Inadeguate condizioni di conservazione per i prodotti in vendita: colpevole anche la dipendente del negozio

Confermata la responsabilità penale non solo del titolare di una pescheria ma anche della lavoratrice che si occupava della gestione della struttura. Per i Giudici anche l’addetto alla vendita deve verificare le condizioni dei prodotti destinati alla clientela.

Blitz in una pescheria rinvenuti quasi cinquanta chili di prodotti ittici, destinati alla vendita ma privi di etichettatura attestante la tracciabilità, di numero di lotto, di data di confezionamento e di scadenza, e senza nessuna procedura di congelamento. Sacrosanto parlare di cattivo stato di conservazione . A risponderne penalmente, però, non è solo il titolare del negozio ma anche la dipendente Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 20937/21, depositata il 27 maggio . A essere esaminata minuziosamente è una pescheria in Sicilia. Il bilancio dell’ispezione, effettuata nel giugno del 2017, è inquietante nel negozio vengono rinvenuti circa quarantasette chilogrammi di prodotti ittici destinati alla vendita ma conservati in maniera assolutamente inadeguata, come testimoniato dalla mancanza dell’ etichettatura attestante la tracciabilità , del numero di lotto, della data di confezionamento e di quella di scadenza . A rendere la situazione ancora più grave, poi, l’ assenza di qualsiasi procedura di congelamento . Il quadro probatorio è ritenuto sufficiente dai giudici del Tribunale, i quali, però, addebitano la responsabilità penale non solo al titolare della pescheria ma anche all’unica dipendente a cui era affidata la gestione del negozio. Col ricorso in Cassazione l’avvocato prova non solo a ridimensionare l’accusa ma anche a contestare la responsabilità attribuita alla lavoratrice. Secondo il legale l’addetta alle vendite, in quanto dipendente, è esonerata, proprio in ragione di tale sua posizione, da qualsiasi onere di controllo rispetto alla merce venuta . Questa considerazione viene respinta in modo netto dai giudici della Cassazione. In particolare, i magistrati ritengono evidente la violazione accertata all’interno della pescheria, poiché gli alimenti posti in vendita, che consistevano in prodotti già preparati, non solo non rispondevano ai requisiti di tracciabilità, ma erano privi di adeguato confezionamento, di numero di lotto, della data di produzione e scadenza e non erano stati sottoposti ad alcuna procedura di congelamento . E tali inadeguate condizioni di conservazione, aggiungono i giudici, erano riscontrabili immediatamente da chiunque e rendevano di fatto impossibile ogni verifica sulla composizione del prodotto e sulle modalità di preparazione . Indiscutibile, ovviamente, la responsabilità del titolare del negozio . Per ciò che concerne le colpe della lavoratrice, poi, i magistrati di terzo grado chiariscono che il soggetto responsabile può essere individuato nel dipendente preposto alla vendita di prodotti alimentari, il quale è tenuto, prima di porre in vendita il prodotto, a controllarne la qualità e, qualora metta in vendita una sostanza alimentare in evidente cattivo stato di conservazione, risponde della contravvenzione in esame, consistente nel negligente mancato controllo dei requisiti di commestibilità del prodotto . Tirando le somme, l’ addetto alla vendita , nell’ambito delle sue attribuzioni, deve ritenersi comunque gravato da un onere di verifica delle condizioni del prodotto che viene posto in vendita, pur dovendosi ovviamente ritenere tale onere limitato a quelle situazioni in cui il cattivo stato di conservazione sia di immediata percezione , concludono i magistrati.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 26 aprile – 27 maggio 2021, n. 20937 Presidente Sarno – Relatore Ramacci Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Patti, con sentenza del 18 gennaio 2019 ha affermato la responsabilità penale di I.G. e M.M.G. , che ha condannato alla pena dell’ammenda, in ordine al reato di cui all’art. 110 c.p. e L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b e art. 6, perché, in concorso tra loro, il primo quale titolare di una pescheria, la seconda quale preposta all’esercizio commerciale, detenevano per la vendita e la commercializzazione 47 chilogrammi di prodotti ittici di vario tipo i quali, in quanto privi di etichettatura attestante la tracciabilità, di numero di lotto, di data di confezionamento e di scadenza e senza nessuna procedura di congelamento erano ritenersi in cattivo stato di conservazione fatti accertati in omissis . Avverso tale pronuncia i predetti hanno proposto, tramite il comune difensore di fiducia, un unico atto di appello convertito in ricorso per Cassazione. 2. Con un primo motivo di impugnazione deducono la erroneità della sentenza laddove viene affermata la penale responsabilità di M.M.G. , trattandosi di semplice lavoratrice dipendente così come dichiarato da un testimone escusso e documentato dal contratto di lavoro e dalla busta paga allegate all’impugnazione, richiamando e producendo anche il contratto collettivo nazionale relativo al commercio per lo specifico settore. 3. Con un secondo motivo di impugnazione denunciano l’illegittimità della sentenza per erronea valutazione delle prove assunte in dibattimento, lamentando che i testimoni escussi i verbalizzanti ed un medico veterinario non avrebbero effettivamente accertato il cattivo stato di conservazione degli alimenti venduti, avendolo soltanto presunto da non meglio documentate circostanze indirette. A tale proposito vengono richiamate le dichiarazioni testimoniali. 4. Con un terzo motivo di impugnazione si deduce che il giudice del merito non avrebbe tenuto conto dell’esiguità del disvalore della condotta posta in essere dagli imputati, che avrebbe consentito l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. e la conseguente declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Entrambi insistono, pertanto, per raccoglimento dell’impugnazione. Il Procuratore Generale, nella sua requisitoria, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono inammissibili. 2. Occorre preliminarmente osservare che la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che il Collegio condivide, ha chiaramente precisato che qualora un provvedimento giurisdizionale sia impugnato con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente stabilito, il giudice che riceve l’atto di gravame deve limitarsi, secondo quanto stabilito dall’art. 568 c.p.p., comma 5 alla verifica dell’oggettiva impugnabilità del provvedimento e dell’esistenza della volontà di impugnare, intesa come proposito di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale e, conseguentemente, trasmettere gli atti al giudice competente astenendosi dall’esame dei motivi al fine di verificare, in concreto, la possibilità della conversione Sez. 5, n. 313 del 20/11/2020 dep. 2021 , Bruccoleri, Rv. 280168 Sez. 3, n. 28842 del 8/9/2020, D. Sez. 3, n. 40381 del 17/5/2019, Dorati, Rv. 276934 Sez. 6, n. 38253 del 5/6/2018, Borile, Rv. 273738 ed altre prec. conf. . Si è peraltro affermato che l’istituto della conversione dell’impugnazione previsto dall’art. 568 c.p.p., comma 5, ispirato al principio di conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta Sez. 1, n. 2846 del 8/4/1999, Annibaldi R, Rv. 213835. V. anche ex pl. Sez. 3, n. 26905 del 22/04/2004, Pellegrino, Rv. 228729 Sez. 4, n. 5291 del 22/12/2003 dep. 2004 , Stanzani, Rv. 227092 . Nel caso di specie l’appello, convertito perché proposto avverso sentenza non appellabile, oltre a non presentare i requisiti del ricorso per cassazione, circostanza che lo rende, di per sé inammissibile, si basa anche su motivi manifestamente infondati. 3. Deve rilevarsi, quanto al primo motivo di impugnazione, che lo stesso, oltre ad essere articolato in fatto, con riferimenti alle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso del giudizio di merito e richiami alla documentazione allegata busta paga, contratto di lavoro e contratto collettivo nazionale , non valutabili in sede di legittimità, si basa sostanzialmente sul generico presupposto che l’addetta alle vendite, in quanto dipendente, sarebbe esonerata, proprio in ragione di tale sua posizione, da qualsiasi onere di controllo rispetto alla merce venuta. Tale assunto è destituito di fondamento. 4. Merita di essere ricordato come, con riferimento alle modalità di accertamento del reato in esame da parte del giudice del merito, questa Corte abbia già avuto modo di affermare che questi può apprezzare il cattivo stato di conservazione degli alimenti senza necessità di prelievo di campioni e di specifiche analisi di laboratorio, sulla base di dati obiettivi risultanti dalla documentazione relativa alla verifica e dalle dichiarazioni dei verbalizzanti, essendo lo stesso ravvisabile, in particolare, nel caso di evidente inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie ad assicurare che le sostanze si mantengano in condizioni adeguate per la successiva somministrazione Sez. 3, Sentenza n. 2690 del 06/12/2019 dep. 2020 , Barletta, Rv. 278248 . In quell’occasione si era anche ricordato che secondo le Sezioni Unite Sez. U, n. 443 del 19/12/2001 dep. 2002 , Butti e altro, Rv. 220717 si tratta, nel caso specifico, di un reato di danno, perché la disposizione è finalizzata non tanto a prevenire mutazioni che, nelle altre parti della L. n. 283 del 1962, art. 5, sono prese in considerazione come evento dannoso, quanto, piuttosto, a perseguire un autonomo fine di benessere, assicurando una protezione immediata all’interesse del consumatore affinché il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura. Conseguentemente, si è escluso che la contravvenzione si inserisca nella previsione di una progressione criminosa che contempla fatti gradualmente più gravi in relazione alle successive lettere indicate dall’art. 5, perché, rispetto ad essi, è figura autonoma di reato, cosicché, ove ne ricorrano le condizioni, può anche configurarsi il concorso in senso conforme, Sez. 3, n. 37858 del 4/4/2017, Martiniello, Rv. 271045 Sez. 3, n. 35234 del 28/6/2007, Lepori, Rv. 237518, difforme Sez. 3, n. 2649 del 16/12/2003 dep. 2004 , Gargelli, Rv. 226874 . Le Sezioni Unite, sempre nella medesima pronuncia, hanno anche precisato che, ai fini della configurabilità del reato, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrilioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza conf. Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012 dep. 2013 , Maretto, Rv. 257130 Sez. 3, n. 15094 del 11/3/2010, Greco, Rv. 246970 Sez. 3, n. 35234 del 28/6/2007, Lepori, Rv. 237518, cit. ed altre prec. conf. . Conformandosi al primo dei principi appena ricordati, altra pronuncia Sez. 3, n. 35828 del 7/7/2004, Cicolella, Rv. 229392 ha successivamente chiarito che la natura di reato di danno attribuita dalle Sezioni Unite alla contravvenzione in esame non richiede la produzione di un danno alla salute, poiché l’interesse protetto dalla norma è quello del rispetto del cd. ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura conf. Sez. 3, n. 40772 del 5/5/2015, Torcetta, Rv. 264990 . Si è inoltre affermato come sia comunque necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze Sez. 3, n. 439 del 4/11/2011 dep. 2012 , Duclos, Rv. 251630 Sez. 3, n. 15049 del 09/01/2007, Bertini, Rv. 236332 escludendo, tuttavia, la necessità di analisi di laboratorio o perizie, ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile da una semplice ispezione Sez. 3, n. 35234 del 28/6/2007, Lepori, Rv. 237518, cit. Conf. Sez. 3, n. 12346 del 4/3/2014, Chen, Rv. 258705 ed affermando che il cattivo stato di conservazione dell’alimento può assumere rilievo anche per il solo fatto dell’obiettivo insudiciamento della sola confezione, conseguente alla sua custodia in locali sporchi e, quindi, igienicamente inidonei alla conservazione Sez. 3, n. 9477 del 21/1/2005, Ciccariello, Rv. 230851 ed è configurabile anche nel caso di detenzione in condizioni igieniche precarie Sez. 3, n. 41074 del 7/7/2011, Nassar, Rv. 251298 . Tali principi sono stati successivamente ribaditi Sez. 3, n. 39037 del 10/5/2018, Malcaus, Rv. 273919 Sez. 3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861 . Con riferimento specifico alla tracciabilità, si è poi affermato che il reato è integrato in ipotesi di preparazione di alimenti in violazione delle disposizioni sulla tracciabilità della materia prima Sez. 3, n. 31035 del 9/6/2016, Greco Rv. 267378 . 5. Così chiarito l’ambito di applicazione della fattispecie astratta contemplata dalla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b , appare evidente come il soggetto responsabile possa essere individuato nel dipendente preposto alla vendita di prodotti alimentari, il quale, come è stato precisato in una risalente, ma condivisibile pronuncia, è tenuto, prima di porre in vendita il prodotto, a controllare la qualità dello stesso e, qualora metta in vendita una sostanza alimentare in evidente cattivo stato di conservazione, risponde della contravvenzione in esame, consistente nel negligente mancato controllo dei requisiti di commestibilità del prodotto Sez. 6, Sentenza n. 11174 del 11/10/1985, D’Antonio, Rv. 171189 . L’addetto alla vendita, dunque, nell’ambito delle sue attribuzioni deve ritenersi comunque gravato da un onere di verifica delle condizioni del prodotto che viene posto in vendita, pur dovendosi ovviamente ritenere tale onere limitato a quelle situazioni in cui il cattivo stato di conservazione sia di immediata percezione, come, ad esempio, in caso di evidente insudiciamento o detenzione in condizioni igieniche precarie, ovvero di inosservanza di comuni cautele, con esclusione, quindi, dei casi in cui le condizioni di conservazione non conformi a legge siano verificabili soltanto mediante specifici accertamenti o da parte di soggetti dotati di particolari competenze. 6. Nel caso in esame, come si evince dalla mera lettura del capo di imputazione, gli alimenti posti in vendita, che consistevano in prodotti già preparati, non solo non rispondevano ai requisiti di tracciabilità, ma erano privi di adeguato confezionamento, di numero di lotto, della data di produzione e scadenza e non erano stati sottoposti ad alcuna procedura di congelamento. Si tratta, dunque, di condizioni da chiunque immediatamente riscontrabili che, nel loro complesso, denotano modalità di conservazione del tutto anomale e che rendono di fatto impossibile ogni verifica sulla composizione del prodotto e sulle modalità di preparazione. Di tale evenienza ha dato atto, seppure in maniera sintetica, il giudice del merito, ritenendo la responsabilità di entrambi gli imputati, ancorché non distinguendo tra le singole posizioni e condotte poste in essere. A fronte di ciò, tuttavia, la difesa si è limitata a censure che, oltre a non poter avere ingresso in questa sede di legittimità per le ragioni già dette, si sostanziano nella negazione di qualsivoglia responsabilità dell’imputata M. solo perché dipendente dell’esercizio commerciale rispetto al quale viene però indicata, nel capo di imputazione, come preposta senza null’altro aggiungere. 7. Le considerazioni svolte in ordine alle caratteristiche della contravvenzione in esame rendono evidente la infondatezza del secondo motivo di impugnazione, poiché analoghi obblighi di adeguata conservazione dei prodotti venduti gravano ovviamente anche sul soggetto titolare dell’esercizio commerciale. In ogni caso, il motivo risulta comunque inammissibile perché articolato interamente con richiami agli esiti dell’istruzione dibattimentale, sostanzialmente sollecitando una diversa valutazione del merito della vicenda che solo l’atto di impugnazione erroneamente proposto avrebbe reso possibile e che non è consentita al giudice di legittimità. 8. Quanto al terzo motivo di ricorso, osserva il Collegio che, per quanto è dato rilevare dalla sentenza impugnata e dall’atto di impugnazione, gli imputati ed il loro difensore non risultano aver prospettato al giudice del merito la questione della particolare tenuità del fatto nulla si dice infatti in tal senso nel motivo di gravame e tale richiesta non è indicata neppure nelle conclusioni verbalizzate in udienza e, secondo quanto già affermato da questa Corte, quando la sentenza di merito è successiva alla vigenza della nuova causa di non punibilità, la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. non può essere posta per la prima volta nel giudizio di legittimità come motivo di violazione di legge cfr. Sez. 2, n. 21465 del 20/3/2019, Semmah, Rv. 275782 Sez. 3, n. 23174 del 21/3/2018, Sarr, Rv. 272789 Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877 Sez. 3, n. 19207 del 16/3/2017, Celentano, Rv. 269913 ed altre prec. conf. , nè può affermarsi, in assenza di specifica richiesta, che nella fattispecie il giudice avesse l’obbligo di pronunciarsi comunque. 9. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 tremila in favore della Cassa delle ammende.