L’avviso di accertamento sull’antieconomicità deve essere dimostrato

La contestazione riguardante l’antieconomicità del comportamento dell’imprenditore richiede che l’Amministrazione finanziaria debba dimostrare l’inattendibilità della condotta da parte del soggetto accertato

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 21869, del 28 ottobre 2016, ha affermato che l’Agenzia delle Entrate può fondare un atto di accertamento basato sull’antieconomicità soltanto nel caso in cui l’amministrazione finanziaria prova la assoluta inattendibilità della condotta del contribuente. Il contenzioso. Nel corso di un controllo originato da una richiesta di rimborso di un credito IVA relativo all’anno 2004, proposto dal curatore del fallimento di una s.r.l., dichiarata fallita nel 2005, l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto l’esibizione di una serie di documenti contabili, tra i quali il dettaglio, per quantità e valore, delle rimanenze delle materie prime e delle merci, che il curatore si limitò ad indicare nel valore iniziale di 100.000,00 euro ed in quello finale di 200.000,00 euro. L’Agenzia delle Entrate ravvisò nella genericità di quest’indicazione il presupposto per procedere ad accertamento analitico-induttivo ex art. 39, primo comma, lett. d , d.P.R. n. 600/73 e determinò, in relazione all’anno d’imposta 2002, maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, facendo leva sull’incongruenza, reiterata nel tempo, della redditività, poiché il reddito dichiarato, che per l’anno 2001 era stato di poco inferiore ai 49mila euro era sceso, per il 2002, ad euro 1.682,00. Ne seguì l’avviso di accertamento col quale l’Agenzia delle Entrate rettificò il reddito d’impresa da euro 1.682,00 ad euro 315.700,00 tale avviso di accertamento fu impugnato dal curatore che ne ottenne l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale. La Commissione Regionale ha respinto l’appello dell’ufficio, rimarcando per un verso la certezza dei dati indicati a titolo di rimanenze ed osservando che la scarsa redditività trova spiegazione nel fatto che la società è stata dichiarata fallita qualche anno dopo. Avverso la sentenza sfavorevole l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in Cassazione. Nel ricorso in Cassazione l’Agenzia delle Entrate lamenta la violazione dell’art. 39,comma 1, lett. d , d.P.R. n. 600/73, là dove il giudice d’appello ha reputato illegittimo l’avviso di accertamento, benché fosse alla presenza di dati generici relativi alle rimanenze e di un’indubbia antieconomicità della condotta. Il concetto di antieconomicità. Occorre precisare in cosa consiste la complessa nozione di antieconomicità. La giurisprudenza ha elaborato tale concetto in modi differenti, valorizzando ora i limiti quantitativi di congruità dei costi in generale, ora la deducibilità dei compensi degli amministratori sindacandone l’entità ora il valore normale delle operazioni, ad esempio nel settore immobiliare. Va rilevato che nemmeno il d.P.R. n. 917/86 fornisce una definizione di antieconomicità occorre allora comprendere in che modo è possibile collegare il profilo della gestione non ragionevole con le fattispecie di occultamento di materia imponibile. Va evidenziato che fondare la rettifica induttiva del reddito solo sulla grave incongruenza costituita dall’antieconomicità o irragionevolezza del comportamento del contribuente potrebbe costituire un’arma a doppio taglio per l’Amministrazione, visto che la dimostrazione dell’inesistenza dell’antieconomicità suddetta comporterebbe poi la caducazione dell’intero accertamento e le prove o motivazioni adducibili dal contribuente possono consistere anche in argomenti presuntivi, quali ad esempio l’intento di restare sul mercato o conquistarne nuovi segmenti, pur se in perdita, in attesa di un possibile sviluppo o del passaggio di un contingente periodo critico. Di qui la necessità per la stessa Amministrazione di supportare il contrasto tra il comportamento del contribuente e l’economicità o ragionevolezza media con specifici elementi fattuali che, in uno alla irragionevolezza e/o antieconomicità rilevata, siano idonei a provare la grave incongruenza. L’analisi dei giudici di legittimità. La Cassazione osserva, come sottolinea l’ufficio, che la corretta e specifica indicazione delle rimanenze è di precipuo rilievo, poiché, in base al principio di continuità dei valori di bilancio ed all’art. 59 d.P.R. n. 917/86, che ne costituisce espressione, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio. Nel caso in esame, tuttavia, emerge che l’accertamento finisce col fondarsi in via esclusiva sulle caratteristiche di antieconomicità della condotta imprenditoriale tale antieconomicità, dunque, nella prospettazione dell’ufficio, è chiamata ad integrare le presunzioni gravi, precise e concordanti idonee a sostenere la pretesa impositiva accertata in via analitico - induttiva. Il punto è che, in tema di presunzioni semplici, le circostanze sulle quali la presunzione si fonda devono essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità, finanche sulla base di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche. I giudici di legittimità rilevano che la giurisprudenza della Cassazione ha già avuto occasione di rimarcare che la contestazione, spesso presente nella prassi operativa e nelle pronunce giurisprudenziali, riguardante l’”antieconomicità” del comportamento imprenditoriale richiede da parte dell’amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta la stima della redditività dell’impresa, che costituisce oggetto della valutazione di antieconomicità, è di norma affidata alla comparazione di più indici, tra i quali spiccano quello che fa leva sul rapporto fra il reddito operativo ed il capitale complessivamente investito nell’impresa e quello che punta sul rapporto fra reddito operativo e ricavi dell’impresa, che, in particolare, evidenzia la percentuale del volume di affari. Per la Corte di Cassazione il ricorso dell’Agenzia delle Entrate è inammissibile e, pertanto, va rigettato con condanna della stessa Agenzia al pagamento delle spese sostenute dal curatore della s.r.l., per opporsi al ricorso in Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. V Civile, sentenza 12 – 28 ottobre 2016, n. 21869 Presidente Piccininni – Relatore Perrino Fatto Nel corso di un controllo originato da una richiesta di rimborso di un credito iva relativo all’anno 2004 proposta dal curatore del fallimento della s.r.l. D.E.C., dichiarata fallita nel 2005, l’Agenzia delle entrate richiese l’esibizione di una serie di documenti contabili, tra i quali il dettaglio, per quantità e valore, delle rimanenze delle materie prime e delle merci, che il curatore si limitò ad indicare nel valore iniziale di 100.000,00 euro ed in quello finale di 200.000,00 euro. L’ufficio ravvisò nella genericità di quest’indicazione il presupposto per procedere ad accertamento analitico-induttivo ex art. 39, 1° co., lett. d , del d.P.R. 600/73 e determinò, in relazione all’anno d’imposta 2002, maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, facendo leva sull’incongruenza, reiterata nel tempo, della redditività, giacché il reddito dichiarato, che per l’anno 2001 era di euro 48.791,00, risultava sceso per il 2002 ad euro 1.682,00. Ne seguì l’avviso di accertamento col quale l’Agenzia rettificò il reddito d’impresa da euro 1.682,00 ad euro 315.700,00, che il curatore impugnò, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale. Quella regionale ha respinto l’appello dell’ufficio, rimarcando per un verso la certezza dei dati indicati a titolo di rimanenze ed osservando che la scarsa redditività trova spiegazione nel fatto che la società è stata dichiarata fallita qualche anno dopo. Avverso questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle entrate, che affida ad un unico motivo, cui il curatore reagisce con controricorso. Diritto 1. - Con l’unico motivo di ricorso, proposto ex art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., l’Agenzia lamenta la violazione dell’art. 39, 1° co., lettera d , del d.P.R. 600/73, là dove il giudice d’appello ha reputato illegittimo l’avviso di accertamento, benché fosse al cospetto di dati generici relativi alle rimanenze e di un’indubbia antieconomicità della condotta. Il motivo contiene nella parte finale censure concernenti l’omessa o comunque il carente esame di punti decisivi della controversia, che non possono essere esaminati, non essendosi tradotte, in dispregio delle caratteristiche del giudizio di legittimità, che è a critica vincolata, in un apposito motivo volto ad aggredire la motivazione della sentenza. 2. - Nel resto, esso è inammissibile. Indubbiamente, come sottolinea l’ufficio, la corretta e specifica indicazione delle rimanenze è di precipuo rilievo, giacché, in base al principio di continuità dei valori di bilancio ed all’art. 59 del d.P.R. 917/86, che ne costituisce espressione, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio Cass. 17298/14 4590/15 . Funzionale a tal fine è l’ulteriore disposizione della norma, secondo cui la valutazione delle rimanenze finali va compiuta per un valore non inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e per valore Cass. 25120/14 . 2.1. - Le generica indicazione delle rimanenze, per conseguenza, è senz’altro idonea a legittimare l’accertamento analitico-induttivo previsto dalla lett. d del 1° comma dell’art. 39 del d.P.R. 600/73, essendo idonea a far dubitare della completezza e dell’attendibilità della contabilità esaminata. Ed il giudice d’appello coerentemente riconosce che la mancanza del dettaglio per quantità e valore può legittimare una variazione della redditività . 2.2. - Nel caso in esame, tuttavia, lo stesso giudice d’appello aggiunge, con accertamento insindacabile, perché non aggredito dall’ufficio, che le rimanenze iniziali e finali, così come risultano dal bilancio di esercizio acquisito agli atti, rappresentano un dato certo, atteso che le prime nell’anno 2001 hanno partecipato alla determinazione dei ricavi di esercizio, mentre le seconde hanno partecipato alla determinazione dei ricavi nell’anno 2002 e conseguentemente dei costi nell’anno 2003 in tal modo, mostra di non dubitare della veridicità dei dati sia pure genericamente indicati dal curatore, escludendo che tale genericità possa sostenere l’accertamento svolto dall’Agenzia. L’accertamento, per conseguenza, finisce col fondarsi in via esclusiva sulle caratteristiche di antieconomicità della condotta imprenditoriale, di cui si è dato conto in narrativa. 2.3. - Tale antieconomicità, dunque, nella prospettazione dell’ufficio, è chiamata ad integrare le presunzioni gravi, precise e concordanti idonee a sostenere la pretesa impositiva accertata in via analitico-induttiva. Il punto è che, in tema di presunzioni semplici, le circostanze sulle quali la presunzione si fonda devono essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità, finanche sulla base di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche così, Cass., sez.un., 25767/15 . 2.4. - Già in tesi, allora, il riferimento all’antieconomicità nel caso in esame non ha questa connotazione. Questa Corte Cass. 13468/15 ha già avuto occasione di rimarcare che la contestazione - spesso presente nella prassi operativa e nelle pronunce giurisprudenziali - riguardante l’ antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede da parte dell’amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta e tale inattendibilità va vista in chiave diacronica, con la precisazione che la stima della redditività dell’impresa, che costituisce oggetto della valutazione di antieconomicità, è di norma affidata alla comparazione di più indici, tra i quali spiccano quello che fa leva sul rapporto fra il reddito operativo ed il capitale complessivamente investito nell’impresa e quello che punta sul rapporto fra reddito operativo e ricavi dell’impresa, che, in particolare, evidenzia la percentuale del volume di affari. 2.5. - In concreto, poi, giova rimarcare che l’apprezzamento in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell’accertamento compiuto con metodo presuntivo - nel nostro caso, in ordine all’antieconomicità della condotta - attiene alla valutazione dei mezzi di prova, ed è pertanto rimesso in via esclusiva al giudice di merito, salvo lo scrutinio riguardo alla congruità della relativa motivazione tra varie, Cass. 24437/13 16743/16 . Tale apprezzamento è stato svolto dal giudice d’appello, il quale ha escluso la decisività del dato offerto dall’ufficio, atteso che la società nell ’anno 2005 è stata dichiarata fallita , lasciando emergere in chiave diacronica l’attendibilità dei dati emersi in relazione alla condotta della società, la quale, proprio in ragione della sua antieconomicità, l’ha condotta al fallimento. 2.6. - Di qui la declaratoria d’inammissibilità del motivo, in quanto, dietro lo schermo della violazione di legge, esso mira a sovvertire l’apprezzamento compiuto in sentenza. 3. - Ne segue il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia a rifondere le spese sostenute dal curatore, che liquida in euro 5500,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie, nella misura del 15%.