Prestazione sanitaria e falso in atto pubblico: quando l’atto fa fede fino a “querela di falso”?

Perché ricorra il reato di cui all’art. 476, comma 2 c.p. non è sufficiente che l’atto sia formato da un pubblico ufficiale nell’esercizio legittimo di una speciale funzione pubblica di attestazione, ma è necessario altresì che la falsità investa fatti che il pubblico ufficiale riferisca come visti, uditi o direttamente da lui compiuti.

Il caso. Un medico veniva assolto in primo grado e condannato in secondo per due reati di falso, ai sensi degli artt. 476 e 479 c.p. perché, secondo la ricostruzione dei giudici di merito avrebbe sottoposto un cittadino spagnolo, già da lui operato per un tumore tracheale in Spagna, ad un intervento presso un ospedale fiorentino, dichiarando falsamente l’urgenza dell’intervento, sulla scorta di una scheda di accettazione redatta successivamente ad altra annullata. Secondo la tesi accusatoria, sposata dai giudici di appello, si era in presenza di atti dal contenuto falso, atteso che l’imputato aveva riportato delle diagnosi non corrette per giustificare l’urgenza dell’attività medica posta in essere al fine di non fare pagare al paziente il costo della prestazione, pari ad € 271, che era a suo carico. Ciò perchè, in assenza della tessera sanitaria, non poteva usufruire di ottenere gratuitamente l’intervento medico. Riferimenti normativi. L’art. 476 c.p. dispone che sia punito il pubblico ufficiale che nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero e che la sua condotta sia da ritenersi ancora più grave quando la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso . Ebbene, l’aggravante prevista dal secondo comma, secondo giurisprudenza costante, non può essere contestata, e quindi poi ritenuta dal giudice, se nel capo di imputazione non sia chiarita la natura fidefacente dell’atto, attraverso una contestazione espressa. Atti pubblici. Come è noto, gli atti pubblici sono destinati a provare la verità, e ciò sia che essi siano a fede privilegiata o semplice. L’art. 2699 c.c. individua, invero, l’atto pubblico come quel documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato . Tale definizione pertanto individua la categoria generale degli atti pubblici dotati, per l’appunto di pubblica fede”, a differenza di quelli a fede privilegiata individuati dal successivo art. 2700 c.c Si tratta, in questo secondo caso, di quegli atti che fanno piena prova fino a querela di falso”, con specifico riguardo alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti nonchè agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Affinchè si possano mettere in discussione tali circostanze, che sono sorrette da una presunzione di veridicità, è necessario avviare uno specifico giudizio di querela di falso”. Perché, dunque, possa contestarsi la specifica ipotesi di cui all’art. 476, comma 2 c.p.p., occorre che la falsità dell’atto che viene contestata investa, per l’appunto, una delle circostanze indicate dall’art. 2700 c.c Valutazioni mediche e falso. Nel caso di specie, secondo la Corte d’Appello, la falsità avrebbe riguardato la patologia indicata nell’atto ritenuto falso e l’urgenza del trattamento. Appare evidente, tuttavia, come la valutazione di tali fattori medici non possa costituire prova fino a querela di falso” nel senso individuato dal Codice Civile. D’altronde, condividendo quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, se tali elementi costituissero prova fino a querela di falso, si dovrebbe ritenere che in un processo civile non sarebbe sindacabile la valutazione sulla correttezza della diagnosi se non previo esperimento della querela di falso . Circostanza questa inaccettabile, atteso che tale tipo di valutazione può essere contrastata con una perizia medica, ad esempio, che costituisca semplicemente prova contraria. Quando il falso è aggravato”. Precisano i Giudici di legittimità che il fatto che il pubblico ufficiale possa redigere atti fidefacenti non significa che l’ipotesi di falso vada necessariamente a configurare la fattispecie di cui all’art. 476, comma 2 c.p., a meno che la falsità dell’atto non investa il dato contenuto dall’art. 2700 c.c. Pertanto, affinchè si configuri tale reato non è tanto una specifica categoria di atti a venire in considerazione, quanto il contenuto dello o degli stessi a rilevare, con la conseguenza che uno stesso atto può costituire un reato di falso semplice o aggravato a seconda di quale sia il dato da considerare. E, d’altronde, l’avere previsto una pena molto più elevata rispetto alla ipotesi base, per i casi di falso che riguardano presunzioni non superabili nemmeno con prova contraria, ma che necessitano di una querela di falso”, fa comprendere la reale portata e differenza che il legislatore ha voluto attribuire ai due tipi di reato. Da un lato, infatti, si punisce il pubblico ufficiale che falsifica un qualunque atto da lui posto in essere nell’ambito della propria funzione attestativa, dall’altro, invece, il pubblico ufficiale che attesta situazioni non veritiere avvenute in sua presenza o da lui poste in essere. È evidente, infine, che l’attestazione del pubblico ufficiale non può rivestire anche la veridicità di quanto affermato in sua presenza, ma solo che date affermazioni siano state pronunciate o certi fatti siano avvenuti dinanzi a lui.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 15 gennaio – 14 giugno 2021, n. 23239 Presidente Petruzzellis – Relatore Di Stefano Il testo integrale della sentenza sarà disponibile a breve.