Allevamento allo stato brado: nessuna giustificazione per avere tenuto gli animali in condizioni deprecabili

Condanna definitiva per il titolare di un allevamento di equidi. Evidente le sofferenze provocate agli animali – asini, cavalli e un mulo –, costretti in spazi ridotti, pieni di liquami, feci e occupati anche da carcasse in decomposizione. In discussione, invece, la responsabilità penale del fratello veterinario, che in alcune occasioni veniva chiamato a intervenire nella struttura.

Portare avanti un allevamento allo stato brado di cavalli e asini non può giustificare, o rendere meno grave, il fatto che i quadrupedi siano tenuti in condizioni deprecabili , ossia in spazi ridotti e occupati da liquami fangosi, feci e carcasse di animali in decomposizione, e con poca acqua Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 10122/21, depositata il 16 marzo . Riflettori puntati su un allevamento di equidi in Piemonte. A suscitare non poche perplessità sono le condizioni a cui sono sottoposti gli animali, come certificato da un controllo della struttura effettuato dalle forze dell’ordine. A finire sotto accusa sono il titolare dell’allevamento e il fratello , chiamato in causa in quanto veterinario addetto alla cura degli animali. Per i Giudici del Tribunale il quadro probatorio è chiarissimo. Così i due fratelli vengono condannati per avere detenuto ventotto cavalli, undici asini ed un mulo in condizioni incompatibili con la loro natura e produttivi per le predette bestie di gravi sofferenze . In particolare, si è appurato che gli animali erano allevati in ambienti sporchi, privi di acqua, in condizioni di degrado statico e di dimensioni insufficienti . Inoltre, gli spazi riservati ai quadrupedi erano caratterizzati dalla presenza di liquami fangosi, feci non rimosse e carcasse di altri animali in stato di decomposizione . Sul fronte delle pene i Giudici sanzionano il titolare dell’allevamento con 4mila e 500 euro di ammenda e il fratello veterinario con 3mila euro di ammenda . In aggiunta, poi, il Tribunale dispone anche la confisca delle bestie in sequestro ed il loro affidamento ad enti od associazioni competenti che ne facciano richiesta, da individuarsi tramite la polizia giudiziaria . In Cassazione la posizione dei due fratelli si divide in modo netto. Per il titolare dell’allevamento è confermata la condanna. Per il veterinario, invece, viene messa in discussione la responsabilità. I Giudici del ‘Palazzaccio’ osservano che il veterinario non è pacificamente il gestore del maneggio ove erano allevati gli equidi ma è persona che, vuoi per la sua qualifica professionale di medico veterinario, vuoi per il suo rapporto familiare con il titolare della struttura, vuoi perché è, a sua volta, titolare di un allevamento di ovini non distante dal maneggio, si trovava a frequentare l’allevamento gestito dal fratello . Tali circostanze però non bastano per affermare la responsabilità penale del veterinario, non essendo dimostrata in modo certo una sua ingerenza, o quanto meno una sua collaborazione di fatto, nella gestione delle varie necessità dell’allevamento e non potendo quindi dare per scontata la sua consapevolezza della deprecabile situazione esistente nel maneggio. In questa ottica viene evidenziato che anche in Tribunale si è appurato che il veterinario interveniva solo in quanto in tale senso chiamato dal fratello, con compiti pertanto di carattere meramente esecutivo e privi di autonomia gestionale . Non decisivo, secondo i Giudici della Cassazione, il riferimento alla sua posizione e alle sue competenze di medico veterinario , anche perché l’ipotetica assunzione di una sorta di posizione di garanzia, legata alla qualifica di operatore sanitario, cozza con il rilievo che le bestie non presentavano delle patologie non curate tali da poter coinvolgere la specifica posizione professionale del veterinario . E inoltre non può ignorarsi che la contestazione è esclusivamente riferita alle modalità materiali di allevamento delle bestie, modalità in relazione alle quali, stante la estraneità del veterinario alla gestione dell’allevamento, non risulta che questi avesse una sua personale voce in capitolo . Necessario quindi un approfondimento in Tribunale sulle eventuali colpe del veterinario per la deprecabile gestione del maneggio da parte del fratello. Nessun dubbio, invece, sulla responsabilità penale del titolare della struttura, avendo egli tenuto gli animali in condizioni tali da determinare loro gravi sofferenze e sicuramente incompatibili con il loro benessere . Priva di rilievo, chiariscono i Giudici di terzo grado, la circostanza, posta in evidenza dal proprietario dell’allevamento, secondo cui la presenza del fango all’interno della stalla era frutto di abbondanti piogge . Su questo punto i Giudici ribattono che non si vede perché il fango, ove ci si fosse trovati in condizioni di normale efficienza dell’allevamento, dovesse essere penetrato all’interno degli alloggiamenti degli animali . Peraltro, non solamente di fango si tratta ma anche di letame, circostanza che fa ritenere che le bestie fossero mantenute negli stessi locali ove veniva conservato il frutto delle loro deiezioni . Significative, poi, le dimensioni della struttura all’interno della quale gli animali erano ricoverati una superficie di ventiquattro metri circa, insufficiente ad ospitare i quaranta equidi lì sistemati . E da non dimenticare poi l’inadeguatezza dei rifornimenti di cibi e di liquidi destinati ai quadrupedi. A fronte di tale quadro, parlare di allevamento allo stato brado , come fatto dal proprietario, non comporta certo che le bestie, all’occorrenza, non potessero avere un adeguato locale coperto ove trovare, alla bisogna, ricovero , osservano in chiusura i giudici.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 dicembre 2020 – 16 marzo 2021, n. 10122 Presidente Sarno – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto Il Tribunale di Vercelli, in composizione monocratica, ha, con sentenza del 1 aprile 2019, dichiarato la penale responsabilità di M.P. e di M.M. in ordine al reato, in ipotesi commesso in concorso fra i due, di cui all’art. 727 c.p., comma 2, per avere detenuto n. 28 cavalli, 11 asini ed 1 mulo in condizioni incompatibili con la loro natura e produttivi per le predetta bestie di gravi sofferenze. In particolare, secondo la accusa ritenuta comprovata in giudizio, gli animali di cui sopra erano allevati in ambienti sporchi, privi di acqua, in condizioni di degrado statico e di dimensioni insufficienti gli stessi erano caratterizzati dalla presenza di liquami fangosi, feci non rimosse e carcasse di altri animali in istato di decomposizione. Il Tribunale di Vercelli ha, pertanto, condannato i predetti imputati - il secondo in quanto titolare e gestore dell’allevamento, il primo in quanto medico veterinario che, ben a conoscenza della situazione esistente nell’allevamento condotto dal coimputato, del quale egli è, peraltro, il fratello, si occupava personalmente e stabilmente degli aspetti sanitari riguardanti la citata struttura -- alla pena di Euro 4.500,00 di ammenda M.M. ed alla pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, di Euro 3.000,00 di ammenda M.P. , avendo per ambedue escluso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna pronunziata. Il Tribunale, tenuto conto della condanna, ha altresì disposto la confisca delle bestie in sequestro ed il loro affidamento ad enti od associazioni competenti che ne facciano richiesta da individuarsi tramite la Polizia giudiziaria. Avverso la sentenza del Tribunale hanno interposto ricorso per cassazione i due imputati, assistiti dal comune difensore di fiducia, affidando le loro doglianze a 5 motivi di impugnazione. Il primo motivo riguarda la stessa integrazione del reato loro contestato. Il secondo motivo di ricorso ha ad oggetto la illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza emessa a loro carico in relazione alla sussistenza per ciò che riguarda la posizione dell’imputato M.M. della condotta vietata. Il terzo motivo è relativo al vizio di motivazione riguardante l’affermazione della responsabilità penale di M.P. . Il quarto motivo di ricorso attiene alla mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p Infine, l’ultimo motivo concerne la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche all’imputato M.M. . Considerato in diritto Il ricorso è risultato fondato quanto alla posizione dell’imputato M.P. , e, pertanto, la sentenza emessa nei suoi confronti deve essere annullata. Essendo, invece, risultato infondato il ricorso per ciò che attiene alla posizione dell’imputato M.M. , lo stesso, nella parte in cui esso ha ad oggetto la posizione di tale secondo imputato, deve essere rigettato. Esaminando, prioritariamente, la posizione del ricorrente M.P. , ritiene la Corte che la motivazione della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Vercelli sia minata da un’insanabile contraddizione in ordine alla affermazione della sua partecipazione, a titolo di concorrente, nel reato contestato ai due prevenuti. Ed infatti, premesso che M.P. non è pacificamente il gestore del maneggio ove erano allevati gli equidi di cui al capo di imputazione ma è persona che, vuoi per la sua qualifica professionale di medico veterinario, vuoi per il suo rapporto familiare con il correo M.M. , del quale è, come ricordato, il fratello, vuoi perché è, a sua volta, titolare di un allevamento di ovini la cui ubicazione è indicata in sentenza non distante dal maneggio gestito dal fratello, si trovava a frequentare siffatta struttura. Da tale circostanza il Tribunale ha, con un evidente salto logico, desunto la esistenza di elementi sufficienti per affermare la responsabilità penale anche di questo imputato nel reato. È, infatti, riportato in sentenza che risulterebbe dimostrata un’ingerenza o quanto meno una collaborazione di fatto nella gestione delle varie necessità dell’allevamento da parte di M.P. tale che non poteva che essergli nota la situazione esistente salvo poi, in aperta contraddizione con quanto sopra riportato, ammettere lo stesso Tribunale che, sebbene fosse stata accertata la formale estraneità dell’imputato ora in questione allo svolgimento dei compiti connessi con l’attività di allevamento a tale proposito è significativo rilevare come lo stesso Tribunale segnali che M.P. intervenisse solo in quanto in tale senso richiesto da fratello, con compiti pertanto di carattere meramente esecutivo e privi di autonomia gestionale , tuttavia la sua condotta tanto più se letta alla luce della sua posizione e delle competenze di medico veterinario, non può essere equiparata a quella di mera connivenza non punibile . Tale affermazione, la quale postula l’assunzione di una sorta di posizione di garanzia da parte del prevenuto in esame legata alla sua qualifica di operatore sanitario, cozza con il rilievo che, quanto meno alla luce del capo di imputazione contestato, le bestie in discorso non presentavano delle patologie non curate tali da poter coinvolgere la specifica posizione professionale dell’imputato citato al riguardo deve osservarsi come sia fuori luogo il riferimento operato dal Tribunale, onde dimostrare la condizione di illiceità della condotta del imputato in discorso, alla sussistenza in capo al prevenuto di una sua possibile mancanza all’obbligo di referto di cui all’art. 335 c.p., in quanto - anche a voler prescindere dalle possibili difficoltà interpretative derivanti dall’applicazione dell’art. 335 c.p., comma 2, essendo incerto se in una condizione quale è quella che caratterizza il medico veterinario, per persona assistita, in relazione alla quale il rischio che questa sia, per effetto del referto fatto dal medico, sottoposta a procedimento penale, costituisce elemento negativo della fattispecie, debba intendersi l’uomo che abbia sollecitato l’intervento del veterinario, ovvero, con interpretazione ampiamente estensiva, la bestia sulla quale il medico veterinario sia intervenuto - in ogni caso l’obbligo in questione scatta solo in presenza di un delitto perseguibile di ufficio e non anche in un caso, quale è il presente, di contravvenzione , essendo la contestazione esclusivamente riferita alle modalità materiali di allevamento delle bestie, modalità in relazione alle quali, stante la estraneità del M.P. alla gestione dell’allevamento, intesa questa nella sua corretta accezione comportante la facoltà di assumere autonomamente delle scelte significative nello svolgimenti di tale attività, non risulta che questi avesse una sua personale voce in capitolo . La sentenza sul punto deve, pertanto, essere annullata, con rinvio al Tribunale di Vercelli che, in diversa composizione personale, valuterà, alla luce dei rilievi esposti la sussistenza o meno degli estremi per l’affermazione della responsabilità a titolo concorsuale nel reato contestato anche dell’imputato M.P. . Infondato è, viceversa, il ricorso per ciò che concerne la posizione di M.M. . Premesso che il reato contestato si verifica ogni qual volta risulti che un soggetto detenga animali in condizioni tali da determinare loro gravi sofferenze, dovendosi intendere queste ultime sussistenti non solo in quanto le modalità di detenzione determinino la insorgenza di processi patologici ma anche in quanto siano tali da determinare a carico dei quelli mere sofferenze Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 aprile 2019, n. 14734 , si rileva che nel caso di specie la sentenza impugnata ha ben chiarito che le modalità di custodia ed allevamento delle bestie detenute dal M. fossero indubbiamente tali da generare in queste delle condizioni di vita chiaramente incompatibili con il benessere. Del tutto privo di fondamento è il secondo motivo di impugnazione, con il quale si deduce una illogicità motivazione ed una contraddittorietà della sentenza in punto relativa alla assenza, nell’allevamento gestito dal M.M. , delle condizioni minime per il benessere delle bestie ivi ospitate nessun rilevo ha la circostanza, a lungo valorizzata dal ricorrente, che la presenza del fango all’interno della stalla era frutto di abbondanti piogge, sia perché, in assenza di non rilevati fenomeni esondativi, in ogni caso il fango non si vede perché, ove ci si fosse trovati in condizioni di normale efficienza dell’allevamento, dovesse essere penetrato all’interno degli alloggiamenti degli animali, sia perché non solamente di fango si tratta ma anche di letame, circostanza che fa ritenere che le bestie fossero mantenute negli stessi locali ove veniva conservato il frutto delle loro deiezioni. Lo stesso dicasi quanto alla struttura edificata all’interno della quale gli animali erano ricoverati, avente una superficie di 24 mq circa, che viene definita, in termini anche eufemistici, insufficiente ad ospitare i quaranta cavalli recte equidi ndr ivi allogati. Parimenti per ciò che attiene ai rifornimenti di cibi e di liquidi che sono stati riferiti essere, secondo quanto la sentenza ha riportato, non adeguati. Dire che si trattava di un allevamento allo stato brado, come sostenuto dal ricorrente, non comporta certo che le bestie, all’occorrenza, non potessero avere un adeguato locale coperto ove trovare alla bisogna ricovero. Sul punto la sentenza è del tutto congrua e nessuno dei rilievi al riguardo formulati dalla difesa dell’imputato coglie nel segno. Riguardo alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 c.p. si osserva che si tratta di doglianza che, per come è stata proposta, appare inammissibile. Invero, sebbene, secondo quanto riportato dal ricorrente, la relativa richiesta fosse stata formulata in sede di conclusioni in esito al dibattimento celebrato di fronte al Tribunale di Vercelli, di tale circostanza non vi è traccia nella sentenza impugnata. Ciò posto, poiché sia legittima la doglianza di omessa motivazione su di una specifica istanza formulata al giudice procedente è necessario che siffatta richiesta sia stata portata formalmente all’attenzione del giudicante sarebbe stato, pertanto, onere del ricorrente indicare con la dovuta specificità quando ed in che termini la richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. è stata formulata, nè tale omissione può essere sanata attraverso la formulazione del motivo di ricorso per cassazione con il quale si chiede che tale causa di non punibilità sia applicata, essendo fermo e condiviso principio di questa Corte che, laddove la richiesta poteva essere formulata di fronte alle istanze giudiziarie di merito e ciò non sia avvenuto, ovvero non risulti essere awenuto, siffatta richiesta non può essere formulata per la prima volta in sede di legittimità così, fra le altre Corte di cassazione Sezione II penale, 16 maggio 2019, n. 21465 . Riguardo al motivo di ricorso riferito alla mancata attribuzione al ricorrente del beneficio delle circostanze attenuanti generiche si rileva che siffatta scelta è stata adeguatamente motivata da parte del giudice del merito stante la assenza di qualsivoglia iniziativa riparatoria da parte del prevenuto il quale, secondo quanto riferito, senza che ciò abbia trovato un’adeguata smentita, ha anche certato di realizzare il trasferimento degli equidi in un’altra struttura a lui riferibile, la quale - ed in ciò vi è la riprova della assenza di un’adeguata raggiunta consapevolezza del malfatto, fattore questo che si pone, secondo il condivisibile orientamento del giudice di primo grado, siccome ostativo al riconoscimento del beneficio - era egualmente inadatta ad una loro congrua custodia. Conclusivamente, mentre il ricorso di M.P. deve essere accolto, nei termini, meglio supra precisati, di cui in dispositivo, quello di M.M. deve essere rigettato, con la condanna del prevenuto, visto l’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.P. , con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Vercelli, in diversa persona fisica. Rigetta il ricorso di M.M. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.