché in tal caso viene a mancare l’univoco riscontro della volontà dell’interessato. La valutazione del comportamento della parte come acquiescenza tacita essendo apprezzamento di fatto”, è funzione del giudice di merito, e, adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità Cass., n. 11803/1998 . Decadenza per decorso del termine, acquiescenza e rinuncia. La decadenza per decorso del termine, l’acquiescenza e la rinuncia hanno effetti preclusivi perché negano la possibilità di ricorrere al giudice e comportano una pronuncia di inammissibilità. In particolare la rinuncia è l’atto volontario con il quale il soggetto titolare del potere di azione manifesta una volontà contraria alla proposizione del ricorso, ovvero, successivamente alla impugnativa, dichiara di desistervi. L’acquiescenza è l’accettazione spontanea e volontaria da parte di chi potrebbe impugnare l’atto, delle conseguenze dell’atto stesso e, quindi, della situazione sfavorevole da esso determinata. La decadenza opera, invece, per decorso dei termini previsti per proporre l’impugnazione. È acquisito Cass., SS.UU., sent. n. 1242/2000 sent. n. 6050/2002 il principio di diritto che il pagamento del credito controverso e delle spese processuali liquidate in una sentenza emessa in grado di appello o comunque esecutiva, ancorché eseguito senza riserva alcuna, non comporta acquiescenza, atteso che l’acquiescenza alla pronuncia del giudice, preclusiva dell’impugnazione, consiste nell’accettazione della sentenza, ossia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non proporre impugnazione-accettazione che può ritenersi tacitamente manifestata soltanto in presenza di un atteggiamento univocamente incompatibile con la volontà di avvalersi dell’impugnazione, che non ricorre in presenza della sola volontaria esecuzione di una sentenza emessa in grado di appello o comunque esecutiva v. anche Cass. n. 15212/2000 . Secondo diverso orientamento sent., cass. civ., sez. trib., n. 8986/2004 L’Amministrazione finanziaria, secondo quanto sostiene senza smentita il resistente, ha prestato acquiescenza alla pronunzia ora impugnata, avendo provveduto a rimborsargli le somme contestate, oggetto della controversia decisa con la pronuncia in esame. A mente dell’art. 329 c.p.c., siffatto comportamento concreta negozio giuridico processuale idoneo ad escludere la proponibilità dell’impugnazione, in quanto esprimente la volontà della parte soccombente di obbedire al decisum ad essa sfavorevole, e, perciò, abdicativo del diritto di chiederne il riesame in sede impugnatoria. Costituisce diritto vivente” cfr., ex pluribus , Cass., SS.UU., n. 8453/1998 e n. 763/1999 quello secondo cui l’acquiescenza della sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso, è possibile solo una rinuncia espressa all’impugnazione, da compiersi nella forma prevista dalla legge consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione, da parte del soccombente, della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita, e secondo cui, in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti, dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè, gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. Tutto ciò premesso, la spontanea esecuzione volontaria della pronuncia favorevole di primo grado per il contribuente non può costituire acquiescenza alla decisione, anche se, vi provveda la P.A. e la riserva d’impugnazione non sia stata resa nota alla parte privata, in quanto si tratta di un comportamento che può essere ispirato dalla finalità di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione cui può essere sottoposto l’ente sent., Cass. civ., sez. trib., n. 16460/2004 .

Corte di Cassazione, sez. V Civile, ordinanza 18 novembre 2016 – 8 febbraio 2017, n. 3347 Presidente Di Cerbo – Relatore Novik Svolgimento del processo 1. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma in accoglimento del ricorso proposto dall' annullava per tardività della notifica la cartella di pagamento emessa dall'Agenzia delle Entrate di per la complessiva somma di euro 8.919.471,74, a seguito della liquidazione effettuata ai sensi dell'articolo 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973 per il periodo di imposta 2005 in dettaglio, euro 8.784.538,64 per omessi versamenti di ritenute di cui al modello 770s/06 e euro 134.933,10 di cui al modello UNICO 2006, per il periodo di imposta 2005, a titolo di interessi e sanzioni per tardivo versamento di Irap ed Iva . 2. La Commissione Tributaria Regionale di Roma accoglieva l'appello proposto da S.p.A., ritenendo che la notifica della cartella esattoriale fosse avvenuta nei termini posti dall'art. 25, primo comma, d.P.R. n. 602/1973, come modificato dal comma 40 dell'art. 37 del Decreto-legge n. 223 del 2006, dappoiché dal dettaglio degli addebiti in detta cartella indicati si evinceva come numerose voci rientrino nel modello dichiarativo del sostituto d'imposta . 3. Avverso questa sentenza ricorre per cassazione , per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto violazione e falsa applicazione dell'art. 25, comma primo, lettera a del d.P.R. n. 602 del 1973, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. con riferimento alla cartella di pagamento per l'importo di euro 134.933,10, la CTR avrebbe dovuto dichiarare la decadenza dal diritto alla riscossione dell'importo essendo il 31 dicembre 2009, anteriormente alla notifica della cartella avvenuta il 27 maggio 2010, scaduto il termine triennale previsto per la notifica di detta cartella. Chiedeva quindi la cassazione della sentenza quanto meno con riferimento all'importo di euro 134.933,10 . 3. Resiste S.p.A. che propone ricorso incidentale. Osserva la società - relativamente alle somme richieste a titolo di omessi versamenti di ritenute modello 770/s si era formato il giudicato, essendo stata l'impugnazione limitata alle somme dovute a seguito del controllo sul modello UNICO 2006 - quanto alle somme dovute a titolo di sanzioni e interessi per omesso o ritardato versamento di imposte, la disposizione di legge invocata dalla ricorrente non era applicabile in quanto riferita espressamente alla riscossione di Iva e imposte sui redditi l'iscrizione a ruolo era stata eseguita entro i cinque anni dall'accertamento e dal controllo, ex art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973, e notificata nei termini. Nel ricorso incidentale condizionato, eccepisce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per mancata pronuncia sull'eccezione pregiudiziale di acquiescenza da essa proposta, per aver la contribuente chiesto ed ottenuto prima della promozione del ricorso, senza alcuna riserva, la rateizzazione degli importi portati in cartella. Chiede quindi il rigetto del ricorso e in via incidentale condizionata, in ipotesi di suo accoglimento, la riforma della sentenza nella parte in cui non ha esaminato l'eccezione pregiudiziale di inammissibilità del detto ricorso, ritenendola assorbita, e, per l'effetto, decidendo nel merito dichiarare inammissibile il ricorso. 4. Propone controricorso l'Agenzia delle Entrate, già convenuta nei precedenti gradi di giudizio, che chiede sia dato atto del giudicato interno formatosi in ordine alla riscossione delle somme per ritenute omesse, rimettendosi sul motivo di ricorso concernente Iva e Irap. Motivi della decisione 1. Preliminarmente occorre puntualizzare che, come rilevato dai contro ricorrenti, sul punto relativo al rigetto della domanda relativa alla ripresa degli importi per omessi versamenti di ritenute si è formato il giudicato. La censura proposta con il ricorso concerne esclusivamente il rigetto da parte della CTR dell'eccezione di decadenza dal diritto alla riscossione di € 134.977,10, solo per essa essendo stato rispettato l'onere della specificità. L’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall'art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ. , qualunque sia il tipo di errore in procedendo o in iudicando per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata. Sez. 5, Sentenza n. 11984 del 31/05/2011, Rv. 618230 . 2. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere risolta nel merito. Dato atto che la parte ha depositato la copia autentica della sentenza e che l'atto soddisfa i requisiti richiesti dall'art. 369 cod. proc. civ., il ricorso è fondato. La cartella di pagamento riguardava l'omesso versamento di somme per ritenute di cui al modello 770s/06 e di euro 134.933,10 a titolo di interessi e sanzioni per tardivo versamento di Irap ed Iva. La CTR ha erroneamente accomunato in una unica valutazione situazioni soggette a regimi notificatori diversi solo per le somme dovute dal sostituto d'imposta il termine per la notifica della cartella di pagamento scadeva il quarto anno, mentre per quelle dovute in base a dichiarazione il termine era di tre anni. Come correttamente rileva la difesa del ricorrente, la legge n. 156/2005, pubblicata sulla G.U. del 9 agosto 2005 ed entrata in vigore il giorno successivo ha stabilito che art. 1 5-bis. Al fine di garantire l'interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l'interesse pubblico alla riscossione dei crediti tributari, la notifica delle relative cartelle di pagamento è effettuata, a pena di decadenza [ ] a del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ovvero a quello di scadenza del versamento dell'unica o ultima rata se il termine per il versamento delle somme risultanti dalla dichiarazione scade oltre il 31 dicembre dell'anno in cui la dichiarazione è presentata, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione prevista dall'articolo 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 [ ]. Trattandosi di norma di carattere generale applicabile a tutti i rapporti pendenti, il termine per la notifica scadeva il 31 dicembre 2009. La notifica effettuata il 27 maggio 2010 era tardiva. Sul punto, infondata è la tesi di secondo cui trattandosi di somme dovute a titolo di sanzioni e interessi per omesso o ritardato versamento di imposte doveva applicarsi il termine di cui all'art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973 e non la legge n. 156/2005, in quanto riferita espressamente alla riscossione di Iva e imposte sui redditi. L'art. 17 del D. Lgs, n. 472 del 1997, contenente le disposizioni generali in materia di sanzioni tributarie, prevede che per l'irrogazione delle sanzioni collegate al tributo si osservano le disposizioni, in quanto compatibili, che regolano il procedimento di accertamento del tributo medesimo, e consente l'irrogazione senza iscrizione a ruolo e senza previa contestazione. Il collegamento tra sanzioni e tributi esclude che vi siano ragioni per differenziare i termini previsti per la notifica delle relative cartelle di pagamento, con la conclusione che sia per il tributo che per la sanzione il termine è lo stesso. 3. Il ricorso incidentale condizionato è infondato. Il Collegio condivide quanto affermato da Sez. 1, Sentenza n. 2463 del 19/06/1975, Rv. 376355 Costituisce principio generale nel diritto tributario che non si possa attribuire al puro e semplice riconoscimento, esplicito o implicito, fatto dal contribuente d'essere tenuto al pagamento di un tributo e contenuto in atti della procedura di accertamento e di riscossione denunce, adesioni, pagamenti, domande di rateizzazione o di altri benefici , l'effetto di precludere ogni contestazione in ordine all'art. debeatur, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario. Siffatto riconoscimento esula, infatti, da tale procedura, regolata rigidamente e inderogabilmente dalla legge, la quale non ammette che l'obbligazione tributaria trovi la sua base nella volontà del contribuente. Le manifestazioni di volontà del contribuente, pertanto, quando non esprimano una chiara rinunzia al diritto di contestare l’an debeatur, debbono ritenersi giuridicamente rilevanti solo per ciò che concerne il quantum debeatur, nel senso di vincolare il contribuente ai dati a tal fine forniti o accettati. Ciò non esclude che il contribuente possa validamente rinunciare a contestare la pretesa del fisco, ma, perché tale forma di acquiescenza si verifichi, è necessario il concorso dei requisiti indispensabili per la configurazione di una rinuncia, e cioè 1 che una controversia tra contribuente e fisco sia già nata e risulti chiaramente nei suoi termini di diritto o, almeno, sia determinabile oggettivamente in base agli atti del procedimento 2 che la rinuncia del contribuente sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci . La rateizzazione chiesta dal ricorrente non costituisce acquiescenza. 4. Le spese del processo di cassazione vanno poste a carico di e si liquidano come in dispositivo. Per ragioni di opportunità nel rapporto tra ed il ricorrente le spese dei giudizi di merito si compensano. Nel rapporto tra il ricorrente e l'Agenzia delle entrate è opportuno compensare le spese dell'intero processo. P.Q.M. Accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e decidendo nel merito dichiara non dovute nella misura di euro 134.933,10 le somme richieste con la cartella esattoriale oggetto del presente giudizio. Compensa le spese dei giudizi di merito tra e . Condanna al pagamento a favore dell’Istituto delle spese del giudizio di cassazione che liquida in euro 4.000 per compensi, euro 100 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% e accessori di legge. Compensa tra I' e l'Agenzia delle Entrate le spese dell'intero processo.