Le dichiarazione di terzi hanno valenza indiziaria a favore del contribuente

Nel processo tributario, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, va riconosciuto non solo all'Amministrazione Finanziaria, ma anche al contribuente.

Ciò al fine di garantire il principio della parità delle armi processuali, nonché l'effettività del diritto di difesa Nonostante il divieto di prova testimoniale, possono essere acquisite e valutate dal giudice come presunzioni semplici le dichiarazioni rese da un fornitore, ad esempio, circa le movimentazioni bancarie. Tuttavia, per sconfessare un accertamento del reddito d'impresa sono necessarie spiegazioni analitiche e non sommarie circa qualunque versamento o prelevamento. Tale assunto è stato precisato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21305 del 18 settembre 2013. Il caso. La vicenda ha riguardato un piccolo imprenditore che, dopo una verifica della Guardia di Finanza sui conti bancari, aveva ricevuto un accertamento fiscale contenente la contestazione di reddito d'impresa non dichiarato, in relazione a un'attività di intermediazione finanziaria abusiva L’Amministrazione ha contestato un’abusiva attività di intermediazione finanziaria e l’occultamento di redditi derivanti da partecipazione in società di persone. Il giudice del gravame, confermando la pronuncia di primo grado, ha annullato un avviso di accertamento con cui il fisco aveva rettificato il reddito dichiarato per il 1994 da 2 contribuenti all’esito di indagini svolte dalla GdF con accesso ai movimenti bancari. Esso ha ritenuto sufficienti a sconfessare le presunzioni di reddito sul conto bancario, alcune dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, rilasciate da terzi. Le dichiarazioni di terzi possono trovare ingresso nel processo tributario, ma solo con valore di indizi. Gli Ermellini hanno accolto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate e, per l’effetto, hanno cassato con rinvio la pronuncia del giudice del gravame. La Suprema Corte ha precisato che il giudice del merito non ha fatto corretta applicazione del principio, oramai pacifico, secondo cui le dichiarazioni di terzi possono trovare ingresso nel processo tributario ma solo con valore di indizi e come tali devono essere valutate dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti . Le dette dichiarazioni, cioè, non sono idonee a costituire, da sole, il fondamento della decisione e, nel caso degli accertamenti basati su presunzioni bancarie, le stesse debbono essere sottoposte a un'attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio purché grave, preciso e concordante ai movimenti bancari contestati . Essa, inoltre, conferma che anche al contribuente, oltreché all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta - in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell’art. 111 Cost. - la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale come, per esempio, le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà . Giusto processo tributario. È incontrovertibile che il nuovo art. 111 della nostra Costituzione si applica anche alle norme regolatrici del processo tributario. Da siffatto postulato deriva come corollario che il dato normativo processuale vigente va interpretato conformemente al principio costituzionale del giusto processo. Il dettato costituzionale vincola l’interprete a rigettare qualsiasi posizione di supremazia del Fisco all’interno del processo tributario ed a superare, pertanto, l’ambiguo dato letterale del vigente dato normativo a favore di una interpretazione logica-sistematica, conforme ai principi fondamentali di garanzia e di effettività di tutela. Va superata quella visione mistificatoria che assicura, all’interno del processo, una posizione di supremazia al Fisco. Qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria processuale deve essere risolto dall'interprete nel senso più conforme ai principi del giusto processo. Il canone ermeneutico, dell'interpretazione adeguatrice a Costituzione, comporta il dovere dell'interprete di preferire, nel dubbio, il significato e la portata della disposizione interpretata conformi a Costituzione. Il principio del giusto processo, ispirato a maggiore democrazia dei rapporti Fisco-contribuente, deve aiutare l’interprete a ricavare dalle norme tributarie processuali il senso che le renda compatibili con i principi costituzionali. È, infatti, compito dell’interprete fare in modo che il seme di natura costituzionale attecchisca e germogli nell’ordito legislativo vigente. Esso assurge a strumento interpretativo ovvero a chiave di lettura indispensabile per coloro che applicano le norme tributarie esso assume un evidente valore interpretativo, poiché serve all’interprete per rendere compatibili le norme tributarie di natura processuale con i principi costituzionali. Si impone, pertanto, la realizzazione del giusto processo tributario, la quale implica, innanzitutto, la rimozione dei limiti probatori e la piena attuazione del diritto alla prova. Un giusto processo, e quindi anche quello di natura tributaria, deve consentire ogni tipo di prova afferente alla determinazione della materia imponibile ovvero deve permettere all’interessato di fornire le controprove per essere scagionato dall’ accusa di evasore fiscale. Solo nel giusto processo sussiste affermazione della verità e quindi affermazione ed esaltazione della giustizia. Occorre riconoscere, in particolare, nel giudizio davanti alle C.T., al contribuente il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, che non hanno, tuttavia, il valore di prova vera ma solo di elementi indiziari da valutare assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della pronuncia. Le dichiarazioni scritte di terzi, contenenti testimonianze anomale devono essere ammesse nel processo e, quindi, per non violare la parità delle parti nel processo tributario ossia il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa deve consentirsi anche al contribuente ciò che è consentito alla controparte, pena l’incostituzionalità della norma deve ammettersi pienamente nel processo tributario la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prodotta dal contribuente a sostegno delle sue argomentazioni, con valore di prova indiziaria liberamente valutabile dal giudice, unicamente ad altre fonti di prova.

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 5 giugno – 18 settembre 2013, n. 21305 Presidente Merone – Relatore Terrusi Svolgimento del processo G.D.G. e C.V. proponevano ricorso contro un avviso di accertamento attinente all' anno d'imposta 1994, col quale erano stati loro imputati -all'esito di indagini svolte dalla guardia di finanza con accesso ai movimenti bancari - maggiori redditi ai fini dell'Irpef, dell'Ilor, del contributo al s.s.n. e del tributo straordinario di solidarietà, oltre sanzioni e interessi redditi derivanti, per D.G., da abusiva attività di intermediazione finanziaria e, per entrambi, da partecipazione in società di persone. Il ricorso veniva accolto dall'adita commissione tributaria provinciale di Livorno. Per quanto di interesse in questa sede, la commissione tributaria regionale della Toscana confermava la decisione. Il giudice d'appello considerava, quanto al D.G., commercialista in Piombino, che, essendosi costui avvalso del ed. concordato di massa di cui alla L. n. 564 del 1994, ogni accertamento relativo all' anno 1994 dovevasi ritenere precluso. A ogni modo osservava, quanto a entrambi, che l'accertamento era stato contraddetto nel merito da contrari elementi di prova. Di fatti la ripresa a tassazione aveva avuto a oggetto maggiori redditi d'impresa imputati al D.G. in dipendenza di una abusiva attività di intermediazione finanziaria ma sul punto il contribuente aveva legittimamente prodotto in giudizio alcune dichiarazioni sostitutive dì atti di notorietà redatte da soggetti terzi, dalle quali dovevasi evincere la non fondatezza dell' ipotesi afferente. In secondo luogo l'accertamento aveva tenuto conto dei redditi di partecipazione dì entrambi i contribuenti G. e V. in due società dì persone L. s.a.s, e D. s.a.s. e al riguardo il maggior reddito avrebbe dovuto essere imputato in ragione delle rispettive quote di partecipazione conformemente alla avvenuta separata definizione del reddito sociale. Contro la decisione suddetta, depositata il 29-3-2007 e non notificata, l'agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione in cinque motivi. Si è costituita con controricorso la sola V., attesa la morte di D.G., peraltro sopravvenuta dopo la notifica del ricorso. Motivi della decisione I. - Col primo mezzo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., l'agenzia ricorrente assume essere intervenuto un giudicato esterno sulla questione relativa alla ritenuta preclusione del potere di accertamento per l'anno 1994 quanto al D.G., avendo questa corte, con sentenza n. 11085-06, confermato la validità del provvedimento di diniego di definizione per l'anno medesimo, ai sensi del d.l. n. 449 del 1996, per essersi il contribuente trovato nella situazione impediente descritta dall'art. 3, 2° co., lett. a . Col secondo mezzo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 3, 2° co., lett. a , del d.l. n. 449 del 1996, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., la ricorrente in ogni caso sostiene che l'istanza di definizione presentata dal contribuente per l'anno 1994 era stata legittimamente respinta dall'ufficio per la pendenza di un procedimento penale per uno dei reati indicati nell'art. 2-bis, 2° co., della L. n. 656 del 1994, secondo l'interpretazione data alla formula di legge dalla richiamata sentenza di questa corte n. 11085-06. Sicché, attesa l'inammissibilità dell' istanza di definizione, nessuna preclusione all'azione di accertamento potevasi considerare sussistente per 1'anno suddetto. Il terzo motivo attiene alla concorrente ratio in virtù della quale la commissione tributaria regionale ha annullato la ripresa relativa al reddito di D.G. derivante dall'esercizio di attività di intermediazione finanziaria. Deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32, 1° co., n. 2, del d.p.r. n. 600 del 1973, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., l'agenzia ascrive all'impugnata sentenza di non aver fatto buon governo delle norme disciplinanti il meccanismo presuntivo a supporto della rettifica del reddito, essendo stata la rettifica basata sull'analisi dei movimenti bancari. In tal caso invero l'onere della prova contraria incombeva interamente sul contribuente e doveva essere assolto in modo specifico e analitico in rapporto ai singoli accertamenti. Col quarto motivo, sempre relativamente alla statuizione detta, l'agenzia deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 32, 1 co., n. 2, e 39, 2° co., lett. d , del d.p.r. n. 600 del 1973, nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., 7, 4° co., del d. lgs. n. 546 del 1992 e 51 del Tuir, in quanto la commissione tributaria regionale, escludendo l'esistenza di un'attività d'impresa a tipo intermediazione finanziaria, ricostruita induttivamente dall'ufficio, si sarebbe basata su dichiarazioni sostituite di notorietà asseritamente favorevoli alla posizione del contribuente. Mentre dichiarazioni di tal genere, nel processo tributario, non possono essere prese in considerazione perché contrastanti col divieto di prova testimoniale. Infine col quinto motivo l'agenzia delle entrate deduce il vizio di omessa motivazione su fatto controverso decisivo art. 360, n. 5, c.p.c . Lamenta che, a fronte di una ricostruzione induttiva del reddito d'impresa, conseguito dal contribuente D.G. nell'esercizio di un'attività di intermediazione finanziaria rappresentata dalle risultanze di movimentazioni bancarie legittimamente ricostruite, tenuto conto del limitato numero di soggetti coinvolti e della natura dei pagamenti correlati a sconto di effetti cambiari per un importo considerevole di circa 2 mld. di lire , e a fronte della dedotta inverosimiglianza di dichiarazioni al riguardo rilasciate da soggetti terzi, attestanti la gratuità dei prestiti ottenuti, la commissione tributaria regionale abbia escluso la fondatezza della ripresa limitandosi a rilevare l'esistenza delle dette dichiarazioni, senza nulla argomentare riguardo al loro contenuto. II. - Va preliminarmente osservato che il ricorso per cassazione devolve questioni relative al solo capo dell'impugnata sentenza afferente il reddito, imputato a D.G., in dipendenza della dedotta attività di intermediazione finanziaria. Nessuna censura è mossa quanto al capo della sentenza invece relativo, per il predetto D.G. e per la V., al reddito di partecipazione di ciascuno in società a base personale. In tal guisa l'impugnata sentenza ha confermato la decisione dì primo grado con la quale il ricorso dei soci era stato accolto previa rideterminazione pro-quota del maggior reddito di partecipazione conformemente a quanto già deciso in relazione alla D. s.a.s. Consegue che il giudicato afferente impedisce alla corte di formulare rilievi a proposito del fatto che la statuizione della commissione tributaria regionale risulta adottata in violazione del principio di litisconsorzio unitario originario v. sez. un. n. 14815-08 , per non avere preso parte al giudizio le società del cui reddito si trattava e gli eventuali ulteriori soci. Né rileva che questa corte, giusta sentenza n. 20112-12, abbia infine cassato la pronuncia giurisdizionale concernente l'accertamento del reddito d'impresa della D. s.a.s., per l’anno 1994, con rinvio al giudice di primo grado. Di fatti, pur vero essendo che l'accertamento del reddito sociale e l'accertamento del reddito dei soci sono in rapporto di reciproca implicazione, tanto che non si può accertare il secondo se non previamente accertando il primo, resta il fatto che, con riguardo alla posizione dei soci, rispetto alle imposte dirette da essi dovute, si è formato un giudicato preclusivo avente base nel richiamo per relationem di quanto stabilito, ai fini del reddito sociale presupposto, nella decisione allora pronunciata dalla medesima commissione regionale. III - I suesposti cinque motivi devolvono alla corte i profili concernenti l’accertamento di materia imponibile conseguente a una presunta attività di intermediazione finanziaria ricostruita sulla base dell' analisi dei movimenti bancari. Sono innanzi tutto fondate - sebbene nel distinto senso che segue - le doglianze espresse col primo e col secondo motivo, tra loro chiaramente connesse e suscettibili di esame unitario. IV. - Come all'inizio si diceva, l'impugnata sentenza ha annullato l'accertamento ritenendolo precluso dal fatto che il contribuente si era avvalso, per l'anno 1994, del cd. concordato di massa di cui al d.l. n. 564 del 1994. Premesso che l'ufficio aveva dedotto l'inapplicabilità dell'istituto di favore nel caso dì specie, per essere stato il contribuente sottoposto a procedimento penale per delitti ostativi frode fiscale commessi in concorso, la commissione tributaria regionale ha sostenuto che l'art. 3 del d.l. n. 346 del 1996 non consentiva alcun ampliamento delle fattispecie di reato preclusive al concordato. L'affermazione è viziata da un errore di diritto. Dalla trascrizione operata in seno al ricorso si apprende essere stata evidenziata alla commissione regionale la significativa circostanza che l'istanza di ammissione al concordato era stata respinta in sede amministrativa, e a che avverso il rifiuto dì ammissione {. . il contribuente [aveva] proposto ricorso alle commissioni dì primo e di secondo grado b che in quelle sedi i ricorsi [erano] stati accolti e che 1'ufficio [aveva] impugnato dette decisioni - ritenendole illegittime innanzi alla Suprema corte di cassazione ove il gravame [era] tuttora pendente . Il profilo condizionava il presupposto della validità dell'adesione del contribuente al concordato e dunque supponeva un'adeguata indagine circa la sopravvenuta eventuale definitività dell' annullamento del provvedimento di diniego. Simile indagine la commissione tributaria regionale ha totalmente omesso, e in sua mancanza l'affermazione inerente la preclusione all' accertamento del maggior reddito per l'anno 1994 si rivela priva di qualunque costrutto. Invero la sentenza ablativa del provvedimento di diniego potevasi considerare rilevante in tal senso -al fine cioè di dedursene un effetto preclusivo in ordine alla potestà di accertamento per l'anno d'imposta - solo se passata in giudicato. Fatto si è che questa corte ha infine definito il giudizio presupposto a mezzo dell'affermazione che in tema di condono tributario, l'art. 3 comma 2 lett. a d.l. 30 agosto 1996 n. 449 non convertito, ma i cui effetti sono stati fatti salvi dall'art. 2 della L. n. 662 del 1996 , nel prevedere che la definizione agevolata ivi prevista non è ammessa se alla data del 15 novembre 1996 ricorrono le ipotesi indicate nell'art. 2 bis comma 2 d.l. 30 settembre 1994 n. 564, conv. in L. 30 novembre 1994 n. 656 - vale a dire quando è configurabile l'obbligo di denunzia all’autorità giudiziaria per i reati di cui agli art. da 1 a 4 d.l. 10 luglio 1982 n. 429, conv. in L. 7 agosto 1982 n. 516, ovvero quando per detti reati risulta essere stato presentato rapporto dalla guardia di finanza o risulta essere stata avviata l'azione penale - pone un impedimento di natura soggettiva alla possibilità di definizione senza alcuna distinzione fra l'ipotesi di reato monosoggettivo e quella di concorso di più persone nel medesimo reato, dovendosi pertanto escludere che l'amministrazione finanziaria, ai fini dell'ammissione al beneficio, abbia il potere di valutare autonomamente la maggiore o minore importanza del contributo causale fornito dal singolo concorrente Cass. n. 11085-06 . E ha definito altresì il merito della controversia presupposta, rigettando ai sensi dell'art. 384, ult. co., c.p.c. il ricorso del contribuente D.G. per l'annullamento del diniego dell’istanza di definizione a suo tempo presentata ai sensi del d.l. n. 449 del 1996. Conseguentemente nessuna preclusione alla potestà di accertamento poteva considerarsi derivata dall'adesione del contribuente al concordato di massa, giacché l'adesione era stata legittimamente negata. V. - La commissione tributaria regionale ha poi affermato, nel merito e in aggiunta all'anzidetta ratio, che in relazione all'accertamento del reddito erano stati acquisiti contrari elementi di prova. Posto che la ripresa a tassazione aveva avuto a oggetto maggiori redditi d'impresa imputati a D.G. in dipendenza di una abusiva attività di intermediazione finanziaria, la tesi esposta dal giudice d'appello è che il contribuente aveva legittimamente prodotto in giudizio alcune dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà redatte da soggetti terzi, dalle quali dovevasi evincere la non fondatezza dell'ipotesi a monte, in ordine all'avvenuto svolgimento della suddetta attività. La suddetta ratio decidendo è qui impugnata a mezzo del terzo, del quarto e del quinto motivo, di cui è possibile l'esame congiunto. La corte condivide le doglianze di cui al terzo e al quinto motivo, mentre reputa infondata la tesi dalla ricorrente esposta nel quarto. VI. - E' invero pacifico che, nella specie, l'accertamento aveva riguardato proventi comunque desumibili dall'analisi dei movimenti bancari. In caso di accertamento bancario - per costante giurisprudenza - è onere del contribuente dimostrare che i proventi desumibili dai movimenti sui conti non sono riferibili a operazioni imponibili. In tal senso è necessario fornire una prova analitica v. da ultimo Cass. n. 7296-12 n. 25502-11 su ogni versamento confluito in conto e su ogni prelevamento comunque effettuato. Non rileva l'ascrivibilità del provento a una specifica attività d'impresa. Questa corte ha anche recentemente precisato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 32, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell'attività stessa v. Cass. 10578-11 . Di fatti la ratio della indicata previsione sta in ciò che, quanto alle imposte sui redditi, la presunzione rinveniente nell'art. 32 postula che tanto i prelevamenti, quanto i versamenti operati sui conti correnti bancari vadano imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile, oppure se non fornisce la prova che le operazioni analizzate sono estranee alla produzione del reddito. Trattasi di principio avente portata generale, nonostante l'utilizzo nella versione della norma applicabile ratione temporis dell'accezione ricavi anziché di quella - più generale - compensi , cosi da rivelarsi applicabile non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale cfr. Cass. 1401-11 . VII. - Ora è ben vero che l'art. 32 citato prevede una presunzione legale a fronte della quale il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici. Ed è vero che nel contesto degli elementi di prova contraria il giudice può anche considerare le risultanze di scritti proveniente da terzi, ove ritualmente prodotti in giudizio, in quanto - diversamente da quanto sostenuto dall'amministrazione nel quarto motivo dell'odierno ricorso - la disposizione contenuta nell'art. 7, 4° co., del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 54 6, secondo cui nel processo tributario non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale , è norma limitativa dei poteri delle commissioni tributarie, e quindi vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo ovverosia per quella narrazione che acquista un particolare valore probatorio in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione dì un giuramento o di un impegno da parte del terzo assunto quale teste. Cosicché va confermato il principio che, in tema di contenzioso tributario, anche al contribuente oltre che all' amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell'art. 111 cost. — la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale come appunto le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà , le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti v. Cass. n. 20028-11 n. 11785-10 . Nondimeno è certo che i ripetuti eventuali elementi di prova contraria valgono come presunzioni semplici, e debbono essere poi comunque sottoposte a un'attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio purché grave, preciso e concordante ai movimenti bancari contestati. Il cui significato deve essere invero apprezzato nei tempi, nell'ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative. La disposizione richiamata, cioè, non consente affatto al contribuente di apprestare una prova generica purchessia, onde adempiere all' onere dimostrativo su di lui gravante. VIII. - Siffatti consolidati principi l'impugnata sentenza mostra di aver ignorato, atteso che la decisione è stata sorretta, infine, da considerazioni giustappunto apodittiche, incentrate su non meglio precisate dichiarazioni rilasciate dai soggetti interessati compendiate in un'inesplicata e irrilevante affermazione di chiusura circa la loro inettitudine a ritenere legittimo un accertamento del reddito d'impresa per l'attività di intermediazione finanziaria . In conclusione, accolto il ricorso in relazione ai motivi suddetti, l'impugnata sentenza va cassata con rinvio alla medesima commissione tributaria regionale, diversa sezione, per nuovo esame. La commissione tributaria regionale si uniformerà ai principi di diritto sopra esposti e provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. Accoglie il primo, il secondo, il terzo e il quinto motivo rigetta il quarto cassa l'impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla commissione tributaria regionale della Toscana.