Condanna per maltrattamenti in famiglia per le vessazioni inflitte all'ex moglie

Acclarata la responsabilità dell’uomo, sanzionato con un anno e dieci mesi di reclusione. Evidente la gravità dei comportamenti da lui tenuti durante la convivenza obbligata con l’ex moglie che non era ancora riuscita a trovare una sistemazione.

Ex marito violento e, soprattutto, costante nel mettere in atto comportamenti inutilmente vessatori e mortificanti nei confronti della ex moglie. Legittima la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 14582/21, depositata il 19 aprile . Ricostruita la delicata vicenda, riguardante una coppia ormai divorziata ma obbligata a convivere sotto lo stesso tempo per la difficoltà della donna a trovare una sistemazione, i Giudici escludono la condanna dell’uomo per l’accusa di violenze sessuali ai danni dell’ex moglie ma ritengono invece legittima la sanzione penale per i comportamenti violenti , vessatori e mortificanti da lui tenuti verso la donna per un lungo periodo di convivenza. A rendere più grave la posizione dell’uomo, poi, anche il riconoscimento del reato di lesioni compiuto in due occasioni ai danni dell’ ex moglie . In Appello è stato ritenuto evidente il sistema di vessazioni cui la donna era stata sottoposta attraverso ingiurie , minacce e condotte intrusive nella sua vita privata . Questa valutazione è condivisa e confermata dalla Cassazione. Fondamentale il riferimento alla attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte lesa, sposata con l’uomo ma da questi divorziata in seguito alla corrispondente pronuncia del giudice, pronuncia alla quale, però, non era stata data esecuzione, essendo proseguita la convivenza familiare assieme al figlio minore della coppia . A dare solidità a quelle dichiarazioni, poi, referti medici e dichiarazioni rese dall’assistente sociale che ha seguito il percorso di allontanamento della donna dalla casa coniugale . In sostanza, ci si trova di fronte a una piattaforma probatoria significativa e concludente sul sistema di convivenza familiare che la donna ha subito fino alla determinazione di lasciare la casa comune e cercare riparo in un centro di assistenza per donne vittime di violenza . Ciò che è emerso è il carattere violento dell’uomo e la situazione di paura in cui la persona offesa ha vissuto , frutto anche delle minacce di morte e di portarle via il figlio minore fattele dall’ ex marito . Sacrosanta, quindi, la condanna – a un anno e dieci mesi di reclusione – dell’uomo, che con reiterati comportamenti violenti, inutilmente vessatori e mortificanti protrattisi nel lungo periodo della convivenza ha ingenerato nell’ex moglie un continuo stato di timore per la propria incolumità . Elementi, questi, sufficienti per ritenere acclarato il reato di maltrattamenti in famiglia .

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 19 gennaio – 19 aprile 2021, n. 14582 Presidente Fidelbo – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha assolto N.F. dal reato di cui all’art. 609-bis c.p., e ne ha confermato la condanna per i reati di maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p. e lesioni artt. 582 e 585 c.p. e art. 576 c.p., n. 5 . Ha ritenuto attendibili e riscontrate le dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, ex moglie dell’imputato, sul sistema di vessazioni al quale la donna era stata sottoposta attraverso ingiurie, minacce e condotte intrusive nella sua vita privata cagionandole, in occasione degli episodi del 21 febbraio e 17 marzo 2014 lesioni personali. 2. Con ricorso affidato al difensore di fiducia e di seguito sintetizzato, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia 2.1.violazione di legge, in relazione all’art. 597 c.p.p., comma 3, perché il giudice di appello, avendo assolto l’imputato da uno dei reati ascrittigli, ha rideterminato la pena in chiave deteriore rispetto a quella inflittagli in primo grado 2.2.erronea applicazione della legge penale in merito alla ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti. Il giudice non ha sottoposto a rigorosa analisi critica le dichiarazioni della persona offesa eludendo così l’obbligo di motivazione e di valutazione dei motivi di impugnazione proposti con l’appello. 3. Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, convertito dalla L. n. del 176 del 2020. Considerato in diritto 1. Il ricorso, con le precisazioni di seguito, è fondato. 2. È generico, per aspecificità, il motivo di ricorso in punto di conferma della responsabilità, con riferimento alla valutazione ed al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, sposata con l’imputato ma da questi divorziata in seguito alla corrispondente pronuncia del giudice romeno alla quale, però, non era stata data esecuzione essendo proseguita la convivenza familiare con l’imputato ed il figlio minore della coppia. Diversamente che per il reato di violenza sessuale in relazione ad approcci sessuali imposti dall’imputato contro la sua volontà , per il reato di maltrattamenti in famiglia le lesioni subite dalla persona offesa, riscontrate dai referti medici, e le dichiarazioni rese dall’assistente sociale che ne aveva seguito il percorso di allontanamento dalla casa coniugale, hanno costituito una piattaforma probatoria significativa e concludente sul sistema di convivenza familiare che la donna aveva subito fino alla determinazione di lasciare, nel mese di aprile del 2014, la casa comune e a cercare riparo in un centro di assistenza per donne vittime di violenza, a seguito dell’ingravescenza delle condotte violente che ne avevano determinato il ricorso a cure mediche in occasione delle aggressioni dei precedenti febbraio e marzo 2014. Gli elementi acquisiti, tutti convergenti nella descrizione del carattere violento dell’imputato e della situazione di paura nella quale la persona offesa aveva vissuto - caratterizzata dal ricorso a minacce di morte ed a quella di portarle via il figlio minore - sono stati logicamente valutati dalla Corte come concludenti ai fini di supportare il giudizio di colpevolezza poiché, come noto, le dichiarazioni della persona offesa, ove sottoposte a rigoroso vaglio critico, possono, anche da sole, fondare il giudizio di responsabilità. La condotta dell’imputato è perfettamente sovrapponibile, a stregua dei contenuti dichiarativi acquisiti, a quella oggetto del reato di cui all’art. 572 c.p. essendosi risolta in reiterati comportamenti violenti, inutilmente vessatori e mortificanti protrattisi nel lungo periodo della convivenza ingenerando nella persona offesa un continuo stato di timore, per la propria incolumità e sono sufficienti ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti, anche a prescindere dalla sussistenza degli episodi di aggressione sessuale. 3.È fondato il primo motivo di ricorso per la erroneità nella determinazione della pena, errore al quale può porre rimedio direttamente il Collegio, in applicazione di univoche regole di giudizio e non venendo in rilievo valutazioni di carattere discrezionale sulle caratteristiche oggettive e soggettive del trattamento punitivo. La Corte di appello ha rideterminato la pena partendo da quella base del reato di maltrattamenti in anni due di reclusione ed aumentandola di complessivi mesi due di reclusione uno per ciascuno dei due episodi lesivi. In primo grado, determinata la pena base in quella di anni cinque di reclusione per il reato di cui all’art. 609-bis c.p., applicata la diminuente di cui all’art. 609-bis c.p., u.c., il Tribunale aveva individuato il trattamento sanzionatorio base in anni uno e mesi otto di reclusione, pena sulla quale aveva praticato l’aumento di mesi tre di reclusione per il reato di maltrattamenti e quello di mesi uno ciascuno per i reati di lesione, pervenendo così alla pena finale di anni due e mesi uno di reclusione. L’errore della Corte di appello non è tanto individuabile in quello dell’aumento per la continuazione fra reati in particolare i due episodi di lesione, come confusamente suggerisce il ricorso ma concerne proprio la determinazione della pena base per il reato di maltrattamenti perché individuato in misura superiore a quella del reato dal quale l’imputato è stato assolto, cioè il reato di cui all’art. 609-bis c.p Ed invero, nel giudizio di appello instaurato a seguito di impugnazione del solo imputato, viola il divieto della reformatio in peius, il giudice che, in ipotesi di reato continuato, assolva l’imputato dalla violazione ritenuta più grave in primo grado e ridetermini la nuova pena base in relazione ad altro reato, in maniera superiore a quella in precedenza stabilita Sez. 5, Sentenza n. 39837 del 02/07/2013, Cavaliere, Rv. 257365 Sez. 1, Sentenza n. 41310 del 07/10/2009, Huang, Rv. 245042 . Ciò in applicazione della condivisibile regola di giudizio secondo la quale la rideterminazione della pena per il reato meno grave sopravvissuto nel giudizio di appello, deve sempre avvenire nel rispetto del divieto di reformatio in peius, principio questo riguardante ogni componente che concorre alla determinazione della pena complessiva di talché il giudice di appello non può quantificare la pena per il reato ritenuto meno grave assumendo come pena base una pena superiore a quella a tal fine individuata dal primo giudice, ancorché la pena complessiva poi irrogata risulti essere comunque inferiore a quella applicata nel precedente grado di giudizio Sez. U, Sentenza n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066 . Dall’applicazione di tale regula iuris discende che, nel caso in esame, la pena da infliggere all’imputato va individuata in quella di anni uno e mesi otto di reclusione, pena sulla quale praticare, poi, l’aumento di mesi uno di reclusione per ciascuno degli episodi lesivi, così pervenendo alla pena finale di anni uno e mesi dieci di reclusione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio rideterminando la pena in un anno e dieci mesi di reclusione.