Amministratore di fatto: legittimo l’accertamento se compie atti illeciti

E’ da considerarsi legittimo l’accertamento nei confronti dell’amministratore di fatto di un’associazione se questo partecipa all’ideazione della frode fiscale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22817 del 28 ottobre 2014, ha affermato che è legittimo l’accertamento a carico dell’amministratore di fatto di una associazione se questo partecipa in modo attivo, all’ideazione della frode fiscale. Il fatto. La vicenda si sviluppa a seguito di alcune verifiche disposte dall’Agenzia delle Entrate dalla quale emergeva l’esistenza di un reticolato di associazioni costituite al solo fine di frodare il Fisco, nelle quali venivano individuati come amministratori di fatto due persone fisiche le Entrate emettevano diversi avvisi di accertamento relativi al recupero della maggiore IVA, IRPEG e IRAP accertata, nei confronti delle associazioni interessata e dei due amministratori di fatto. Gli amministratori e l’associazione impugnavano gli avvisi davanti alla CTP, che rigettava il ricorso dell’associazione e accoglieva solo quello dell’amministratrice. L’Agenzia delle Entrate impugnava la sentenza davanti alla CTR, che accoglieva il ricorso, riformando parzialmente la sentenza dei giudici di prime cure, nella parte in cui aveva accolto il ricorso proposto in proprio, dall’amministratrice. Precisavano i giudici di appello che l'apertura della partita IVA dell'Associazione e delle altre associazioni facenti capo all’amministratrice e l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi da parte di questa, costituivano stati preordinati al conseguimento degli scopi illeciti sottesi alla creazione delle associazioni che erano finalizzate a frodare il fisco, attraverso indebiti crediti IVA, ritenute d'acconto, e oneri deducibili e detraibili. Avverso la sentenza sfavorevole, l’amministratrice è ricorsa in Cassazione. L’amministratore di diritto di una società. L’articolo 2639 c.c. afferma che l’amministratore di fatto di una società è da ritenersi responsabile di tutti quei doveri cui è soggetto normalmente anche l’amministratore di diritto sull’argomento del cd. amministratore di fatto si è più volte espressa la Corte di Cassazione. In generale i giudici di legittimità sono del convincimento che anche l’amministratore di fatto deve rispondere per evasione fiscale e omessa presentazione della dichiarazione dei redditi della società. Accade sempre più spesso, infatti, che negli accertamenti e verifiche effettuate da parte dell’amministrazione finanziaria nei confronti di società, accanto o in alternativa a reati imputabili all’amministratore di diritto, si annoverano le attività poste in essere da soggetti non investiti formalmente dall’attività di gestione. Il fenomeno è generalmente collegato ad intenti fraudolenti indirizzati all’evasione delle imposte, mediante l’attribuzione di cariche societarie ad una c.d. testa di legno” ossia ad un soggetto privo di qualsiasi possidenza patrimoniale, nei confronti dei quali si renderebbe vana ed inutile qualsivoglia azione esecutiva erariale. In questi casi, i rappresentanti dell’amministrazione finanziaria devono eseguire le proprie attività nei confronti di un amministratore apparente” e uno di fatto” e questo nella consapevolezza che la responsabilità penale può manifestarsi in relazione sia al principio della personalità” del reato, sia alla specifica attribuzione funzionale corrente tra la società ed il soggetto ad essa legalmente preposto. I giudici di legittimità nell’analizzare il ricorso dell’amministratrice dell’associazione osservano che anche a volere entrare nel merito, della censura esposta dalla ricorrente stessa, appare chiaro come nel caso di specie il giudice di appello ha tratto il convincimento in ordine alla legittimità dell'accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della stessa ricorrente, quale amministratore di fatto della associazione e coautore delle violazioni di natura fiscale, da un complesso di elementi rappresentati a dal compimento di specifici atti quali l’apertura della partita IVA e l’invio delle dichiarazioni IVA, del sodalizio da parte della suddetta, ritenendoli dimostrativi della comunanza di intenti con l’ideatore del meccanismo di creazione di associazioni volte a frodare il fisco e l’amministratrice ricorrente b dall’inconsistenza delle difese volte a inquadrare la trasmissione telematica delle dichiarazioni nell’ambito di un mero favore compiuto dalla predetta, in qualità di intermediaria c dalle denunzie che erano piovute a carico della ricorrente, dal legale rappresentante dell'associazione contribuente e delle altre coinvolte nel complesso reticolo di soggetti creati per realizzare scopi fiscali illeciti. La CTR, nell'ambito dei poteri valutativi alla stessa riservati, ha collegato giustamente a tali elementi la circostanza che i legali rappresentanti dell’associazione e delle altre create per gli scopi anzidetti avevano denunziato la ricorrente, come coautrice degli illeciti. Conclusioni. Per i giudici di legittimità la CTR ha fornito elementi sintomatici certamente idonei a sostenere l'esistenza, in capo alla ricorrente, del ruolo di amministratore di fatto dell'associazione e di coarterfice dell’operazione illecita, se appunto si considera che l'apertura della partita IVA, collegata alla presentazione delle dichiarazioni IVA, costituisce senza dubbio l’elemento indispensabile per realizzare le appostazioni fittizie di crediti e di altri costi da potere utilizzare ai fini fiscali. I giudici di legittimità, inoltre, osservano che quanto affermato dalla ricorrente nel ricorso è privo di fondamento e cioè che l’introduzione in fase di legittimità del tema relativo al mancato compimento di atti negoziali da parte della ricorrente è inammissibile, involgendo una modifica del quadro di fatto esaminato dal giudice di appello, che risulta per la prima volta proposto davanti alla Corte di Cassazione. Il ricorso è, pertanto, respinto e le spese sono a carico della parte ricorrente che dovrà risarcire le spese sostenute anche dall’Agenzia delle Entrate.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, ordinanza 8 – 28 ottobre 2014, numero 22817 Presidente Cicala – Relatore Conti In fatto e in diritto A seguito di alcune verifiche disposte dall'Ufficio Analisi e ricerca della Direzione regionale della Toscana emergeva l’esistenza di un reticolato di associazioni costituite al solo fine di frodare il fisco, nelle quali venivano individuati come amministratori di fatto Donati Filippo e Paritanti Ornella. All'esito, l'Ufficio emetteva diversi avvisi di accertamento nei confronti delle associazioni interessata e dei due amministratori di fatto. Con specifico riferimento all'associazione La Bolina, la Paritanti e la stessa associazione si opponevano all’avviso di accertamento relativo a IVA,IRPEG IRAP per l'anno 2005 innanzi alla CTP di Milano che rigettava il ricorso proposto dall'associazione, accogliendo quello della Paritanti. Quest'ultima ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, contro la sentenza resa dalla CTR Lombardia numero 74/05/12, depositata il 12 luglio 2012, che, accogliendo l'appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, aveva riformato parzialmente la sentenza del giudice di primo grado nella parte in cui aveva accolto il ricorso proposto in proprio dalla Paritanti. Precisavano i giudici di appello che l'apertura della partita IVA dell'Associazione II bompresso e delle altre associazioni facenti capo a Donati Filippo e l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi da parte della Paritanti costituivano stati preordinati al conseguimento degli scopi illeciti sottesi alla creazione delle associazioni che il Filippi aveva inteso conseguire frodando il fisco attraverso indebiti crediti IVA, ritenute d'acconto, e oneri deducibili e detraibili. Nè la trasmissione telematica delle dichiarazioni poteva giustificarsi per essere un mero piacere fatto dalla Paritanti all’amico Donati, essendo quest'ultimo abilitato alla trasmissione. Per di più i legali rappresentanti dell'associazione e degli altri organismi coinvolti avevano denunziato la suddetta come coautrice delle violazioni perpetrate in loro danno. Con il primo motivo la Paritanti deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, prospettando con la seconda censura la violazione degli articoli 36,38 e 2697 cod.civ., in relazione aH'articolo 360 commi 1 nnumero 3 e 5 c.p.c. non risultando da parte della ricorrente il compimento di alcuna attività negoziale o l’assunzione di obbligazioni verso terzi. L'Agenzia delle entrate, nel controricorso, ha chiesto il rigetto delle due censure, pure sottolineando che il secondo motivo presupponeva una diversa ricostruzione in fatto della vicenda rispetto a quella operata dalla CTR che non era ammissibile in sede di legittimità. La parte contribuente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. La censura, a ben considerare, si risolve in una contestazione della ricostruzione ^ ^ operata dall'Ufficio in sede di avviso di accertamento, flTffiovéñdo ~& lt $3i ^ -presSppostDi che il giudice di appello abbia affermato la responsabilità della ricorrente sull’unico presupposto che la stessa fosse amministratore di fatto dell’associazione ancorché l’appello proposto dall’Agenzia e roriginario avviso avessero individuato nella Paritanti la coautrice delle violazioni fiscali v.pag.3 della sentenza qui impugnata parte relativa allo svolgimento del processo e pag.2 del controricorso tralasciando di considerare la complessiva trama argomentativa seguita dal giudice di appello e prospettando lacune motivazionali che, in buona parte, prescindono dal ragionamento esposto dalla CTR, tentando di accreditare una diversa lettura favorevole alla contribuente degli elementi probatori che questa Corte non è in alcun modo legittimata a operare. E’ noto, infatti, che il vizio di motivazione come disciplinato dal numero 5 dell'articolo 360 comma 1 c.p.c. -nella versione ratione temporis vigente tende ad ottenere dalla Corte un controllo in ordine alla logicità e congruità dei ragionamento logico giuridico, ma non certo a ricostruire in modo diverso la vicenda esaminata dal giudice di merito nè tanto meno a realizzare una lettura diversa degli elementi probatori se la stessa è stata congruamente e logicamente operata dal giudice di merito. Ed infatti, a questa Corte non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione cfi\ Cass. 22901/05, 15693/04,11936/03 Cass.numero 3528/2010 . In sostanza la ricorrente, pur apparentemente prospettando una carenza di motivazione rimette, in realtà in discussione, contrapponendovene, in modo inammissibile, uno difforme, l'apprezzamento in fatto del giudice di merito espresso con motivazione ancorata alle risultanze delle acquisizioni documentali ed in sè coerente. Ma anche a volere esaminare nel merito la censura esposta dalla ricorrente, appare chiaro come nel caso di specie il giudice di appello ha tratto il convincimento in ordine alla legittimità dell'accertamento emesso nei confronti della Paritanti -quale amministratore di fatto della associazione e coautore delle violazioni di natura fiscale da un complesso di elementi rappresentati a dal compimento di specifici atti -apertura della partita IVA e invio delle dichiarazioni IVA del sodalizio da parte della suddetta, ritenendoli dimostrativi della comunanza di intenti con l’ideatore il Filippo Donati del meccanismo di creazione di associazioni volte a frodare il fisco b dalla inconsistenza delle difese volte a inquadrare la trasmissione telematica delle dichiarazioni neH'ambito di un mero favore compiuto dalla predetta, in qualità di intermediaria, al Donati c dalle denunzie che erano piovute a carico della Paritanti dal legale rappresentante dell'associazione contribuente e delle altre coinvolte nel complesso reticolo di soggetti creati dal Donati per realizzare scopi fiscali illeciti. Orbene, rispetto a tale impianto motivazionale -peraltro coerente con la giurisprudenza di questa Corte in tema di responsabilità dell7amministratore di fatto, correlata all'accertamento dell’awenuto inserimento nella gestione dell'impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative del sodalizio v.Cass.numero 99/9795, Cass.numero 99/1925 Cass.numero 2586/14-la ricorrente cerca di contestare le singole argomentazioni della CTR, tentando di parcellizzare il giudizio espresso dal giudice di appello che, anzitutto, si è fondato sulla circostanza che la suddetta aveva compiuto atti nell'interesse deH'associazione, quali appaiono ineludibilmente l’apertura della partita IVA -della quale la ricorrente non discute nei propri scritti difensivi e la trasmissione telematica delle dichiarazioni. Ora, la CTR, nell'ambito dei poteri valutativi alla stessa riservati, ha collegato a tali elementi la circostanza che i legali rappresentanti dell’associazione e delle altre create dal Donati per gli scopi anzidetti avevano denunziato la Paritanti come coautrice degli illeciti, peraltro elidendo la valenza dell'argomento difensivo dalla stessa utilizzato per giustificare la trasmissione telematica delle dichiarazioni in relazione alla piena idoneità del Donati a presentare le stesse dichiarazioni. Orbene, rispetto a tale articolato ragionamento, la CTR ha fornito elementi sintomatici certamente idonei a sostenere l'esistenza, in capo alla Paritanti, del ruolo di amministratore di fatto dell'associazione e di coarterfice deir operazione illecita, se appunto si considera che l'apertura della partita IVA collegata alla presentazione delle dichiarazioni IVA costituisce senza dubbio l’elemento indispensabile per realizzare le appostazioni fittizie di crediti e di altri costi da potere utilizzare ai fini fiscali. Peraltro, la circostanza, evidenziata dalla CTR, secondo cui l’attività di trasmissione delle dichiarazioni era stata operata dalla Paritanti non a scopo di mera cortesia in favore del Donati ma in piena sintonia con il predetto, al quale la CTR ha attribuito il ruolo di ideatore del sistema di frode al fisco realizzato attraverso la costituzione di varie associazioni cartiere nemmeno contestato dalla parte ricorrente impedisce dì ravvisare vizi logico-ricostruttivi nella decisione del giudice di merito. Ed è pertanto evidente che la prospettiva rassegnata dalla CTR non poteva che condurre tale giudice a svalutare la circostanza astratta della legittimità dell'attività di trasmissione delle dichiarazioni da parte della Paritanti, valorizzando per converso l'intesa illecita intercorsa fra la stessa e l'altro gestore di fatto delle associazioni. Ciò dimostra che la CTR non risulta affatto essersi appiattita sulle tesi difensive dell’Agenzia, avendo semmai compiutamente esaminato e ponderato gli elementi indiziari posti alla sua attenzione. Ed è appena il caso di evidenziare che la ricorrente, a sostegno della illogicità della decisione, pone pure in rilievo elementi non esaminati dalla CTR senza nemmeno indicare se gli stessi fossero stati e in che modo posti ritualmente all'attenzione del giudice di merito, come era invece suo preciso onere-cfr.pag.10 2Aperiodo ricorso-. Il secondo motivo è inammissibile. Tale censura, ancora una volta, muove dal presupposto che la CTR abbia riconosciuto la diretta responsabilità della stessa neirunica veste di amministratore di fatto della associazione, senza considerare che il giudice di appello aveva evidenziato come le condotte alla stessa riferibili fossero dimostrative dalla diretta compartecipazione della Paritanti al disegno voluto dairideatore il Donati della creazione di associazioni al fine di realizzare indebiti profitti fiscali. Ciò che rende inammissibile la censura, non avendo la ricorrente contestato compiutamente la ratio decidendi sottesa alla sentenza impugnata. In ogni caso, pare evidente che l’introduzione in fase di legittimità del tema relativo al mancato compimento di atti negoziali da parte della ricorrente è inammissibile, involgendo una modifica del quadro di fatto esaminato dal giudice di appello che risulta per la prima volta proposto in questa sede. La relazione è stata condivisa dal Collegio, non ravvisando nelle deduzioni difensive esposte in memoria dalla parte ricorrente elementi idonei a scalfirne i contenuti. Sulla base di tali considerazioni il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in favore del l’Agenzia nella misura specificata in dispositivo P.Q.M. La Corte Visti gli articolo 375 e 380 bis c.p.c. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquidai n favore dell’Agenzia in euro 800.00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Dà atto della ricorrenza dei presupposti di cui airarticolo 13 comma 1 quater del dPR numero 115/2002 per il versamento da parte del ricorrente deirulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.