Per il valore normale dei corrispettivi rileva il mercato del venditore

Il criterio prioritario per stabilire il valore normale” dei corrispettivi, nelle vendite tra imprese appartenenti a un gruppo multinazionale, è quello enunciato dalla seconda parte dell'art. 9, D.P.R. n. 917/1986, che lo individua nel riferimento, in via principale e in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi, e in via subordinata - in caso di mancanza o inattendibilità di tali elementi - alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso.

Solo in via sussidiaria potrà farsi riferimento al criterio enunciato dalla prima parte del comma 3 della norma del TUIR, che va inteso nel senso che il mercato al quale occorre fare riferimento, ai fini della determinazione del valore normale dei prezzi e dei corrispettivi nelle vendite infragruppo, è quello nazionale del venditore, ossia il mercato italiano. Tale principio è stato statuito dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24005 del 23 ottobre 2013. Il caso. Il fisco ha rideterminato i corrispettivi relativi alla cessione di merci soda e bicarbonato effettuate dalla stabile organizzazione italiana in favore della società madre belga. I prezzi praticati risultavano, infatti, notevolmente inferiori al valore normale delle cessioni stesse, determinabile ai sensi dell’art. 9 del TUIR, e, in particolare, ai prezzi praticati in Italia dalla stessa società venditrice, risultati superiori di oltre il 44%, rispetto a quelli risultanti dalle transazioni infragruppo. Tale contribuente, una multinazionale con sede principale in Belgio e sede secondaria in Italia ,ha ,quindi, impugnato un avviso di accertamento con il quale l’Ufficio aveva rettificato la dichiarazione della contribuente e accertato una maggiore IRPEG e una maggiore ILOR per l’anno d’imposta 1997. Il giudice del gravame ha ritenuto che per la determinazione del prezzo di trasferimento, nell’accertamento dei redditi di imprese assoggettate a controllo della casa madre estera, il mercato rilevante fosse individuabile in quello del destinatario dei beni oggetto delle transazioni commerciali nel caso specifico il mercato belga , dovendo tenersi conto dei prezzi ivi praticati in operazioni compatibili a quello oggetto di verifica. Con il ricorso in Cassazione il fisco ha censurato l’impugnata sentenza del giudice del gravame poiché - occorre considerare la peculiarità del caso concreto, consistente nell’impossibilità di effettuare il confronto con imprese operanti nel mercato belga, atteso che i soli soggetti compatibili, ivi operanti, erano tutte società collegate alla contribuente - ai sensi degli artt. 76, comma 5, e 9, comma 3, TUIR nel testo vigente ratione temporis , il valore normale” della merce ceduta da una società appartenente allo stesso gruppo della società cessionaria non potrebbe che essere determinato, alla stregua delle predette disposizioni, tenendo conto del prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari, in condizioni di libera concorrenza”, per tali dovendosi intendere, nella fattispecie, le condizioni praticate dalla sede secondaria della contribuente sul marcato nazionale italiano , nelle transazioni effettuate con imprese dello stesso settore. Tanto più laddove siffatte condizioni sarebbero inesistenti nel mercato estero nello specie belga nel quale i soggetti operanti in uno specifico settore fanno tutti parte del medesimo gruppo. Per il valore normale dei corrispettivi rileva il mercato del venditore. In buona sostanza, per il fisco sussiste l’erronea individuazione nel mercato del destinatario dei beni oggetto delle transazioni commerciali nella specie, il mercato belga , quale mercato rilevante nella determinazione dei prezzi di trasferimento in parola, dovendo tenersi conto dei prezzi ivi praticati in operazioni comparabili. Nel caso concreto, sarebbe stato impossibile effettuare il confronto con imprese operanti nel mercato belga, atteso che i soli soggetti comparabili, ivi operanti, erano ancora società collegate dello stesso gruppo. In condizioni tali per cui i soli soggetti operanti nel medesimo ambito merceologico sono rappresentati da imprese appartenenti allo stesso gruppo, ai fini dell’individuazione del valore normale, l’Ufficio ha avuto riguardo alle condizioni praticate nel mercato italiano. La Suprema Corte ha accolto il ricorso per cassazione del fisco avverso la sentenza di secondo grado favorevole alla contribuente, rinviando la causa ai giudici toscani, per nuovo esame. Concludendo. Ai fini dell’individuazione del valore normale, cui è ancorata la normativa sui prezzi di trasferimento di cui all’art. 110, comma 7, TUIR, occorre, in via prioritaria, fare riferimento ai listini e alle tariffe del venditore dei beni o del prestatore di servizi ovvero, in caso di inesistenza, di inapplicabilità, o di inattendibilità del listino o della tariffa, alle mercuriali e ai listini delle Camere di commercio o alle tariffe professionali, tenendo conto anche degli sconti d’uso solo in via sussidiaria potrà farsi riferimento al prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o i servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati tale ultimo mercato, nell’ambito delle vendite infragruppo, può essere rappresentato dal mercato nazionale del venditore. E’ corretto, nell’applicazione del metodo del confronto del prezzo di cui all’art. 9 TUIR, il confronto, in primis, con i listini e le tariffe adoperate dal cedente italiano ai fini in esame, occorre, infatti, dare preferenza al c.d. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o servizi nel rapporto tra tale soggetto ed un’impresa indipendente in seconda battuta, l’Amministrazione finanziaria dovrà fare riferimento alle mercuriali e ai listini di riferimento, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti c.d. confronto esterno appartenenti allo stesso mercato, ossia a quello del soggetto fornitore dei beni e dei servizi. Infine, e in via del tutto sussidiaria, l’Ufficio potrà fare ricorso al prezzo mediamente praticato” in condizioni di libera concorrenza per beni o servizi similari nel tempo e nel luogo in cui i beni e i servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi” ben potendo questi ultimi essere determinati da mercati esteri più vicini a quello nazionale del venditore. Non appare condivisibile l’assunto in base al quale si dovrebbe ritenere che per mercato del luogo in cui i beni [] sono stati acquisiti”, locuzione utilizzata dall’art. 9 del TUIR, debba intendersi necessariamente quello dell’acquirente dei beni stessi. Ciò alla luce della rilevanza del luogo del venditore come luogo di consegna ex art. 1510 c.c. per il verificarsi dell’effetto traslativo, rilevanza che, ai fini della determinazione del reddito di impresa, è dimostrata anche dal rilievo che la consegna assume nell’individuazione dell’esercizio di competenza per i corrispettivi delle cessioni e le spese di acquisizione dei beni ex art. 109, comma 2, TUIR.

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 11 dicembre 2012 23 ottobre 2013, n. 24005 Presidente Pivetti – Relatore Valitutti Premesso in fatto 1. Con sentenza n. 117/14/05, depositata il 20.3.07, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana rigettava l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate Ufficio di Livorno avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla S. s.a. societe anonyme , con sede principale in Belgio Bruxelles e sede secondaria in Italia Rosignano Marittimo , nei confronti dell'avviso dì accertamento con il quale era stata rettificata la dichiarazione della contribuente ed accertata una maggiore IRPEG ed una maggiore ILOR, per l'anno di imposta 1997. 2. La CTR riteneva, invero, che la determinazione del valore normale dei beni ceduti dalla S. Italia alla casa madre belga S. s.a. e ad altre società estere collegate si sarebbe dovuto determinare sulla base delle transazioni comparabili operate nel mercato dell'acquirente, ovverosia nel mercato belga cd. controllo esterno , e non sulla base di operazioni similari effettuate nel mercato italiano cd. controllo interno . Ne sarebbe conseguita a parere del giudice di appello l’illegittimità dell'atto impositivo impugnato dalla contribuente. 3. Per la cassazione della sentenza n. 117/14/05 ha proposto ricorso l'Agenzia delle Entrate, affidato a due motivi, ai quali il contribuente ha replicato con controricorso e con memoria. Osserva in diritto 1. Con i due motivi di ricorso che vanno esaminati congiuntamente, attesa la loro evidente connessione l'Amministrazione ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 76, co. 5 e 9, co. 3 d.P.R. 917/86 nel testo previgente , in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l'insufficiente motivazione su un fatto decisivo del giudizio, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. 1.1. Avrebbe, invero, errato il giudice di appello a parere dell'Agenzia delle Entrate nel ritenere che per la determinazione del prezzo di trasferimento, nell' accertamento dei redditi di imprese assoggettate a controllo della casa madre estera, il mercato rilevante fosse individuabile in quello del destinatario dei beni oggetto delle transazioni commerciali nella specie, il mercato belga , dovendo tenersi conto, secondo la CTR, dei prezzi ivi praticati in operazioni comparabili a quella oggetto di verifica. Tale asserzione del giudice di seconde cure non avrebbe secondo la ricorrente tenuto conto di quanto dedotto dall'Ufficio nell'atto di appello avverso la decisione di primo grado, ovverosia del fatto che nel caso concreto sarebbe stato impossibile effettuare il confronto con imprese operanti nel mercato belga, atteso che i soli soggetti comparabili, ivi operanti, erano ancora società collegate del gruppo S. Di qui la denuncia del vizio motivazionale, da cui sarebbe affetta la sentenza di seconde cure, ad avviso dell'Amministrazione ricorrente. 1.2. Ma detta decisione ad avviso dell'Agenzia delle Entrate non sarebbe neppure rispettosa del disposto degli artt. 76, co. 5 e 9, co. 3 d.P.R. 917/86 nel testo previgente, temporalmente applicabile alla fattispecie , atteso che il valore normale della merce ceduta da una società appartenente allo stesso gruppo della società cessionaria non potrebbe che essere determinato, alla stregua delle disposizioni succitate, tenendo conto del prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari, in condizioni di libera concorrenza , per tali dovendo intendersi le condizioni praticate dalla S. Italia, sul mercato nazionale, nelle transazioni effettuate con imprese dello stesso settore. Tanto più che come dianzi detto siffatte condizioni sarebbero, di contro, certamente inesistenti in un mercato, come quello belga, nel quale i soli soggetti operanti nel medesimo ambito merceologico della contribuente ai quali riferirsi, dunque, per la comparazione dei prezzi di trasferimento sarebbero costituiti da imprese appartenenti allo stesso gruppo della S. s.a. 2. Le censure suesposte si palesano fondate e vanno accolte . 2.1. Dall'esame degli atti del presente giudizio, si evince, invero, che a seguito di verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza nei confronti della società italiana S. Italia, i cui risultati venivano trasfusi nel processo verbale di constatazione del 5.2.98 l'Ufficio rideterminava i corrispettivi relativi a cessioni di merci soda e bicarbonato di sodio effettuate da detta società a favore di società estere appartenenti allo stesso gruppo e, segnatamente, nei confronti della casa madre S. s.a. I prezzi praticati, in relazione alle suddette cessioni infragruppo, risultavano, infatti, notevolmente inferiori al valore normale delle cessioni stesse determinabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 9 e 76 del d.P.R. 917/86 e, in particolare, ai prezzi praticati in Italia dalla stessa società venditrice, risultati superiori di oltre il 44%, rispetto a quelli risultanti dalle predette transazioni infragruppo. L'Amministrazione finanziaria provvedeva, pertanto, a recuperare a tassazione il maggiore importo dei ricavi conseguiti dalla società madre acquirente S. s.a. attraverso la consociata italiana S. Italia sottratti all'imposizione in Italia con il trasferimento di utili all'estero, operato mediante l'applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti rispetto al minore importo contabilizzato dalla contribuente per l'anno 1997, per una somma complessiva di € 1.023.862. Avverso l'avviso di accertamento, con il quale l'Amministrazione ha di conseguenza rettificato la dichiarazione della S. s.a. per l'anno 1997, accertando una maggiore IRPEG ed una maggiore ILOR, è insorta, quindi, la contribuente denunciando nel merito oltre a violazioni di carattere formale dell'atto impositivo, disattese nel primo e secondo grado del giudizio l'erronea individuazione del valore normale , operata con riferimento al prezzo praticato in Italia, anziché a quello praticato nello Stato di destinazione della merce. La tesi della S. s.a. ha trovato accoglimento, sia da parte della CTP che da parte della CTR, avverso la cui pronuncia l'amministrazione insorge con i due motivi di ricorso suesposti. 2.2. Premesso quanto precede, va osservato che la vicenda in esame ripropone la complessa e delicata problematica del cd. transfer price o transfer pricing la prima espressione pone l'accento sul profilo statico del fenomeno, la seconda su quello dinamico , che si incentra sulla corretta applicazione della normativa in materia di prezzi di trasferimento tra parti correlate. Tale normativa ha per vero la finalità di consentire all' amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti artificiali di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite. 2.2.1. Un ruolo centrale in tale prospettiva assume oggi, nel nostro ordinamento, l'art. 110, co 7 del d.P.R. n. 917/86 art. 76, co. 5 del testo previgente, temporalmente applicabile alla fattispecie in esame , a norma del quale i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa nazionale, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ai sensi dell'art. 9 del d.P.R. n. 917/86, se ne deriva aumento del reddito . La ratio della disposizione in oggetto è del tutto evidente. La norma succitata costituisce, difatti, una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale art. 75, ora art. 109, del d.P.R. 917/86 . Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono per vero sostituiti, per volontà di legge, dal valore normale dei beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco italiano. 2.2.2. Sotto il profilo in esame, dunque, può dirsi che la previsione in parola completi il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell'Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati. La disposizione di cui all'art. 76, co. 5 ora co. 7 dell'art. 110 d.P.R. 917/86, pertanto, in presenza di norme specificamente dirette ad impedire il dirottamento di flussi reddituali, ad esempio verso Paesi a fiscalità agevolata co. 10, 11 e 12 dell'art. 110, artt. 167 e 168 d.P.R.917/86 , mediante condotte simulatorie danti luogo a fenomeni di tipo evasivo , ha la finalità ulteriore di evitare che, mediante fenomeni non simulatori come l'alterazione del prezzo di trasferimento, l'Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio. In altri termini, l'applicazione delle norme sul transfer pricing non combatte l'occultamento del corrispettivo, costituente una forma di evasione, ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese, consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all'altro, sì da influire in concreto sul regime dell' imposizione fiscale. Per tali essenziali connotazioni, pertanto, deve ritenersi che tale disciplina costituisca secondo l’interpretazione più diffusa anche nella giurisprudenza di questa Corte una clausola antielusiva , in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all'interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all'imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori cfr. Cass. 22023/06, 11226/07 , o comunque a favore di situazioni che rendano fiscalmente conveniente l'imputazione di utili ad articolazioni del gruppo diverse da quelle nazionali. 2.2.3. La norma in esame, va letta, poi, in combinato disposto con l'art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE del 1995 1996, secondo il quale quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza . Il criterio cardine, per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, è costituito, quindi, dal principio di libera concorrenza, fondato, cioè, sul regime che si instaura tra imprese indipendenti principio, pertanto non a caso fiscalmente posto in diretta correlazione con la definizione del valore normale dei beni o dei servizi, ai sensi dell'art. 9 del d.P.R. 917/86, richiamato dai co. 2 e 5 dell'art. 76 ora 2 e 7 dell'art. 110 dello stesso decreto. Le norme suindicate stabiliscono, in definitiva, l'irrilevanza, ai fini fiscali, dei valori concordati dalle parti nell'ambito di transazioni controllate e l'inserimento automatico nelle transazioni medesime di valori legali, ancorati al regime della libera concorrenza valore normale, ex art. 9 d.P.R. 917/86 . In difetto di un'effettiva alterità tra le imprese partecipanti a dette transazioni, invero, ricorre un'elevata probabilità che il corrispettivo possa essere fissato dalle parti, anziché in rapporto al valore del bene scambiato o del servizio reso, piuttosto in funzione dei disegni di pianificazione fiscale del gruppo cui le imprese contraenti appartengono. Con la conseguenza che in forza delle disposizioni succitate nella determinazione del reddito d'impresa, non rileva, in relazione alle vicende in esame, il corrispettivo effettivamente convenuto, bensì quello che sarebbe stato stabilito, ove le imprese fossero state indipendenti l'una dall'altra cd. arm's lenght principle . 2.3. Da quanto fin qui esposto, si deduce, pertanto, che il profilo più complesso e delicato, in relazione all'applicazione della disciplina in esame e la cui corretta impostazione si palesa decisiva per la risoluzione del caso di specie è costituito dall'individuazione del valore normale , ai sensi dell'art. 9, co. 3 d.P.R. 917/86, al quale l'Amministrazione finanziaria ancora la determinazione del componente del reddito di impresa, costituito dal corrispettivo derivante dalla cessione di beni o servizi effettuata tra società appartenenti allo stesso gruppo. Il problema che si pone al riguardo, sul piano interpretativo, concerne anzitutto il rapporto tra la prima e la seconda parte del co. 3 dell'art. 9 del decreto cit. Non a caso, infatti, la non facile esegesi della disposizione ha indotto nel caso concreto dapprima la CTP, poi anche la CTR, a ritenere applicabile tout court alle alienazioni infragruppo, al fine di determinare il prezzo di libera concorrenza, il metodo del cd. confronto esterno, per di più ritenuto applicabile alle operazioni commerciali che si svolgono nel mercato estero dell'acquirente. Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto, invero, che l'Amministrazione avrebbe dovuto considerare il prezzo praticato in transazioni comparabili a quelle oggetto di verifica, avvenute tra soggetti indipendenti operanti nel mercato dell'acquirente, ovverosia nel mercato belga, e non fare riferimento come è, in concreto, accaduto alle condizioni di vendita degli stessi beni praticate nel mercato del venditore, ossia nel mercato italiano. 2.3.1. Ciò posto, va osservato, in proposito, che la disposizione di cui al co. 3 dell'art. 9, nella prima parte, definisce il valore normale come il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi . La seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri per la determinazione del valore normale, disponendo che debba farsi riferimento, a tal fine, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso . E' evidente, pertanto, che la clausola antielusiva di cui all'art. 76, co. 5 ora 110, co. 7 d.P.R. 917/86, che regola il cd. transfer pricing, nel richiamare il disposto dell'art. 9 dello stesso decreto, non fa che disporre l'applicazione per la determinazione del reddito di impresa nelle operazioni infragruppo con società estere, e per le ragioni di politica fiscale sopra evidenziate dei medesimi criteri che devono ispirare l'accertamento dello stesso reddito, da parte dell'Amministrazione finanziaria, nei confronti di imprese che operino esclusivamente sul territorio nazionale. E', invero, acquisizione pacifica nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui dal menzionato art. 9 d.P.R. 917/86 deve trarsi un principio generale, in base al quale l'Amministrazione è tenuta a valutare, ai fini fiscali, le varie prestazioni che costituiscono le componenti attivi e passive del reddito secondo il valore di mercato. Ed invero, l'Ufficio non è in alcun modo vincolato nella valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, ed anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d'impresa ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti Cass. 10802/02, 9497/08 . A fortiori, dunque, tali determinazioni contabili e convenzionali dei contribuenti non potrebbero vincolare l'Amministrazione come dianzi detto nelle operazioni commerciali poste in essere all'interno di un gruppo di società, forte essendo il sospetto che ha indotto il legislatore ad adottare la suddetta previsione antielusiva che in siffatta evenienza vengano applicati dalle parti prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti all'acquirente estero, onde sottrarli alla tassazione in Italia, a favore di regimi fiscali stranieri più favorevoli . 2.3.2. Ebbene, tale essendo la ratio della previsione di cui al combinato disposto degli artt. 9 e 76, co. 5 ora 110, co. 7 d.P.R. 917/86, è del tutto evidente l'errore nel quale è incorsa, nel caso concreto, la CTR, nel ritenere che l'Ufficio, in sede di accertamento del reddito di impresa, avrebbe dovuto compiere una comparazione tra i prezzi praticati nel solo mercato di destinazione delle merci cedute dalla S. Italia alla S. s.a., ossia nel mercato belga, avendo la società madre sede principale a Bruxelles, e non in quello dell'impresa cedente, ossia nel mercato italiano. Tale erronea valutazione del giudicante dì seconde cure si è, difatti, tradotta a giudizio della Corte nella falsa applicazione delle norme summenzionate, oltre che in un palese vizio motivazionale, avendo la CTR del tutto pretermesso l'esame delle argomentazioni esposte, in proposito, dall'Amministrazione finanziaria. Va per vero osservato al riguardo che, tra i diversi criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del confronto del prezzo comparable uncontrolled price method , la cui disciplina si articola nella prima e seconda parte summenzionate del co. 3 dell'art. 9 del d.P.R. 917/86. Senonché, l'opzione ermeneutica seguita ne caso di specie dal giudice di appello, ha indotto la Commissione a trascurare del tutto il nesso logico-giuridico sussistente tra le predette due parti della norma suindicata, per concentrare la propria attenzione esclusivamente sulla prima parte di detta disposizione, erroneamente considerata come il criterio cardine per la determinazione del prezzo di trasferimento infragruppo. Di più, la CTR ha inteso in maniera del tutto incongrua, e con motivazione stringata ed apodittica il confronto tra i corrispettivi praticati, in relazione a vendite di prodotti similari, nel tempo e nel luogo in cui i beni sono stati acquisiti , previsto dalla suddetta disposizione normativa, come riferito al mercato del destinatario dei beni oggetto della transazione nella specie, il mercato belga . Senonché in senso contrario a quanto opinato dal giudice di appello deve ritenersi che il criterio prioritario per stabilire il valore normale dei corrispettivi, nelle vendite tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell'art. 9 d.P.R. 917/86, che disciplina specificamente le modalità per la determinazione del valore in questione secondo cui deve farsi riferimento in guanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso . La norma, in altri termini, impone all'Amministrazione di prendere in considerazione, nell'accertamento del reddito di impresa, in via principale, i listini e le tariffe del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Quindi in caso di inesistenza o di inattendibilità del listino o della tariffa la medesima disposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, i mercuriali ed i listini delle camere di commercio , o le tariffe professionali . Ne discende che la definizione del valore normale contenuta nella prima parte del co. 3 del citato art. 9 sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch'essa un innegabile valore precettivo svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la determinazione del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini, alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del venditore, si riveli di nessuna utilità pratica, per la loro inesistenza, o per la loro inattendibilità. 2.3.3. Da quanto suesposto discende, dunque, che la motivazione dell'impugnata sentenza si rivela erronea sotto un duplice profilo. Anzitutto è, invero, da rilevarsi che nel caso concreto, contrariamente a quanto ritenuto dalla CTR, del tutto corretto è da ritenersi il ricorso, da parte dell'Ufficio, alla comparazione tra i prezzi praticati dalla S. Italia sul mercato nazionale, desumibili dai listini e dalla documentazione contabile della contribuente, e quello stabilito nella transazione con la casa madre S. s.a. In altri termini, l'applicazione da parte dell'Amministrazione finanziaria del criterio enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell'art. 9 d.P.R. 917/86, non ha fatto che tradursi nell'esatta osservanza della norma, laddove stabilisce che, nella determinazione del valore normale dei prezzi delle cessioni infragruppo, ci si debba riferire, in primis, ai listini ed alle tariffe adoperati dal cedente italiano. In considerazione di quanto suesposto, è per vero del tutto evidente che nell'applicazione del metodo del confronto di prezzo occorre dare preferenza al cd. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra l'impresa controllata ed un'impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l'Amministrazione deve anzitutto riferirsi, in quanto possibile , e tenuto conto di eventuali sconti d'uso . In seconda battuta, l'Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell'esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti cd. confronto esterno appartenenti allo stesso mercato. Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l'Ufficio potrà fare ricorso ai sensi della prima parte del co. 3 dell'art. 9 succitato al prezzo mediamente praticato ed in condizioni di libera concorrenza per beni o servizi similari, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi questi ultimi ben potendo essere determinati da mercati esteri più vicini a quello nazionale del venditore. Ebbene, anche a voler considerare, in via di mera ipotesi, come prioritario tale ultimo criterio contenuto, peraltro, in una disposizione che ha dichiarato fine definitorio il ragionamento seguito dalla CTR si palesa comunque erroneo, anche sotto tale profilo. 2.3.4. Deve osservarsi, infatti, che la lettura unitaria e complessiva delle due parti del co. 3 dell'art. 9, nella connessione dei due enunciati normativi ivi esposti, non può che evidenziare come per prezzo o corrispettivo praticato nelle vendite operate in regime di libera concorrenza , nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati , non può che intendersi il prezzo o corrispettivo relativo a vendite effettuate nel mercato del cedente. Il riferimento ai listini, tariffe e mercuriali del fornitore dei beni o dei servizi, contenuto nella seconda parte della stessa disposizione, non avrebbe, altrimenti, alcun significato logico. Come pure del tutto significativo, in tal senso, è il riferimento normativo agli sconti d'uso , per tali dovendo indubbiamente intendersi quelli usualmente praticati nei propri listini, sul mercato nazionale, dall'impresa venditrice nelle operazioni commerciali con soggetti estranei al proprio gruppo economico, e non, quindi, le riduzioni percentuali di prezzo agevolmente riconducibili a manovre elusive operate nei soli rapporti infragruppo cd. remise Cass. 7343/11 . Per libera concorrenza deve intendersi, dunque, l'esistenza di un prezzo di mercato determinato dal libero gioco di acquirenti e venditori. Sicché per l'operatività del criterio del valore normale è necessario e sufficiente che in Italia sia venduto un prodotto similare, in assenza di vincoli di legge nella determinazione del prezzo, ovverosia che nello Stato del venditore manchi, in relazione a beni dello stesso genere di quello oggetto della transazione soggetta a verifica, un prezzo stabilito d'imperio dal legislatore Cass. 13233 01 . Ad ogni buon conto, va soggiunto che a risultato non diverso si perverrebbe comunque, laddove si intendesse considerare come ha fatto la CTR il solo contenuto della prima parte dell'art. 9, co. 3 d.P.R. 917/86, senza operarne la suindicata lettura integrata con la seconda parte della stessa disposizione. Ed invero, non appare condivisibile l'assunto del giudice di appello, secondo il quale si dovrebbe ritenere che per mercato del luogo in cui i beni sono stati acquistati debba intendersi necessariamente quello dell'acquirente dei beni stessi. Non va, infatti, tralasciato di considerare il disposto dell'art. 1510 c.c. a tenore del quale in mancanza di patto o di uso contrario, la consegna della cosa deve avvenire nel luogo dove questa si trovava al tempo della vendita, se le parti ne erano a conoscenza, ovvero nel luogo dove il venditore aveva il suo domicilio o la sede dell'impresa . D'altronde, il rilievo che riveste la consegna del bene ceduto secondo le modalità di cui alla norma succitata ovverosia presso il venditore e comunque nel luogo in cui la cosa si trovava al momento della vendita, e non certo presso il compratore per il verificarsi dell'effetto traslativo ai fini della determinazione del reddito di impresa, è dimostrato anche dal rilievo decisivo che la consegna stessa assume, ai sensi dell'art. 75, co. 2 ora 109, co. 2 d.P.R. 917/86, ai fini della individuazione dell'esercizio di competenza per i corrispettivi delle cessioni e le spese di acquisizione dei beni Cass. 341/06 . Ne discende che l'assunto del giudice di appello, per quanto concerne l'individuazione del mercato cui deve farsi riferimento, ai fini del riscontro delle transazioni comparabili con quella oggetto di controllo, appare del tutto destituito di fondamento. 2.3.5. A tutto quanto suesposto, va infine soggiunto che, sul piano della censura concernente il vizio di motivazione, deve rilevarsi che la CTR non ha in alcun modo preso in considerazione, neppure per disattenderle, le deduzioni dell'Amministrazione circa l'impossibilità di effettuare il confronto con imprese attive sul mercato belga, atteso che i soli soggetti comparabili, ivi operanti nel settore merceologico di appartenenza della contribuente, erano esclusivamente società collegate del gruppo S. . Con la conseguenza che il valore normale della merce ceduta da una società appartenente allo stesso gruppo della società cessionaria non avrebbe potuto essere in concreto determinato, se la comparazione fosse stata effettuata con imprese operative nel mercato estero, tenendo conto del prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari, in condizioni di libera concorrenza 3. Per tutte le ragioni che precedono, dunque, in accoglimento del ricorso dell'Amministrazione finanziaria, l'impugnata sentenza deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Toscana, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, attenendosi al seguente principio di diritto il criterio prioritario per stabilire il valore normale dei corrispettivi, nelle vendite tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, è quello enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell'art. 9 d.P.R. 917/86, che lo individua nel riferimento, in via principale ed in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi, ed in via subordinata in caso di mancanza o inattendibilità di tali elementi alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso solo in via sussidiaria potrà farsi riferimento al criterio enunciato dalla prima parte del co. 3 dell'art. 9 d.P.R. 917/86, che va inteso nel senso che il mercato al quale occorre fare riferimento, ai fini della determinazione del valore normale dei prezzi e dei corrispettivi nelle vendite infragruppo, è quello nazionale del venditore, ossia il mercato italiano . 4. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, che provvederà alla liquidazione anche delle spese del presente giudizio.