Sui social accusa il collega di “manipolazioni psicologiche” sugli studenti: professoressa condannata

Per i Giudici le frasi incriminate, condivise su Facebook dalla donna, sono evidentemente diffamatorie nei confronti del professore presentato come spregevole” e autore di manipolazioni psicologiche” sui giovani allievi. Inutili le scuse della donna e l’oscuramento della pagina sul social network ella dovrà anche risarcire il collega.

Condanna inevitabile per la docente che su Facebook apostrofa come spregevole” un collega d’istituto e lo accusa di manipolazioni psicologiche” sugli studenti. Evidente, secondo i giudici, il carattere diffamatorio dello scritto pubblicato on line. Impossibile catalogare il post sul social come mera critica Cassazione, sentenza n. 13979/21 sez. V Penale, depositata il 14 aprile . All’origine del caso giudiziario c’è l’acceso litigio tra due docenti all’interno di un Liceo, litigio originato anche dalla manifestazione degli studenti contro la riforma della scuola messa ‘nero su bianco’ dal governo Monti. Il casus belli è rappresentato però dal post condiviso su Facebook da uno dei due litiganti, una professoressa, che addita il collega come spregevole” e lo accusa di manipolazioni psicologiche” sui giovani allievi. Quello scritto risulta indigesto, ovviamente, al professore presentato in maniera così negativa. E ciò porta a un inevitabile strascico giudiziario, con la docente accusata di diffamazione ai danni del collega. A sorpresa, però, in Tribunale la professoressa viene assolta. I Giudici premettono che la frase pubblicata dalla donna sulla sua pagina Facebook va inserita nella cornice fattuale e osservano che le espressioni presenti nel testo, pur avendo nella comune accezione linguistica una vis dispregiativa nei confronti del destinatario, non si risolvono stricto sensu in un attacco personale sul piano individuale, bensì in guisa di una manifestazione di una posizione di pensiero dissenziente dalle metodologie didattiche del professore, in un quadro generale di disistima del collega, ai limiti di una ammissibile facoltà di critica, non essendo censurata la persona in sé e per sé . In sostanza, secondo i Giudici del Tribunale, la docente ha solo espresso un giudizio sul collega, un giudizio che per quanto violento, o aspro, rientra nel perimetro della critica . Di parere opposto, invece, i giudici della Corte d’appello, i quali condannano la donna, ritenendola colpevole del reato di diffamazione , escludendo l’ipotesi dell’ esercizio del diritto di critica e obbligandola al risarcimento del danno morale, liquidato equitativamente in euro 800 in favore del collega. A fare chiarezza provvede ora la Cassazione, mostrando di condividere il ragionamento dei Giudici di secondo grado e confermando la condanna della professoressa. Per i magistrati di terzo grado la definizione del professore come spregevole” è univocamente ed esclusivamente interpretabile come offesa personale diretta a screditarne non l’operato professionale, ma, all’evidenza, la persona in sé e per sé . Centrale, però, è soprattutto il riferimento all’ accusa di effettuare manipolazioni psicologiche nei confronti degli studenti . Su questo punto i Giudici sono tranchant le parole usate dalla professoressa risultano del tutto esorbitanti rispetto alla ritenuta finalità di disapprovazione dei metodi di insegnamento adottati dal collega . Logico, quindi, valutare come diffamatorie le espressioni utilizzate dalla donna su Facebook, poiché idonee a ledere la dignità professionale del docente . Ciò anche tenendo presente, osservano i giudici, che la parola ‘manipolazione’ è definita nel dizionario della lingua italiana ‘Zanichelli’ in senso figurato come manovra per raggirare, imbrogliare e simili ed ancora come controllo o condizionamento anche in riferimento alle coscienze. Tenendo conto di tale significato, che di certo non può essere sfuggito alla donna nella sua qualità di professoressa di Liceo, e dell’assoluta mancanza di giustificazioni al suo immotivato uso sul social network – strumento di comunicazione pubblico –, espressione probabilmente adoperata per definire le prassi di insegnamento del collega, non può che rinsaldarsi la valutazione di offensività delle espressioni incriminate. Il senso della parola in sé, e nel contesto fattuale di riferimento, non può che essere quello di attribuire all’insegnante una volontà di condizionamento e controllo delle coscienze dei suoi studenti, volontà che appare, all’evidenza, contraria agli scopi formativi ed educativi che l’ordinamento attribuisce all’insegnamento . Definitiva, quindi, la condanna della professoressa, anche obbligata, come detto, a risarcire il collega, nonostante ella gli abbia chiesto prontamente scusa e abbia anche ‘oscurato’ la propria pagina Facebook.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 25 gennaio – 14 aprile 2021, n. 13979 Presidente Sabeone – Relatore De Gregorio Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza ora in esame la Corte d’Appello di Potenza, su impugnazione della parte civile, ha riformato la pronunzia in primo grado nei confronti dell’imputata di assoluzione dal delitto di diffamazione a mezzo facebook ai danni di un collega professore, per esercizio del diritto di critica, condannandola al risarcimento del danno morale, liquidato equitativamente in Euro 800 oltre che alla rifusione delle spese sostenute nei due gradi di giudizio. 2. Ha presentato ricorso tramite difensore di fiducia l’imputata, che con due motivi, argomentati unitariamente, ha dedotto la violazione dell’art. 51 c.p. e la mancanza di motivazione in relazione alla riforma della pronunzia di condanna. Dopo aver ripercorso le articolate proposizioni in fatto e diritto con le quali il Tribunale era giunto all’esito liberatorio per la giudicabile, la difesa ha lamentato che la sentenza di secondo grado non aveva in alcun modo esposto le ragioni ritenute adeguate a disarticolare la decisione del Tribunale, essendosi limitata ad affermare che la qualificazione della persona offesa come essere spregevole, associata all’accusa di essere autore di manipolazioni psicologiche non era proporzionata e pertinente al tema della critica ai metodi di insegnamento di un collega. La motivazione, quindi, eluderebbe i principi elaborati da questa Corte - brevemente richiamati -in caso di pronunzia di secondo grado che sovverta l’esito assolutorio raggiunto nel primo giudizio. 2.1 La Corte lucana non avrebbe preso in considerazione, come avrebbe dovuto, le richieste subordinate fatte dalla difesa in primo grado, ovviamente non riproposte in appello per l’accoglimento della domanda principale, con riferimento alla circostanza aggravante di cui all’art. 595 c.p., comma 3, in relazione al social facebook,all’operatività della causa di giustificazione ex art. 51 c.p., in tema di conflitti personali dettati da contrapposizioni ideologiche, ai criteri di determinazione del danno. Per altro verso è stato posto in luce che le censure presentate nei motivi di appello dalla parte civile sarebbero aspecifiche, al punto di meritare una sanzione di inammissibilità ex art. 581 c.p.p., secondo il testo introdotto con L. n. 103 del 2017. 3. Quanto al riconoscimento ed alla liquidazione del danno morale in favore della parte civile, non si era considerato che l’imputata, avuta notizia della reazione del collega, aveva immediatamente oscurato la propria pagina facebook ed aveva porto le sue scuse. Sul punto l’appellante non avrebbe assolto agli oneri deduttivi e probatori impostigli ex art. 2627 c.c., anche in riferimento al danno morale mentre la quantificazione del danno sarebbe completamente disancorata da ogni elemento di giustificazione sul piano assertivo - probatorio. Con requisitoria scritta a norma del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 12-ter, convertito, con modificazioni, con la L. 24 aprile 2020, n. 27, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione, ha concluso per l’annullamento della sentenza. La difesa di parte civile ha depositato memoria scritta con la quale ha esplicitato le ragioni per il rigetto del ricorso ed ha replicato alle conclusioni del PG presso questa Corte, depositando nota spese. Considerato in diritto Il ricorso è infondato. 1. Le doglianze racchiuse nell’unico articolato motivo di ricorso pongono, in primis, una questione di metodo, sostenendo che il Giudice di appello, nel riformare la sentenza in senso sfavorevole all’imputata, avrebbe dovuto fornire una motivazione definita rafforzata o comunque un complesso argomentativo dotato di maggior forza persuasiva rispetto alle giustificazioni adoperate dal primo Giudice, citando in proposito nota giurisprudenza di questa Corte. Il principio - ovviamente in sé corretto - non si attaglia alla fattispecie in esame, nella quale si discute del delitto di diffamazione tramite mezzo di pubblicità, questione che la Corte d’Appello ha risolto in senso opposto a quanto deciso dal Tribunale, esclusivamente attraverso una differente valutazione giuridica delle frasi in primo grado giudicate espressione del diritto di critica e, quindi, scriminate ex art. 51 c.p 1.1 In tali ipotesi, secondo recenti pronunzie emesse da questa Corte - alle quali il Collegio intende dare seguito - il Giudice di appello non ha la necessità di offrire una motivazione dotata di una maggiore forza persuasiva, in quanto oggetto del giudizio è una questione squisitamente ed esclusivamente giuridica, non essendovi alcuna diversa valutazione del materiale probatorio riguardo alla quale il Giudice di secondo grado debba spiegare le ragioni del diverso apprezzamento, confrontandosi anche con i motivi posti dal primo Giudice a sostegno dell’opposta decisione, per la semplice ma dirimente ragione che il Giudice di appello ritiene errata la soluzione in diritto adottata in primo grado. In tal senso si è espressa Sez. 2, Sentenza n. 38277 del 07/06/2019 Ud. dep. 17/09/2019 Rv. 276954 secondo la quale la necessità, per il giudice di appello, di redigere una motivazione rafforzata sussiste soltanto nel caso in cui la riforma della decisione di primo grado si fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite e non anche quando essa sia legittimata da una diversa valutazione in diritto, operata sul presupposto dell’erroneità di quella formulata del primo giudice. In tale ipotesi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall’uno o dall’altro, ed il vizio a tal fine denunciabile è solo quello di violazione di legge, penale o processuale. In senso conforme Sez. 6, Sentenza n. 10584 del 30/01/2018 Ud. dep. 08/03/2018 Rv. 273742 ha escluso in caso di riforma in peius della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa qualificazione giuridica del fatto, fondata sulla identica valutazione delle risultanze probatorie anche dichiarative,la necessità di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e di redigere una motivazione rafforzata. Conformi N. 19036 del 2017 Rv. 269610, N. 6514 del 2018 Rv. 272224. 2. In questo senso si dà esito alla doglianza mossa dal ricorrente ma per completare il discorso deve darsi conto del più che solido orientamento giurisprudenziale - che anche in questo caso il Collegio intende seguire - secondo il quale nella specifica materia della diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. Così Sez. 5, Sentenza n. 48698 del 19/09/2014 Ud. dep. 24/11/2014 Rv. 261284, conforme Sez. 5, Sentenza n. 41869 del 14/02/2013 Ud. dep. 10/10/2013 Rv. 256706. Sez. V, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv 233749 Sez. 5, Sentenza n. 2473 del 10/10/2019 Ud. dep. 22/01/2020 Rv. 278145. Spetta, dunque, al Collegio verificare l’esattezza dell’una o dell’altra soluzione in gioco ed allo scopo è necessario riassumere il cuore delle argomentazioni impiegate dal Tribunale per giungere all’assoluzione dell’imputata. 2.1 Dopo aver ricostruito l’antefatto, costituito da un acceso litigio tra i due professori avvenuto all’interno dell’edificio scolastico, che - occorre rimarcare - la Corte di appello non pone in discussione nei termini effettivi del suo svolgersi, il Tribunale ha ritenuto che la frase pubblicata dalla giudicabile sulla sua pagina fecebook dovesse essere inserita in suddetta cornice fattuale dopo la premessa ha osservato che le espressioni presenti nel testo, pur avendo nella comune accezione linguistica una vis dispregiativa nei confronti del destinatario, non si risolvono stricto sensu in un attacco personale sul piano individuale, bensì in guisa di una manifestazione di una posizione di pensiero dissenziente dalle metodologie didattiche della parte civile, in un quadro generale di disistima del collega, ai limiti di una ammissibile facoltà di critica, non essendo censurata la persona in sé e per sé. Ha sostenuto il Tribunale che le incriminate espressioni erano state impiegate non tanto per apportare un vulnus alla considerazione dell’offeso ma quali strumento per argomentare, anche nell’immediatezza dell’antefatto . un giudizio sulla persona offesa, che, per quanto violento, o recte, aspro, rientra nel perimetro della critica. 2.2 L’opposto approdo cui è giunta la Corte di Appello ha valorizzato il limite della continenza nell’esercizio del diritto di critica, giudicato travalicato dall’uso della qualificazione di essere spregevole nei confronti del collega, che non è apparso proporzionato e pertinente rispetto al tema della critica ai metodi in insegnamento di un collega, anche perché associata all’accusa di manipolazioni psicologiche nei confronti degli studenti, priva di riferimenti a circostanze determinate ed idonea a ledere la dignità professionale di un insegnante. 3. Il Collegio ritiene corretta la decisione della Corte di appello, in armonia con i consolidati principi elaborati da questa Corte sul limite della continenza nella forma espositiva che deve essere rispettato, costituendo uno dei presupposti per il riconoscimento dell’esercizio del diritto di critica. L’elaborazione ermeneutica di questa Corte giunge costantemente ad affermare che in tema di diffamazione l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti. Sez. 5, Sentenza n. 15089 del 29/11/2019 Ud. dep. 14/05/2020 Rv. 279084 Sez. 5, Sentenza n. 17243 del 19/02/2020 Ud. dep. 05/06/2020 Rv. 279133 Sez. 5, Sentenza n. 31669 del 14/04/2015 Ud. dep. 21/07/2015 Rv. 264442. Nella fattispecie in esame la definizione della parte civile come essere spregevole è univocamente ed esclusivamente interpretabile come offesa personale diretta a screditare non l’operato professionale del professore, ma, all’evidenza, la persona in sé e per sé per altro verso il contesto fattuale in cui è avvenuto l’episodio, la lite tra i colleghi in una situazione in cui gli alunni avevano aderito a proteste studentesche contro la riforma Monti della scuola - aspetto sul quale ha insistito la motivazione liberatoria - non è per nulla menzionato nella proposizione ritenuta diffamatoria, nella quale si è fatto unicamente riferimento alla discussione avvenuta tra l’imputata e la parte civile. 3.1 Quanto all’accusa di effettuare manipolazioni psicologiche nei confronti degli studenti, le parole usate risultano del tutto esorbitanti rispetto alla ritenuta finalità di disapprovazione dei metodi di insegnamento adottati dal collega, tema peraltro neppure ben chiarito all’interno delle frasi pubblicate su facebook, in cui l’espressione è rimasta genericamente formulata, non avendo alcun riferimento a circostanze di fatto determinate, e per questo è stata condivisibilmente giudicata diffamatoria dalla Corte territoriale, poiché idonea a ledere la dignità professionale dell’insegnante. Sul punto vale la pena aggiungere che la parola manipolazione è definita nel dizionario della lingua italiana Zanichelli in senso figurato come manovra per raggirare, imbrogliare e simili ed ancora come controllo o condizionamento anche in riferimento alle coscienze. Tenendo conto di tale significato, che di certo non può essere sfuggito all’imputata nella sua qualità di professoressa di Liceo, e dell’assoluta mancanza di giustificazioni al suo immotivato uso sul social facebook - strumento di comunicazione pubblico come meglio si dirà infra - espressione probabilmente adoperata per definire le prassi di insegnamento del collega, non può che rinsaldarsi la valutazione di offensività delle espressioni incriminate. Il senso della parola in sé e nel contesto fattuale di riferimento, non può che essere quello di attribuire all’insegnante, per ragioni neppure manifestate, una volontà di condizionamento/controllo delle coscienze dei suoi studenti, volontà che appare, all’evidenza, contraria agli scopi formativi ed educativi che l’ordinamento attribuisce all’insegnamento. 4. Resta da esaminare il profilo di ricorso nel quale si è censurata la motivazione della Corte di Appello per non aver valutato le richieste subordinate fatte dalla difesa della giudicabile in primo grado e non riproposte in ragione dell’accoglimento della principale istanza di assoluzione ex art. 51 c.p Quanto alla sussistenza dell’aggravante del mezzo di pubblicità occorre rilevare che la stessa difesa nell’atto di ricorso ha mostrato di conoscere, citandola, la giurisprudenza di questa Corte - alla quale il Collegio intende dar seguito - secondo la quale la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone tuttavia non può dirsi posta in essere col mezzo della stampa , non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico. Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 13, Sez. 5, Sentenza n. 4873 del 14/11/2016 Cc. dep. 01/02/2017 Rv. 269090 Sez. 1, Sentenza n. 24431 del 28/04/2015 Cc. dep. 08/06/2015 Rv. 264007. 4.1 Quanto alla censura inerente il riconoscimento e la liquidazione del danno morale, che sarebbe privo di giustificazione, va premesso in fatto che la Corte lucana ha riconosciuto alla parte civile di aver sofferto un danno morale a seguito della pubblicazione delle frasi offensive nei suoi riguardi, in considerazione del tenore della frase diffamatoria e delle notevole potenzialità di diffusione derivante dal mezzo usato, liquidandolo in 800 Euro. La giustificazione in proposito assunta dal Giudice del merito non è censurabile in questa sede, poiché in tema di liquidazione del danno non patrimoniale la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria. Sez. 5, Sentenza n. 35104 del 22/06/2013 Ud. dep. 14/08/2013 Rv. 257123. Per altro verso si è affermato che la liquidazione del danno non patrimoniale, sfuggendo ad una precisa valutazione analitica, resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del Giudice, che sono incensurabili in sede di legittimità, se contengono anche sommariamente l’esposizione delle ragioni del processo logico che l’ha determinata. Sez. 6 sent. 48461 del 2013, rv 258170. Va, infine, ricordato che è stato ritenuto legittimo il ricorso alla categoria del notorio ed alle presunzioni nella prova del danno derivante da lesione alla reputazione, considerato che, in base all’ id quod plerumque accidit , si può presumere, che tale lesione abbia arrecato alla persona offesa una sofferenza morale meritevole di ristoro Sez. 5, Sentenza n. 6481 del 28/10/2011 Ud. dep. 17/02/2012 Rv. 251944. Alla luce dei principi e delle osservazioni che precedono il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali, nonché, per il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che sono liquidate in complessivi Euro tremilaquattrocento oltre accessori di legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 3400 oltre accessori di legge.