Questioni in materia di responsabilità penale in caso di infortuni sul lavoro

La segmentazione delle attribuzioni, compresa quella di datore di lavoro, in assenza di deleghe formali non appare compatibile con realtà di piccole e medie dimensioni, la cui scarsa complessità implica l’intrinseca connessione tra la conduzione societaria dell’impresa e la sua semplice organizzazione, che non giustifica un modello di governo che ne disarticoli i poteri ed i correlativi obblighi, in assenza di una funzionalità al raggiungimento dello scopo dell’attività economica. La frammentazione per ambiti dei poteri decisori e di spesa finirebbe, infatti, con il coincidere con l’esonero di alcuni dei componenti del consiglio di amministrazione dagli obblighi prevenzionistici connessi con l’attività d’impresa, senza che a ciò corrisponda alcuna effettiva esigenza organizzativa del potere decisionale.

La mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa non integra, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem . ancorché il delitto e le contravvenzioni contestate scaturiscano dalla medesima condotta, non può ritenersi sussistente la medesimezza del fatto, mentre le contravvenzioni [antinfortunistiche] costituiscono reati di mera condotta, il fatto considerato dall’art. 451, invece, comprende anche l’evento, nella sua declinazione di pericolo di disastro od infortunio, che lo distingue dalle mere omissioni, dalle quali il pericolo deriva. Il legislatore lega l’ attenuante [di cui all’art. 12 lett. a D. Lgs. 231/2001] all’elisione delle conseguenze del reato, ciò naturalmente comprende il risarcimento del danno, ma anche l’eliminazione delle sue cause, cioè quelle conseguenze dannose o pericolose del reato, in quanto da esso derivate. [In relazione al secondo elemento, la disposizione] contiene una previsione di carattere generale, che riguarda anche [i reati] in cui la eliminazione delle conseguenze del reato non dipende esclusivamente dal suo autore. Ora, è proprio in relazione a dette ipotesi che il legislatore parifica l’essersi adoperato ad elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato alla loro eliminazione”. Queste le massime ricavabili della pronuncia della Corte di Cassazione n. 21522/21 depositata il 1° giugno. Il caso. In seguito ad un infortunio sul lavoro, i componenti del Consiglio di Amministrazione della Società di cui l’infortunato era dipendente venivano riconosciuti colpevoli in entrambi i gradi di giudizio del reato di lesioni personali colpose gravissime e di omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, nonché di alcune fattispecie contravvenzionali previste dalla normativa in materia antinfortunistica. Veniva, inoltre, riconosciuta la responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/01. Avverso la sentenza di merito proponevano ricorso per Cassazione tanto i Consiglieri quanto la Società stessa. Con il primo motivo di ricorso, uno degli amministratori lamentava la falsa applicazione della definizione di datore di lavoro” di cui al d.lgs. n. 81/2008 e il vizio di motivazione poiché il medesimo svolgeva esclusivamente compiti di natura amministrativa e contabile e dunque, in virtù del principio di effettività, non avrebbe ricoperto alcuna posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori poiché non svolgeva, in concreto, le funzioni del datore di lavoro. Con il secondo motivo di ricorso, tutti i consiglieri lamentavano la violazione della legge penale per avere, la Corte di merito, ritenuto la sussistenza del concorso formale tra il reato previsto dall’art. 451 c.p. e le contravvenzioni in materia antinfortunistica, definite in via amministrativa. Si riteneva, invero, violato il principio di ne bis in idem, poiché l’unitarietà del fatto sotteso alle diverse fattispecie avrebbe dovuto comportare la sola punizione degli imputati secondo la normativa speciale, con proscioglimento per il reato ex art. 451 c.p La Società proponeva altresì ricorso, lamentando, in primo luogo, la falsa applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 231/2001 e il vizio di motivazione poiché la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche non sarebbe stata una scelta consapevole adottata nell’”interesse o vantaggio” della Società, in quanto la stessa si era affidata alla società produttrice del macchinario che aveva causato l’infortunio, la quale – come accertato in sede civile – non aveva provveduto né alla certificazione del medesimo, né agli altri adempimenti tecnico-documentali previsti. Con ulteriore motivo di ricorso si censurava la violazione dell’art. 125 c.p.p. poiché la Corte d’Appello non aveva esaminato il motivo con il quale si lamentava la mancata applicazione , da parte del Giudice di prime Cure, la riduzione della sanzione poiché la Società aveva eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ma non aveva risarcito il danno integralmente. Si riteneva, invece, che l’art. 12 del D. Lgs. 231/2001 equiparasse all’integrale risarcimento del danno l’essersi efficacemente adoperato in tal senso”, cosa avvenuta nel caso di specie. Il contesto normativo. La Suprema Corte, nell’affrontare i motivi di ricorso, effettuava un compiuto esame della normativa e della Giurisprudenza, anche sovranazionale, rilevante nel caso di specie. Con riferimento al primo motivo di ricorso proposto da un solo Amministratore, veniva rammentata la nota sentenza Thyssenkrupp nonché ulteriori altri precedenti, ricordando come la posizione di garanzia derivi non solo dall’investitura formale ma anche dalla titolarità del potere decisionale e di spesa. Si ricordavano, peraltro, ulteriori precedenti che riconoscevano che – nell’ambito di organizzazioni complesse – vi potesse essere una ripartizione delle funzioni, anche implicita, che comporti la ripartizione delle attribuzioni gestorie tale da esonerare gli altri componenti del Consiglio di Amministrazione con il solo limite dell’obbligo di vigilanza. Sul secondo motivo di ricorso proposto dai Consiglieri, il Collegio osservava come la giurisprudenza sia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea avesse ribadito come il principio di ne bis in idem dovesse essere valutato in relazione ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi. Ciò era stato altresì affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 222/2019, nella quale si affermava come l’essere stato sanzionato definitivamente in sede amministrativa non comporti necessariamente la violazione del ne bis in idem qualora vi sia un procedimento penale per i medesimi fatti. Il Collegio, inoltre, esaminava i precedenti giurisprudenziali relativi alla medesimezza del fatto, rilevando come tale ipotesi si realizzi qualora vi sia corrispondenza storico-naturalistica di tutti gli elementi costitutivi del reato oltre che delle circostanze di tempo, luogo e persona. Per ciò che concerne i motivi di ricorso presentati dalla Società, in relazione al primo di essi il Collegio rammentava come la Giurisprudenza avesse chiarito come i concetti di interesse” e vantaggio” siano tra loro differenti e possano sussistere anche alternativamente evidenziando altresì come le Sezioni Unite abbiano chiarito come la sussistenza di tali criteri di imputazione oggettiva debbano essere valutati in relazione alla condotta e non all’evento. Relativamente al secondo motivo di ricorso, il Collegio interpretava la norma ritenendo che la riduzione della sanzione amministrativa possa essere operata quando, congiuntamente, sia stato risarcito il danno nonché eliminate le sue cause. In relazione al secondo requisito, in particolare, si affermava come in alcune ipotesi l’eliminazione delle conseguenze del reato non dipenda esclusivamente dal suo autore, e come solo in questi casi l’essersi efficacemente adoperato in tal senso” possa essere parificato alla loro completa eliminazione. La soluzione offerta dalla Corte. Secondo i Giudici di Legittimità, sulla base delle questioni così come ricostruite alla luce della normativa e dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza, doveva – in primo luogo – ritenersi sussistente la posizione di garanzia in capo a tutti gli Amministratori, trattandosi di una realtà medio-piccola ove non potrebbe essere giustificata una disarticolazione dei poteri gestori. Secondariamente, il Collegio riteneva che non potesse considerarsi sussistente la medesimezza dei fatti in relazione al reato di cui all’art. 451 c.p. e delle contravvenzioni antinfortunistiche, poiché il primo, tra i suoi elementi costitutivi, prevede anche l’evento, mentre le contravvenzioni sono reati di mera condotta. Infine, la Suprema Corte riteneva che nel caso di specie la Corte di merito avesse ben valutato la sussistenza dell’interesse in capo alla Società, come presupposto della sua responsabilità, poiché il macchinario era stato utilizzato prima che fosse intervenuto il collaudo definitivo, nonché del vantaggio conseguito dalla stessa, derivante dalla sistematica sottovalutazione dei rischi. Si riteneva, inoltre, che la valutazione della Corte di merito fosse correttamente stata eseguita ex ante. Si riteneva, inoltre, che l’ente non avesse adempiuto ad entrambe le condizioni previste per la riduzione della sanzione e cioè, nella specie, non avesse completamente eliminato le conseguenze del reato. Il Collegio riteneva dunque infondati tutti i motivi di ricorso, rigettandoli. Dichiarava, peraltro, l’intervenuta prescrizione delle fattispecie contravvenzionali nei confronti dell’unico Amministratore che con l’atto di appello aveva contestato la propria responsabilità penale anche in ordine a tali reati.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 2 marzo – 1 giugno 2021, n. 21522 Presidente Menichetti – Relatore Esposito Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 4 marzo 2019 la Corte di Appello di Milano ha parzialmente riformato, riducendo la pena per il capo a dell’imputazione, la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio con cui B.A. , in qualità di Presidente della G.B. s.r.l., B.F. e M.M.G. , in qualità di componenti del Consiglio di amministrazione della medesima società, sono stati ritenuti responsabili del reato di lesioni personali colpose gravissime ai danni del lavoratore A.A. capo a , nonché dei reati di cui agli artt. 113 e 451 c.p. capo b art. 113 c.p. e D.Lgs. n. 139 del 2006, art. 16, art. 20, comma 1 capo d art. 113 c.p., art. 279, comma 1 in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 269, comma 8 capo e confermando, altresì, la condanna della società G.B. a r.l., in persona del legale rappresentante, per l’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 1, lett. a e art. 25 septies. 2. Il fatto, non contestato nelle sue modalità di accadimento, può essere sinteticamente descritto come segue in data 27 marzo 2014, durante il turno notturno, cui era addetto l’operaio A.A. , mentre questi operava sulla postazione dell’isola di fusione F4, veniva colpito alle spalle dalla tazza di caricamento che trasferiva il metallo fuso dal forno alla conchigliatrice, rimanendo incastrato fra questa ed il forno. Il normale funzionamento dell’apparecchiatura, come descritto dalla stessa persona offesa, comportava che la tazza di caricamento dopo avere prelevato il metallo fuso dal forno si spostasse sino alla conchigliatrice, dove versava il metallo fuso nello stampo, indi tornava indietro verso il forno, fermandosi a metà corsa, per proseguire verso il forno solo quando il robot, di cui era dotato il macchinario, aveva prelevato il pezzo finito dallo stampo. Al contrario, nell’occasione, la tazza anziché arrestarsi aveva proseguito la corsa, colpendo alle spalle il lavoratore intento a caricare il forno di panetti di alluminio da fondere, così spingendolo verso il forno. Al lavoratore era stato dato incarico di operare in contemporaneità anche sull’isola di fusione F1, posta a fianco della F4, per cui egli doveva occuparsi di caricare il forno e di scaricare i pezzi finiti da entrambi i macchinari. 3. Avverso la sentenza di secondo grado propongono ricorso, a mezzo del comune difensore, B.F. , B.A. e M.M.G. , nonché, con separato atto la società G.B. s.r.l., assistita da altro legale. 4. Con il gravame proposto da M.M.G. , B.A. e B.F. sono formulati due motivi di impugnazione. 5. Con la prima doglianza, inerente alla sola posizione di M.M.G. , si fa valere la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. b ed il vizio di motivazione. Si sottolinea che, sebbene componente del Consiglio di amministrazione, la ricorrente svolgeva esclusivamente compiti di natura amministrativa e contabile, non esercitando in concreto funzioni datoriali, nè avendo mai assunto alcuna responsabilità dell’organizzazione del lavoro e dell’unità produttiva. Sicché, in forza del principio di effettività, che impone di assegnare la posizione di garanzia solo a chi svolga in concreto le funzioni di datore di lavoro, nessuna responsabilità può esserle attribuita nella causazione dell’infortunio. Si osserva che la ricorrente, proprio in ragione del ruolo svolto, si era affidata a coloro che avevano specifiche competenze nell’individuazione delle misure da adottare per tutelare l’integrità fisica dei lavoratori, B.F. e B.A. , i quali avevano messo in funzione il macchinario, senza peraltro che l’azienda produttrice del medesimo, da ritenersi corresponsabile, ne avesse interdetto l’utilizzo, in assenza del certificato di collaudo e dei prescritti dispositivi di sicurezza. D’altro canto, alcuno degli organi di controllo aveva mosso rilievi all’organizzazione aziendale, mentre in quasi cinquant’anni di attività non vi erano stati presso la fonderia infortuni degni di nota. Con la conseguenza che l’incolpazione nei confronti dell’imputata finisce per risolversi in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, determinata esclusivamente dalla carica rivestita, senza che alla medesima possano essere mossi rimproveri specifici. 6. Con il secondo motivo, comune ai tre ricorrenti M.M.G. , B.F. e B.A. , ci si duole della violazione della legge penale in ordine alla ritenuta sussistenza del concorso fra il reato di cui all’art. 451 c.p. capo b dell’imputazione e le contravvenzioni di cui alla legislazione antinfortunistica. Essendo, tuttavia, le violazioni di cui al capo b , ed in particolare quelle di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 46, comma 2 e art. 290 le medesime contestate ai capi 3 ed L di cui alla memoria depositata dal Pubblico ministero all’udienza del 11 luglio 2016 allegata al ricorso già definite in via amministrativa, il ritenuto concorso formale va ritenuto insussistente. Si sostiene, invero, che l’unitarietà del fatto sia sotto il profilo della condotta contestata, che sotto il profilo dell’offesa alla norma giuridica protetta, comporta che l’applicazione contestuale della fattispecie di cui all’art. 451 c.p. e di quelle di cui alla normativa speciale, contrasti con il divieto di bis in idem, essendo il disvalore dei fatti omogeneo, verte dunque, nell’ipotesi del concorso apparente di norme. Ciò, nondimeno, il fatto che le suddette violazioni siano già state sanzionate sulla base della normativa speciale, implica quale conseguenza il proscioglimento degli imputati dal reato di cui all’art. 451 c.p Concludono per l’annullamento della sentenza impugnata. 7. La società G.B. a r.l. formula due motivi di ricorso. 8. Con il primo fa valere la falsa applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 ed il vizio di motivazione, sotto il profilo della carenza, della manifesta illogicità e del travisamento della prova. Osserva che nell’interpretare il disposto del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 laddove prevede la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, la giurisprudenza ha ritenuto di dover riferire i concetti di interesse e vantaggio alla condotta e non all’evento. Con la conseguenza che la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche, per essere sanzionabile, deve essere il frutto di una scelta consapevole finalizzata al risparmio dei costi di impresa o alla riduzione delle spese ed alla massimizzazione del profitto. Sostiene che, nel caso di specie, unico soggetto responsabile della mancata adozione delle cautele prevenzionistiche è la società UTAS produttrice del macchinario utilizzato che, come emerge dall’A.T.P., svolto in sede civile, non ha provveduto alla certificazione dell’isola automatica di fusione commissionata dalla società G.B. s.r.l., nè agli altri adempimenti tecnico-documentali previsti. Sottolinea che la società non è mai stata sanzionata per violazioni relative all’adozione di misure antinfortunistiche, nonostante i plurimi e regolari accessi degli organismi di controllo VV.FF. Direzione territoriale del Lavoro ed ASL , circostanza questa che dimostra l’assenza del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di cui all’art. 5 cit 9. Con il secondo motivo censura la violazione della legge processuale in relazione all’art. 125 c.p.p., per avere la Corte territoriale omesso di motivare in ordine al motivo di appello inerente alla violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 2, lett. a e b . Rileva che la sentenza di prime cure non ha ritenuto integrato il presupposto della riduzione della sanzione prevista dalla disposizione, di cui alla lett. a , sostenendo che, seppure la società aveva eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, nondimeno non aveva completamente risarcito il danno. Assume che una simile impostazione, che impone la sussistenza di entrambe le condizioni, benché condivisibile, non tiene in considerazione l’ultima parte della disposizione di cui alla lett. a , che parifica l’integrale risarcimento del danno o l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose, all’ipotesi in cui l’ente si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso”. Circostanza questa evidente nel caso di specie, avendo la società G.B. s.r.l. corrisposto una somma a titolo risarcitorio, tanto che la parte civile ha revocato la sua costituzione, adoperandosi in tal senso a mezzo della richiesta di erogazione di un mutuo, finalizzato al risarcimento del danno. Contesta, altresì, la mancata applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, lett. b sottolineando che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il modello organizzativo, la cui predisposizione ed adozione condizionano la riduzione della sanzione, era stato depositato tempestivamente in giudizio, posto che all’udienza del 18 gennaio 2016, le parti si erano riservate il deposito di ulteriori documenti, senza che venisse emessa ordinanza di ammissione al rito, con rinvio del processo per eventuale discussione. Dunque, il deposito del rinnovato modello organizzativo, in data 16 marzo 2016, prima dell’udienza del 21 marzo 2016, per consentire al pubblico ministero di valutarlo, deve considerarsi tempestivo. Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata. 10. Con requisitoria scritta, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha concluso per il rigetto dei ricorsi. Considerato in diritto 1. I ricorsi debbono essere rigettati, salva la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi d ed e dell’impugnazione. 2 La doglianza proposta nell’interesse di M.M.G. è infondata. Con il primo motivo si pretende di escludere l’imputata dal novero dei soggetti garanti dell’incolumità dei lavoratori, facendo riferimento alla definizione della figura del datore di lavoro, come delineata dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. b . Si sostiene che la disposizione introduca il c.d. principio dell’effettività, in forza del quale può essere definito datore di lavoro solo colui che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’impresa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il che implica, di per sé, che il componente del Consiglio di amministrazione non può essere titolare della posizione di garanzia del datore di lavoro unicamente in forza della carica che ricopre, laddove sia privo di attribuzioni organizzative ed anzi svolga, all’interno dell’azienda, un ruolo meramente amministrativo e contabile. La questione posta, che inerisce all’individuazione della figura su cui gravano gli obblighi del datore di lavoro nelle società di capitali, deve essere risolta, secondo gli insegnamenti di questa Corte di legittimità, tenendo in considerazione la complessità dell’organizzazione. Perché se, in linea teorica, rivestono la qualifica di datore di lavoro tutti i componenti del consiglio amministratore, che gestisce ed organizza l’attività di impresa cfr. Sez. 4, Sentenza n. 6280 del 11/12/2007, dep. 08/02/2008, Mantelli Rv. 238958 , nondimeno, in concreto, nelle realtà più articolate ed in aziende di rilevanti dimensioni, l’individuazione della figura del datore di lavoro può non coincidere con la mera assunzione formale della carica di consigliere, laddove all’interno dell’organo deliberativo siano individuati soggetti cui vengono specificamente assegnati gli obblighi prevenzionistici Nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia. Sez. 4, Sentenza n. 8118 del 01/02/2017, Ottavi Rv. 269133 Sez. 3, Sentenza n. 12370 del 09/03/2005, Bincoletto, Rv. 231076 . 3. Il tema è stato approfondito dalla sentenza delle Sezioni Unite Espehnahn-Thyssenkrupp Sez. Unite n. 38343 del 24/04/2014 e prima ancora dalle sentenze di questa Sezione n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, e, n. 37738 del 28/05/2013, Gandolla che ne anticipano i contenuti , cui si rimanda integralmente, ricordando solo che l’assunzione della veste di garante può derivare dalla formale investitura, dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche della figura o dal trasferimento di poteri e funzioni da parte del soggetto che ne è titolare. Se, infatti le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto, la delega, è invece qualcosa di diverso essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, Gandolla, in motivazione . 4. Ciò che identifica il datore di lavoro è, dunque, la titolarità del potere decisionale sull’impresa e del potere di spesa, cui corrisponde l’obbligo prevenzionistico derivante dallo stesso esercizio dell’impresa. È proprio il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. b a stabilire il legame fra l’obbligo prevenzionistico ed il soggetto titolare della responsabilità decisionale, organizzativa e di spesa dell’impresa. Ed è la stessa disposizione che chiarisce come un simile rapporto derivi dal tipo di assetto organizzativo in cui il lavoratore presta la propria attività, modulando la figura di datore di lavoro non solo sulla titolarità dell’impresa e del rapporto di lavoro, ma sulla sua gestione attraverso l’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. 5. Nell’ambito di complesse organizzazioni imprenditoriali, in forma societaria, ciò legittima la distinzione fra ambiti gestori diversi derivanti dalla modulazione delle attribuzioni fra componenti del consiglio di amministrazione. L’estesa articolazione dell’organizzazione giustifica la ripartizione delle attribuzioni, in quanto funzionale al raggiungimento degli scopi dell’impresa. La forma può essere analoga a quella della delega di funzioni, ma anche implicita nell’incarico attribuito, consistente nel conferimento ad uno o più membri dell’organo deliberante di poteri esclusivi propri di quest’ultimo, senza che a ciò corrisponda una separazione tra il potere decisionale dell’imprenditore, nella sua forma societaria, e la sua gestione parcellizzata, convalidata dall’effettività del potere decisionale e di spesa conferito. Il limite dell’esonero degli altri componenti del consiglio di amministrazione è delineato dall’obbligo della vigilanza, cui l’organo deliberativo non può in alcun caso sottrarsi, in quanto organo che conferisce un potere proprio cfr. In tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitale il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda, e quindi con i vertici dell’azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni. Nell’occasione la Corte ha ulteriormente precisato che nell’eventualità di una ripartizione di funzioni nell’ambito del consiglio di amministrazione ex art. 2381 c.c. gli altri componenti rispondono anch’essi del fatto illecito allorché abbiano dolosamente omesso di vigilare o, una volta venuti a conoscenza di atti illeciti o dell’inidoneità del delegato, non siano intervenuti Sez. 3, Sentenza n. 12370 del 09/03/2005, Bincoletto Rv. 231076, già citata . 6. Una simile segmentazione dell’esercizio del potere gestorio, al contrario, non appare compatibile con realtà di piccole e medie dimensioni, la cui scarsa complessità implica l’intrinseca connessione fra la conduzione societaria dell’impresa e la sua semplice organizzazione, che non giustifica un modello di governo che ne disarticoli i poteri ed i correlativi obblighi, in assenza di una funzionalità al raggiungimento dello scopo dell’attività economica. La frammentazione per ambiti dei poteri decisori e di spesa finirebbe, infatti, con il coincidere con l’esonero alcuni dei componenti del consiglio di amministrazione dagli obblighi prevenzionistici connessi con l’attività di impresa, senza che a ciò corrisponda alcuna effettiva esigenza organizzativa del potere decisionale. 7. È muovendo da queste premesse che il giudice di primo grado e più sinteticamente quello d’appello affermano la responsabilità dell’imputata M.M.G. . Non, dunque, come ritenuto dalla ricorrente sulla base di una responsabilità oggettiva, inerente alla posizione” ricoperta, ma in forza della sua partecipazione all’organo deliberativo, titolare del potere decisionale ed organizzativo dell’impresa e del potere di spesa, che identificano, nel loro riflesso sul rapporto di lavoro, la figura del datore di lavoro, come delineata dal D.Lgs. n. 81 del 2008. 8. Il secondo motivo di ricorso formulato dai ricorrenti Mosto Maria Grazia, B.F. e B.A. è parimenti infondato. 9. Ci si duole che i giudici del merito abbiano ritenuto la sussistenza di concorso formale fra il delitto di cui all’art. 451 c.p. e le contravvenzioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, senza avvedersi della sussistenza del concorso apparente di norme. Osservano che le condotte contestate al capo b dell’imputazione, relativo al reato di omissione colposa di cautele contro gli infortuni art. 451 c.p. , sono sovrapponibili a quelle contestate con i capi J ed L , elencati riassuntivamente nella memoria del Pubblico ministero in data 11 luglio 2016 allegata al ricorso , per le quali è intervenuta definizione in via amministrativa. In particolare, si riferiscono alle violazioni del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 46, comma 2, di cui al capo J e D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 290 di cui al capo L della memoria prodotta, entrambe richiamate dalla contestazione di cui al capo b della rubrica. 10. La censura denuncia, altresì, la violazione del principio del ne bis in idem, stante l’unitarietà del fatto, sia sotto il profilo della condotta, che sotto quella del bene giuridico tutelato, da cui l’impossibilità di giustificare l’applicazione della disciplina sul concorso formale di reati, dovendo, invece, ravvisarsi un’ipotesi di concorso apparente di norme. Nondimeno, la previa definizione amministrativa delle ipotesi contravvenzionali previste da norme speciali esimerebbe dall’individuazione della norma da applicare in via esclusiva. 11. Ora, al di là del corretto rilievo contenuto nella requisitoria scritta del Procuratore generale, inerente al difetto di autosufficienza del ricorso, cui è allegata la memoria del Pubblico ministero, che pur enumerando i reati originariamente contestati ivi compresi quelli di cui ai capi J ed L -, non ne riporta la descrizione, ed anche volendo ritenere che fra le contravvenzioni estinte ai sensi del D.Lgs. n. 758 del 1994, vi siano quelle relative alle violazioni descritte al capo b dell’imputazione, relativa al reato di cui all’art. 451 c.p., non può condividersi l’assunto dei ricorrenti. 12. Secondo il pur risalente insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità art. 15 c.p. richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle cfr. Sez. U. n 1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv. 248864 . Il principio è declinato per il caso di concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, da altra pronuncia del Supremo Collegio, secondo cui deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all’altra all’esito del confronto tra le rispettive fattispecie astratte Sez. U, Sentenza n. 1963 del 28/10/2010 Cc. dep. 21/01/2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 . 13. È stato, tuttavia, sottolineato, più recentemente, anche da questa Sezione cfr. Sez. 4, Sentenza n. 29920 del 17/01/2019, con richiami a Sez. 5, Sentenza n. 34455 del 05/03/2018, Di Falco che l’individuazione della norma speciale risulta piuttosto agevole con riferimento ai casi di specialità c.d. unilaterale caratterizzati dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori . Laddove tra le norme risulti individuabile tale rapporto, si versa in una ipotesi di concorso apparente , per cui, ai sensi dell’art. 15 c.p., trova applicazione unicamente la fattispecie speciale. Tuttavia, perché tale norma possa trovare applicazione è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare la medesima materia ed avere identità di struttura. In altri termini, il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 c.p., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione . Nel caso di specialità c.d. bilaterale o reciproca in cui entrambe le norme presentano l’una elementi di specialità rispetto all’altra , invece, il problema è di meno agevole soluzione. Giurisprudenza e dottrina hanno, quindi, individuato una serie di indici rivelatori i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese per es., c.c. e L. Fall. specialità tra soggetti per es., artt. 616 e 619 c.p. la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti. Ad ogni modo, nei casi di specialità reciproca spesso è lo stesso legislatore ad individuare la norma prevalente ciò con una clausola di riserva che può essere determinata al di fuori delle ipotesi previste dall’art . relativamente determinata si individua una categoria per es., se il fatto non costituisce un più grave reato indeterminata quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge . Alla luce dei principi quivi esposti, la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra l’art. 581 c.p. percosse e art. 572 c.p. maltrattamenti in famiglia , ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui all’art. 605 c.p. sequestro di persona e art. 630 c.p. sequestro di persona a scopo di estorsione . L’identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione . cfr. Sez. 4, Sentenza n. 29920 del 17/01/2019 . 14. Nel ricapitolare lo stato della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale sul tema ne bis in idem possono ancora richiamarsi le parole di questa Sezione Secondo l’orientamento espresso dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo si veda in particolare la sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014 , il principio del ne bis in idem impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che quest’ultima è da ritenersi troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della persona. Si è affermato, quindi, che la nozione di condotta si traduce nell’insieme delle circostanze fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della condanna. Negli stessi termini si era già espressa la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, che, intervenendo per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte EDU sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, aveva affermato che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio . Siffatti principi sono stati ribaditi dalla fondamentale sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, con la quale la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto. La Grande Camera ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti amministrativo e penale, che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto legame che deve essere ravvisato, in particolare a quando le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta b quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato c quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti d quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito. Al contempo, come già affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 43 del 2018 si dovrà valutare, ai fini della verifica della possibile lesione dell’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto . A conclusioni sostanzialmente coincidenti è pervenuta la Grande sezione della Corte di giustizia, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Reai Estate SA e altri, in cause C 596/16 e C-597/16, Di Puma e CONSOB, e in causa C-524/15, Menci . A parere del supremo giudice dell’Unione, infatti, la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea CDFUE non si verifica alle seguenti condizioni a allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, e c assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione. 15. Si tratta di principi nuovamente ribaditi dalla più recente sentenza della Corte costituzionale n. 222/2019, a proposito del rapporto tra procedimento penale e procedimento amministrativo, il cui esito sia l’applicazione di una sanzione avente comunque natura penale. La questione sottoposta allo scrutinio della Corte riguardava la legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU -, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di un imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli. Nel dichiarare l’inammissibilità della questione, la Corte costituzionale ha richiamato la più recente giurisprudenza Europea tanto della Corte EDU quanto della Corte di giustizia dell’U.E. , secondo la quale la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa non integra, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem. 16. Questa lunga premessa è indispensabile per affrontare il tema posto dai ricorrenti, che, pur facendo riferimento alla prospettiva superata dal ‘bene giuridico tutelatò nondimeno, sottopongono il problema della medesimezza del fatto e del divieto del bis in idem. 17. Ora, è corretto affermare, come intende il ricorrente, che le due contravvenzioni, per le quali è intervenuta definizione amministrativa ai sensi del D.Lgs. n. 758 del 1994, art. 20 integrano le omissioni descritte dal capo b dell’imputazione, con il quale si contesta il reato di cui all’art. 451 c.p Si tratta dell’omessa collocazione della segnaletica finalizzata alla prevenzione incendi, dell’illuminazione di emergenza, dell’impianto di rilevazione del gas metano, come previsto nel progetto approvato dai Vigili del Fuoco, della difficoltosa accessibilità delle valvole di intercettazione del gas, della difficoltosa accessibilità dei percorsi anticendio, dovuta al deposito alla rinfusa di vario materiale, del non corretto funzionamento dell’attacco di mandata dell’autopompa, della carenza di personale addetto alla prevenzione incendi D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 46, comma 2 nonché dell’omessa valutazione dei rischi specifici derivanti da atmosfere esplosive, dell’omesso aggiornamento del piano di emergenza, evacuazione e rischio incendio e degli omessi controlli dei presidi antincendio D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 209 . 18. E va, altresì, osservato che alle omissioni non è seguito un evento ‘naturalisticò, da esse derivante, posto che l’infortunio occorso non è causalmente connesso con le violazioni, essendosi prodotto per tutt’altra causa su siffatta ipotesi cfr. Il giudicato formatosi riguardo ad una contravvenzione in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, costituente elemento di colpa specifica di un delitto colposo ad evento naturalistico, oggetto di un successivo procedimento, non preclude la procedibilità per tale delitto, trattandosi di reati concorrenti, non costituiti dal medesimo fatto storico. In applicazione del principio, la Corte ha escluso che l’intervenuta emissione di un decreto penale di condanna, non opposto, relativo alla violazione della disciplina antinfortunistica, determinasse effetti preclusivi rispetto al delitto di lesioni colpose . Sez. F, Sentenza n. 34782 del 04/08/2016, Rapone, Rv. 267597 . 19. Nondimeno, ancorché il delitto e le contravvenzioni contestate scaturiscano dalla medesima condotta, non può ritenersi sussistente la medesimezza del fatto. Invero, come sopra precisato la medesimezza del fatto ricorre quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona sentenza n. 129 del 2008 . 20. Ebbene, mentre le contravvenzioni in parola costituiscono reati di mera condotta, il fatto considerato dall’art. 451, invece, comprende anche l’evento, nella sua declinazione di pericolo di disastro od infortunio, che lo distingue dalla mere omissioni, dalle quali il pericolo deriva. 21. Il ricorso della società G.B. a r.l. è infondato. 22. Il primo motivo di ricorso affronta la questione della sussistenza dei presupposti di applicabilità del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 sostenendo che la sentenza impugnata omette di considerare che l’interesse o il vantaggio di cui alla disposizione debbono essere riferiti alla condotta e non all’evento e che, pertanto, per essere sanzionabile la mancata adozione di cautele antifortunistiche, deve essere frutto di una scelta consapevole finalizzata al risparmio di costi o alla riduzione delle spese. 23. Occorre ricordare che questa Sezione ha precisato il contenuto del richiamo normativo ai concetti di interesse e vantaggio, chiarendo che si tratta di concetti giuridicamente diversi, che possono essere alternativamente presenti, sì da giustificare comunque la responsabilità dell’ente, come reso palese dall’uso della congiunzione o da parte del legislatore nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 e come è desumibile, da un punto di vista sistematico, dall’art. 12, comma 1, lett. a , dello stesso D.Lgs., laddove si prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo , il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep. 21/1/2016, Gastoldi ed altri . Con l’ulteriore precisazione che il concetto di interesse attiene ad una valutazione ex ante rispetto alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di vantaggio implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post. 24. Si è poi precisato, dopo aver affermato il carattere alternativo delle due ipotesi, che il requisito dell’interesse dell’ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa pur non volendo – dunque quale opzione dolosa il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione . Ricorre, invece, il requisito del vantaggio per l’ente quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, anche in questo caso, ovviamente, non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionali e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto . Sez. 4, n. 31210 del 19/05/2016, dep. 20/07/2016 . 25. È stato ulteriormente chiarito che In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 all’interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all’evento. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26111501 e ciò, perché, non rispondono all’interesse dell’ente, o non procurano allo stesso un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di norme antinfortunistiche. 26. Sono premesse che la sentenza di prime cure ha tenuto ben presenti e sulla base delle quali ha valutato la sussistenza dell’interesse alla massimizzazione del profitto perseguito dalla politica assunta dalla società in materia di prevenzione, avendo l’imprenditore consapevolmente scelto di utilizzare l’apparecchiatura nel ciclo produttivo, prima dell’intervento del collaudo definitivo, imprescindibile requisito di sicurezza, al fine di far fronte ai crescenti ordinativi”, non altrimenti soddisfacibili. 27. Ma la decisione individua correttamente anche il vantaggio conseguito dall’azienda costituito dal risparmio dei costi degli interventi necessarii, tra cui la formazione ed informazione dei dipendenti. A ciò, può ulteriormente aggiungersi che il risparmio” si consegue anche riducendo i tempi di lavorazione e non solo gli investimenti per l’acquisto di strumenti cautelativi o per lo svolgimento di corsi di formazione dei dipendenti. La sottovalutazione sistematica dei rischi come precisato dalla giurisprudenza di legittimità va considerata chiaro sintomo di scelte imprenditoriali volte ad ottenere risparmi sui costi a dispetto degli obblighi di sicurezza gravanti sull’imprenditore a tutela della salute dei lavoratori. 28. In entrambi i casi la valutazione, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, è stata compiuta ex ante, con esplicito riferimento alla condotta tenuta da coloro che agivano per la società. 29. La sentenza di secondo grado riproduce i medesimi concetti, ponendosi, pertanto, in linea con i principi enunciati da questa Corte, sicché non mostra i vizi che le vengono addebitati. 30. Con il secondo motivo di gravame si denuncia la violazione del disposto del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 12 per non avere la Corte territoriale, fornito alcuna motivazione sul diniego dell’attenuante di cui all’art. 12 cit 31. Contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente, la sentenza gravata, seppure con estrema sintesi, risponde alla sollecitazione contenuta nell’atto di appello e conferma l’interpretazione della disposizione fatta propria dal giudice di prima cura, sottolineando altresì l’assenza di specificità del modello organizzativo prodotto. 32. Facendo, dunque, riferimento alla motivazione del primo giudice, che meglio articola il ragionamento, deve prendersi innanzitutto atto che con il primo profilo della doglianza in esame non si contesta che per l’applicazione della diminuente di cui il D.Lgs. n. 231 del 2008, art. 12, comma 2, lett. a debbano essere integrate entro la dichiarazione di apertura del dibattimento entrambe le condizioni previste. Ovverosia, l’integrale risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose. 33. Ciò che, in primo luogo, si sottolinea, al fine di dimostrare l’integrazione dei presupposti applicativi della disposizione, è che la previsione della lett. a parifica all’integrale risarcimento del danno ed all’elisione delle conseguenze dannose, l’essersi l’ente efficacemente adoperato in tal senso. Si sostiene che in quest’ultima condotta debba essere inquadrata la corresponsione della somma di Euro 80.000,00 in favore della parte civile, che, infatti, ha revocato la propria costituzione. 34. Ebbene, per dare risposta alla questione posta deve farsi ricorso, da un lato, alla ratio della disposizione, dall’altro, alla sua lettera. 35. Deve osservarsi, innanzitutto, che il legislatore lega l’attenuante all’elisione delle conseguenze del reato. Ciò, naturalmente comprende il risarcimento del danno, ma anche l’eliminazione delle sue cause, cioè quelle conseguenze dannose o pericolose del reato, in quanto da esso derivate. Mentre, con riferimento al primo requisito, relativo all’onere risarcitorio in senso stretto, la disposizione non richiede alcun approfondimento, in relazione al secondo, inerente alle conseguenze va precisato che essa contiene una previsione di carattere generale, che riguarda cioè tutti i reati di cui alla Sezione III del D.Lgs., fra cui sono compresi quelli di cui all’art. 25 septies che qui interessano , ma anche quelli in cui la eliminazione delle conseguenze del reato non dipende esclusivamente dal suo autore. Si pensi, a mero titolo di esempio, ai reati richiamati dall’art. 25, relativi alla falsità di monete, valori in bollo, la cui eventuale immissione in circolazione può non consentire l’integrale eliminazione delle conseguenze del reato. Ora, è proprio in relazione a dette ipotesi che il legislatore parifica l’essersi adoperato ad elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato alla loro eliminazione. È, peraltro, la stessa lettera della disposizione che chiarisce come la locuzione efficacemente adoperato” sia riferita solo alla seconda delle condizioni previste, ovverosia l’eliminazione delle conseguenze del reato, e non alla prima relativa all’integrale risarcimento del danno. E ciò, perché adoperarsi per l’integrale risarcimento, significa quantomeno risarcire parzialmente. Ma posto che il risarcire il danno, significa sempre ristorare integralmente le conseguenze dannose di un sinistro, l’utilizzo della locuzione risarcimento integrale” di cui alla prima parte, contrapposta all’adoperarsi in tal senso della seconda parte della disposizione, rende esplicita la volontà legislativa che se esige l’integrale risarcimento del danno, sempre possibile, nondimeno, ammette, in ordine alle conseguenze dannose o pericolose, non sempre integralmente eliminabili, che l’ente si sia efficacemente adoperato ad eliderle. 36. Dunque il ragionamento dei giudici del merito ed in particolare di quello di primo grado correttamente escludono che, nel caso di specie, a fronte di una risarcimento pacificamente non integrale, entrambe le condizioni di cui alla lett. a si siano verificate. 37. Con riferimento alla condizione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 2, lett. b va premesso che essa non è alternativa a quella di cui alla lettera a , dovendo essere entrambe integrate, al fine del riconoscimento dell’attenuante. Il che dispensa dall’esaminare la censura. 38. Deve, nondimeno, pronunciarsi l’estinzione per prescrizione delle contravvenzioni di cui ai capi d ed e , essendo decorso il termine di cui agli artt. 157 e 161 c.p., rispettivamente dalle date del 27 marzo 2014 e 11 aprile 2014, sicché tenuto conto dei periodi di sospensione, pari a giorni 113, i suddetti reati risultano prescritti al 18 luglio 2019 ed al 2 agosto 2019. Ciò, nondimeno, solo limitatamente alla posizione di M.M.G. , che con l’atto di appello ha contestato la sua penale responsabilità in ordine a tutti i reati ascritti. Ed invero, La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione non può essere pronunciata anche nei confronti del coimputato non impugnante in forza dell’effetto estensivo dell’impugnazione previsto dall’art. 587 c.p.p., comma 1, se il giudicato di colpevolezza nei suoi confronti si è formato prima del verificarsi della predetta causa estintiva. In motivazione la S.C. ha chiarito che l’opzione del coimputato impugnante di protrarre il procedimento configura una scelta processuale esclusivamente personale che rende perciò inoperante l’art. 587 c.p.p., comma 1, con riguardo alla prescrizione . Sez. Unite, Sentenza n. 3391 del 26/10/2017, Rv. 271539 . 39. La sentenza deve, dunque, essere annullata senza rinvio nei confronti di M.M.G. , limitatamente alle contravvenzioni di cui ai capi d ed e dell’imputazione, rigettando nel resto il suo ricorso. Debbono invece essere integralmente rigettati i ricorsi di B.A. , B.F. e della società G.B. s.r.l., con condanna dei medesimi ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.M.G. in ordine ai reati di cui capi d ed e perché estinti per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso della M. . Rigetta i ricorsi B.A. , B.F. e G.B. s.r.l. e li condanna al pagamento delle spese processuali.