Frasi provocatorie verso lo straniero e poi l’aggressione violenta: è tentato omicidio aggravato dall’odio razziale

Confermata la condanna per un uomo, reo di avere prima offeso e poi aggredito un cittadino bengalese. I dettagli dell’episodio rendono evidente il dolo omicidiario. E le frasi pronunciate prima e durante la violenza certificano l’odio razziale che ha dato il ‘la’ alla brutale condotta.

Prima la provocazione, con frasi offensive connesse al colore della pelle e alle origini straniere, e poi l’aggressione, culminata in un calcio sferrato alla vittima, di origini bengalesi, ormai inerme, stesa a terra. Evidenti il dolo omicidiario e l’aggravante razziale Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 18413/21, depositata il 12 maggio . Ricostruito il drammatico episodio, l’uomo – Paolo, nome di fantasia – che ha aggredito un cittadino bengalese viene ritenuto colpevole di tentato omicidio , aggravato dall’ odio razziale . In primo grado la pena viene fissata in otto anni di reclusione. In secondo grado, invece, viene ridotta a sette anni e quattro mesi. Per i giudici di merito, però, non vi sono dubbi sulla brutalità di Paolo. In piena notte, nell’ottobre del 2017, egli dapprima inveì, unitamente ai suoi amici, contro due cittadini stranieri – che in quel momento stavano camminando, dopo aver terminato di lavorare presso un ristorante –, pronunciando frasi ingiuriose del tipo negri di m a emigrati del c o ebrei” e poi aggredì uno di quei due uomini, colpendolo ripetutamente con calci e pugni al capo e al corpo . Infine, mentre i suoi amici si allontanavano, Paolo ritornò indietro e sferrò un violento calcio al volto del cittadino bengalese, che era riverso a terra gravemente ferito . Inequivocabile l’esito della consulenza medico-legale l’aggressione fu di per sé idonea a determinare lesioni ad esito mortale . E ciò significa, secondo i giudici di merito, che l’azione posta in essere da Paolo fu rivolta a cagionare la morte dello straniero, morte non verificatasi solo grazie all’intervento di alcuni passanti che si avvicinarono a Paolo e gli intimarono di fermare la violenza . Nessun dubbio, quindi, sul dolo, poiché Paolo cercò con un comportamento provocatorio e offensivo un pretesto per aggredire i cittadini stranieri , e poi le parti – sedi di organi vitali – del corpo che furono raggiunte dai colpi e la reiterazione dei colpi stessi, sferrati con estrema violenza testimoniano, secondo i giudici, il chiaro obiettivo dell’azione. Infine, essendo accertato che i due stranieri nemmeno reagirono agli insulti e alle provocazioni , il solo movente della condotta tenuta da Paolo è individuabile nell’ odio razziale verso i cittadini stranieri . A dare ancora più forza alle valutazioni compiute dai giudici di merito provvede ora la Cassazione, confermando in via definitiva la condanna di Paolo. Inutili le obiezioni difensive, mirate a fornire una lettura diversa della vicenda. Innanzitutto, i magistrati ritengono doveroso evidenziare che Paolo, dopo aver aggredito la vittima e dopo che questa era rovinata a terra, tornò sui suoi passi e le sferrò un violento calcio al volto. Questa condotta è espressiva dell’animus necandi, come si desume dalla considerazione della parte – certamente vitale – del corpo raggiunta dai colpi, della violenza dei colpi inferti, della reiterazione degli stessi colpi, poiché il calcio al volto fu l’ultimo della serie di quelli sferrati nel corso dell’aggressione . Per quanto concerne l’aggravante dell’odio razziale , non si può ignorare, osservano i Giudici, che l’aggressione fu l’occasione per esternare odio razziale, come si desume agevolmente dalle frasi offensive pronunciate anche nel corso degli atti di violenza .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 30 marzo – 12 maggio 2021, n. 18413 Presidente Di Tomassi – Relatore Santalucia Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, all’esito del giudizio abbreviato, ha affermato la responsabilità di M.A. per il delitto di tentato omicidio aggravato dall’odio razziale ai danni del cittadino bengalese C.K. , commesso in omissis , ha diminuito la pena, prima di anni otto di reclusione, nella misura di anni sette e mesi quattro di reclusione. 2. Come si trae dalle dichiarazioni della persona offesa, contenute nell’atto di denuncia-querela, dalle dichiarazioni delle persone presenti alla commissione del fatto oltre che dalle sostanziali ammissioni dell’imputato e dalla documentazione medica e dalla relazione di consulenza medico-legale, l’imputato, alle ore 2.25 del 29 ottobre 2017, dapprima invei, unitamente ai suoi amici, contro C.K. e M.M. , due cittadini stranieri che in quel momento stavano percorrendo via dei omissis dopo aver terminato di lavorare presso il ristorante di piazza omissis , pronunciando frasi ingiuriose del tipo negri di merda emigrati del cazzo ebrei poi, mentre M. riusciva a divincolarsi, aggredì con violenza C. , colpendolo ripetutamente con calci e pugni al capo e al corpo. Quindi, mentre i suoi amici si allontanavano, ritornò indietro e sferrò un violento calcio al volto di C. , che era riverso a terra gravemente ferito, come in particolare riferito da M. e da un testimone, P.A. . 2.1. C. fu trasportato in ospedale, ove fu riservata la prognosi e fu formulata la diagnosi di frattura pluriframmentaria di entrambi i seni mascellari con interessamento dell’etmoide, frattura delle pareti laterale di entrambe le cavità orbitarie, frattura delle ossa nasali. Fu poi sottoposto ad intervento chirurgico per la riduzione delle fratture e la ricostruzione del pavimento orbitario destre. 2.2. Come acclarato dalla consulenza medico-legale, l’aggressione fu di per sé idonea a determinare lesioni ad esito mortale da qui la conclusione che l’azione posta in essere dall’imputato fu, in una valutazione ex ante, idonea e rivolta a cagionare l’evento in concreto non verificatosi per circostanze indipendenti dalla sua volontà, riconducibili all’interno di terzi presenti al momento del fatto, come riferito da C.S. , che ha raccontato di essersi avvicinato con un suo amico all’aggressore intimandogli di fermare la violenza. 3. L’imputato agì quanto meno con dolo alternativo, come si desume dal fatto che cercò, con il comportamento provocatorio e offensivo, un pretesto per aggredire i cittadini stranieri, e dalle parti del corpo che furono raggiunte dai colpi, sedi di organi vitali, dalla reiterazione dei colpi, sferrati con estrema violenza, l’ultimo dei quali fu dato mentre la vittima era riversa a terra senza più alcuna difesa o protezione. È stato accertato che C. e la persona con cui si accompagnava nemmeno reagirono agli insulti e alle provocazioni, sicché il solo movente della condotta aggressiva è individuabile nell’avversione e odio razziale verso i cittadini stranieri, esternato con le offensive espressioni utilizzate. 4. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore di M.A. , che ha articolato più motivi. 4.1. Con il primo motivo ha dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. Il fatto non integra il reato di tentato omicidio bensì quello di lesioni personali, perché non vi sono elementi da cui desumere la volontà omicida. La Corte di appello non ha preso in esame la vicenda alla luce dei plurimi indici che, per giurisprudenza costante, servono a desumere la volontà omicida e si è limitata a riassumere apoditticamente il fatto come ricostruito dalla sentenza di primo grado. Anche il particolare dell’ultimo colpo al volto della vittima, come da narrazione del teste P. , non giova a dare corpo all’ipotesi della volontà omicida. Nulla il testimone ha riferito sul tipo di colpo asseritamente inferto e sull’intensità della violenza con cui sarebbe stato sferrato è allora conseguente ritenere che, ove M.A. avesse voluto uccidere, le conseguenze del colpo finale sarebbero state nefaste, anche in considerazione della ben maggiore stazza fisica rispetto a quella della persona offesa. 4.2. Con il secondo motivo ha dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. Il mero richiamo fatto in sentenza al dolo alternativo non è sufficiente a ritenere l’elemento psicologico del tentato omicidio. La Corte di appello non si è curata di individuare come tale tipologia di dolo si sia estrinsecata nel caso di specie, se, premessa l’alternativa previsione di eventi tra loro incompatibili, sia trattato di dolo intenzionale, diretto o eventuale. Il dolo diretto non è assolutamente rinvenibile nel fatto contestato, neppure secondo la ricostruzione accolta in sentenza. 4.3. Con il terzo motivo ha dedotto difetto di motivazione in riferimento alla ricostruzione del fatto storico. La Corte di appello non ha dato motivazione in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni del teste P. , contestata con l’atto di appello, che invece sarebbe stata necessaria dato che queste dichiarazioni non hanno trovato riscontro nelle narrazioni degli altri testimoni. È del tutto illogico ritenere che le dichiarazioni confessorie dell’imputato, che ha riferito di essere tornato indietro solo per sincerarsi delle condizioni della persona offesa, perché preoccupato da quanto prima accaduto, possano riscontrare il racconto del testimone circa un ultimo colpo sferrato dall’imputato dopo essere tornato indietro. 4.4. Con il quarto motivo ha dedotto vizio di violazione di legge per la mancata rinnovazione istruttoria e difetto di motivazione. La rinnovazione istruttoria non è impedita dal fatto che il giudizio di primo grado si sia svolto nelle forme del rito abbreviato non condizionato. La decisività della rinnovazione istruttoria per l’escussione del teste P. è resa evidente dalla dedotta inattendibilità del suo narrato, che non ha trovato conferma nelle deposizioni degli altri testimoni, e dall’avere il giudice ancorato la prova della volontà omicida proprio ed esclusivamente a quanto riferito dal P. . 4.5. Con il quinto motivo ha dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione circa la ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’odio razziale, che non può essere tratta, come invece ha fatto la sentenza impugnata, dal mancato rinvenimento di un movente diverso. La Corte di appello sul punto ha riassunto in poche righe quanto già affermato dal giudice di primo grado, senza avvedersi che, secondo la previsione di legge come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, la condotta deve essere finalisticamente orientata ad escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalità o religione. Ancora, le frasi udite dai testimoni e riportate in sentenza non sono idonee a dimostrare che la lite insorse con l’unica finalità di discriminazione e di odio etnico ne è dimostrazione l’assenza di connessione logica tra gli epiteti utilizzati. Non vi è poi alcun dato di prova che attesti che le frasi furono pronunciate proprio da M.A. . 5. Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, conv. con modif., con la L. n. 176 del 2020, ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte. 2. Preliminarmente si rileva che il difensore ha fatto pervenire, per l’odierna udienza, richiesta di rinvio in ragione dell’adesione all’astensione collettiva proclamata dall’Unione delle Camere penali per i giorni dal 29 al 31 marzo, e ciò benché il suo assistito sia in restrizione cautelare. Il presidente della Sezione ha rimesso la decisione al Collegio e il difensore ha inviato, a mezzo posta elettronica, una nota con cui ha argomentato a sostegno della tesi che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 180 del 2018, avrebbe sancito non già l’illegittimità dell’astensione degli avvocati nei processi con imputati detenuti ma soltanto l’incostituzionalità del diritto degli imputati di manifestare il proprio dissenso rispetto alla scelta dei difensori di astensione dalle udienze. 2.1. Acquisito il parere contrario del Procuratore generale, il Collegio ha respinto, in conformità a detto parere, la richiesta, rilevando che è inequivoco l’assunto della menzionata sentenza nell’affermazione della illegittimità della L. n. 146 del 1990, art. 2-bis, nella parte in cui consentiva, o meglio non precludeva, al codice di autoregolamentazione di incidere sulla disciplina legale dei limiti temporali di restrizione cautelare, attribuendo all’imputato la facoltà di richiedere, o no, che si procedesse malgrado l’astensione del difensore, con diretta ricaduta sui termini di durata della custodia cautelare. Se la dichiarazione di incostituzionalità segue all’impossibilità di far dipendere l’ampliamento dei termini di durata della custodia cautelare da manifestazioni di volontà dello stesso imputato, non può dubitarsi che, al contempo e ancor più, precluda una tale incidenza sulla durata dei termini di custodia alla volontà del difensore, manifestata con l’adesione all’astensione collettiva. L’unica modalità di attuazione della pronuncia di incostituzionalità è, pertanto, di ritenere che nei procedimenti con imputati detenuti i difensori non possano esercitare il diritto all’astensione collettiva dalle udienze. 3. In ordine alle deduzioni di ricorso se ne rileva la manifesta infondatezza. 4. Circa il primo, il terzo e il quarto motivo si osserva che la Corte di appello ha preso in esame le risultanze istruttorie e, con motivazione logica e coerente, ha evidenziato che l’imputato, dopo aver aggredito la vittima e dopo che questa era rovinata a terra, tornò sui suoi passi e le sferrò un violento calcio al volto. Questa condotta - ha plausibilmente osservato la Corte territoriale - è ragionevolmente espressiva dell’animus necandi, come si desume dalla considerazione della parte del corpo raggiunta dai colpi, certamente vitale, della violenza dei colpi inferti, della reiterazione degli stessi, perché il calcio al volto fu l’ultimo della serie di quelli sferrati nel corso dell’aggressione. Sulla base della ricostruzione avvalorata da plurimi elementi di prova - le dichiarazioni convergenti di M. e del testimone P.A. - la Corte di appello ha dato conto dell’assenza di elementi da cui inferire l’inattendibilità del testimone P. , che fu presente al fatto e che quindi ha riferito di quel che apprese direttamente, per sua esperienza diretta. Ha in tal senso aggiunto, con notazione logica e non censurabile in questa sede, che un elemento di riscontro sia pure indiretto alle dichiarazioni testimoniali è stato offerto dallo stesso imputato, avendo questi ammesso di esser tornato sui suoi passi per avvicinarsi all’aggredito che si trovava disteso a terra, seppure abbia negato di aver sferrato un altro calcio al volto e abbia giustificato il suo comportamento con l’intento di voler constatare le condizioni in cui versava la vittima. allora compiutamente e adeguatamente motivata, per quanto sin qui richiamato, la decisione di diniego della rinnovazione istruttoria per l’assunzione delle dichiarazioni testimoniali di P.A. . 5. Quanto al secondo motivo, si rileva che l’alternatività del dolo, evocata dal giudice del merito, non può che apprezzarsi, proprio alla luce del comportamento tenuto dall’imputato, entro la cornice del dolo diretto, in sicura compatibilità con il contestato tentativo. È appena il caso di ricordare il principio di diritto tempo addietro formulato da Sez. U, n. 3428 del 06/12/1991, dep. 1992, Rv. 189405, secondo cui il dolo eventuale e il dolo alternativo sono due distinte forme di dolo Il primo è caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, od anche la semplice possibilità, che esso si verifichi e ne accetta il rischio. Il secondo è contraddistinto dal fatto che il soggetto attivo prevede e vuole alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro evento e risponde per quello effettivamente realizzato . Come già evidenziato, l’aggressione completata da un violento calcio al volto della vittima quando questa giaceva a terra per effetto della precedente aggressione è segno inequivoco del dolo nella forma diretta. 6. Relativamente al quinto motivo, e quindi alla ritenuta aggravante dell’odio razziale, la sentenza impugnata ha messo in evidenza l’assenza di elementi per dare corpo ad un movente e ha, con adeguatezza di argomenti, affermato che l’aggressione fu occasione per esternare odio razziale, come si desume agevolmente dalle frasi offensive pronunciate nel corso degli atti di violenza. Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso D.L. n. 122 del 1993, art. 3 conv. in L. n. 205 del 1993 è configurabile nel caso di ricorso ad espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa. Fattispecie di minaccia, ingiuria e percosse in cui l’utilizzo di espressioni come marocchino di merda o immigrati di merda , al di là del loro intrinseco carattere ingiurioso, è stato ritenuto sintomatico dell’orientamento discriminatorio della condotta - Sez. 5, n. 43488 del 13/07/2015, Maccioni e altri, Rv. 264825 v., anche, Sez. 5, n. 7859 del 02/11/2017, dep. 2018, Serafini, Rv. 272278, per la quale la circostanza aggravante è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza . Anche sul punto, pertanto, i rilievi di ricorso si palesano manifestamente infondati. 7. Il ricorso va, per quanto esposto, dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.