La Cassazione in tema di violazione del segreto d’ufficio e accesso abusivo a sistema informatico

Sono da considerarsi operazioni ontologicamente estranee a quelle consentite all’agente sia allorché violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diverse da quelli di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era lui consentito.

Ai fini di verificare la sussistenza dell’ipotesi aggravata di cui al comma secondo n. 1 dell’art. 615- ter , è necessario che il fatto sia commesso da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quantomeno agevolato la realizzazione del reato. La rivelazione di notizie acquisite dalla banca S.D.I. e comunicata, in assenza delle prescritte formalità, integra il reato di cui all’articolo 326 cod. pen. anche quando consistano nella propalazione dell’assenza di annotazioni. La vicenda di cui si è occupata la Corte trae origine dalla comunicazione effettuata da pubblico ufficiale avente le credenziali per accedere al sistema informatico , nel caso di specie S.D.I., dell’inesistenza di iscrizioni esistenti a carico ad un terzo soggetto con il quale l’imputato ha asserito esistere rapporto d’amicizia. Una vicenda semplice nel suo nucleo fondamentale che ha indotto la Corte di Cassazione ad effettuare dotta ed approfondita analisi di molti aspetti, sostanziali e processuali, che meriterebbero d’essere affrontati con maggior spazio, attenzione e competenza. Ne ricordiamo, a volo d’uccello, i principali, soffermandoci sull’ultimo dei temi trattati ovvero quello inerente la divulgazione del segreto d’ufficio. Motivi principali e motivi aggiunti la Corte di Cassazione richiama la propria interpretazione del concetto di motivi nuovi od aggiunti che Essa ritiene essere aggiunti solo se collegabili ai motivi principali sviluppati nel ricorso principale di cui essi debbono costituire argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già svolte e non introdurre ampliare l’ambito del petitum introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini fissati per la presentazione dell’impugnazione. A sostegno della propria tesi il Giudice cita sé stesso pronunciando, sia consentito osservalo, in contrasto con la chiara lettera normativa che si riferisce a motivi nuovi” ed aggiunti” che, quindi, applicando comuni regole ermeneutiche, dovrebbero essere differenti, diversi e nuovi, rispetto a quelli già dedotti in sede di redazione dell’impugnazione Prova di resistenza la Corte si sofferma anche sulla necessità dell’effettuazione della prova di resistenza dando sostanzialmente atto di come la stessa debba eseguirsi da parte del Giudice espungendo le prove non utilizzabili e valutando, valorizzandole e dandone atto in motivazione, quelle utilizzabili. L’articolo 615-ter gli Ermellini analizzano la fattispecie astratta alla luce dell’insegnamento reso dalle Sezioni Unite con la sentenza Savarese chiama a risolvere il contrasto giurisprudenziale sorto relativo alla configurabilità del reato di cui all’art. 615- ter secondo comma n. 1, nel caso in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informativo o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative . La risposta fornita al quesito sottoposto all’esame delle SS.UU., è stata positiva perché, come si legge nella motivazione della sentenza in commento, esse hanno privilegiato l’interpretazione più estensiva . Ora, è noto come il limite all’interpretazione estensiva del precetto penale sia costituito dal divieto di interpretazione analogica e come detto limite trovi esplicazione nella possibilità di ricomprendere nella fattispecie astratte tutte quelle condotte che possano rientrare nella descrizione della fattispecie astratta, e, quindi, nel caso di specie le SS.UU. hanno, mi par correttamente, argomentato evidenziando come la fattispecie analizzata punisca non soltanto l’abusiva introduzione nel sistema ma anche l’abusiva permanenza nel sistema contro la volontà del titolare. Circostanza questa che si verifica allorché l’accesso al sistema venga effettuato per finalità diverse da quelle consentite. Finalità diverse che debbono essere ricercate non solo in quelle proprie del sistema stesso ma anche nell’intervenuto superamento dei limiti propri dell’autorizzazione concessa all’operatore per l’utilizzo del sistema. Dal che discende che ogni accesso al sistema non strettamente collegato alle condizioni ed ai limiti dall’autorizzazione concessa integra violazione dell’art. 615- ter c.p., e che, detta violazione non sia immediatamente sovrapponibile alla circostanza aggravante indicata dal comma secondo numero 1 che richiede che, oltre alle qualifiche soggettive, che l’agente commetta il fatto con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione, di talché la qualifica soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato. Da questi approdi la sentenza non si discosta e, conseguentemente, ne applica le risultanze alla fattispecie concreta, dichiarando esistente la violazione del precetto penale posto che l’accesso al sistema, ovvero la permanenza in esso era stata effettuata per finalità consentite, verifica dell’esistenza di annotazioni a carico di un soggetto, ma travalicando i limiti propri dell’autorizzazione concessa all’operatore per l’utilizzo del sistema. L’art. 323 c.p. la pronuncia della Corte in tema di art. 323 c.p. e di sua violazione è estremamente interessante. Innanzitutto si identificano natura e funzione dello S.D.I. definito sistema chiuso, accessibile e fruibile esclusivamente da parte di persone debitamente autorizzate dal Funzionario/Ufficiale Responsabile e previ abilitazione di un apposito profilo, diversificato a seconda delle informazioni che il personale deve conoscere., in ragione delle mansioni da svolgere avuto riguardo all’incarico ricoperto. Proprio a cagione della natura ontologica del sistema esclude, così dicono gli Ermellini, ex se che sia consentita la comunicazione informale di quanto risulta dalla banca dati, anche laddove la richiesta pervenga dal diretto interessato, che non è titolare di un diritto incondizionato a ricevere informazioni, se non nei limiti e con le forme previste dalla legge. Viene richiamato in proposito l’art. 28 l. n. 241/90 che impone al pubblico ufficiale di mantenere il segreto d’ufficio definendone ambito ed estensione, specificando che l’impiegato non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso . Ancora una volta dunque il Legislatore si è premurato di identificare i limiti della possibile divulgazione delle notizie ricomprendendo in quelle non divulgabili, anche se accessibili, quelle che non possano essere fornite a chi non sia titolare dei prescritti requisiti o che siano rese senza il rispetto delle modalità previste per la loro comunicazione. Anche in questo caso la vicenda può dirsi essere definita. Senonchè La comunicazione di inesistenza di informazioni senonché la Corte si trova a dover affrontare una vicenda in cui l’informazione fornita era relativa all’inesistenza di informazione. Ovvero all’assenza di altre e diversi iscrizioni rispetto a quanto già noto al soggetto richiedente notizie. La corte in punto rileva come la comunicazione di assenza di informazioni, resa nelle forme utilizzate dall’imputato, costituisca ed assuma un qualificato profilo di offensività poiché essa era certamente notizia coperta da segreto e, qualora comunicabile, previa l’espletamento delle necessarie richieste e l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni, conoscibile in forma differente da parte del richiedente. Infatti l’art. 110- bis disp. att. c.p.p. avrebbe imposto all’addetto il rilascio di certificazione del tenore ben noto agli operatori, ovvero come non sussistessero iscrizioni suscettibili di comunicazione, lasciando così impregiudicato, e quindi di fatto non conoscibile dall’interessato, il possibile esercizio del potere di secretazione da parte del pubblico ministero. Dunque, proprio sotto questo profilo, ovvero quello di aver rivelato l’assoluta inesistenza di iscrizioni e non solo l’inesistenza di iscrizioni suscettibili di comunicazione, si è manifestata la violazione del segreto d’ufficio. Violazione che ha importato la conferma della sentenza impugnata ma, soprattutto, all’enunciazione del principio riportato in massima, ovvero che anche la rivelazione dell’inesistenza di iscrizioni, alle condizioni sopra ricordate ed evidenziate, costituisce violazione del segreto d’ufficio.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 4 febbraio – 4 marzo 2021, n. 8911 Presidente Palla – Relatore Tudino Ritenuto in fatto 1.Con la sentenza impugnata del 3 marzo 2020, la Corte d’appello di Venezia ha confermato la decisione del Tribunale di Padova del 2 ottobre 2017, con la quale è stata affermata la responsabilità penale di S.M. , nella qualità di militare della Guardia di finanza in servizio a [], in ordine ai reati di accesso abusivo aggravato alla banca dati SDI e rivelazione del segreto d’ufficio, in riferimento alle informazioni rese a Sa.Iv. in merito alla in esistenza di pregiudizi a suo carico, diversi ed ulteriori di quelli già al medesimo noti, risultanti dalla medesima banca dati. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato per mezzo del difensore, Avv. Paolo Maria Gemelli, affidando le proprie censure a tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p 2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge in riferimento al reato di cui all’art. 615 ter c.p., sub a , per avere la Corte territorialè ritenuto l’accesso alla banca dati SDI operato per ragioni ontologicamente estranee a quelle di servizio, richiamando i principi declinati da Sez. U. n. 41210/2017, Savarese, che, invece, determina un’ineludibile modifica degli elementi costitutivi del reato, laddove circoscrive la rilevanza penale del fatto aggravato alla qualifica soggettiva dell’agente prospettiva entro la quale non si colloca la condotta dell’imputato, per avere il medesimo operato nei limiti dell’autorizzazione ricevuta. 2.2. Con il secondo motivo, denuncia vizio della motivazione in quanto da un lato reiterativa di quella censurata con l’appello e, dall’altro, illogica e contraddittoria. Nei limiti delle statuizioni concernenti l’affermazione di responsabilità, che ha escluso la rilevanza penale dell’accesso dell’8 settembre 2009, la sentenza impugnata ha ritenuto abusive le successive consultazioni, senza considerare le ragioni d’ufficio che le avevano, invece, giustificate, come dedotto con il gravame. L’imputato, già autorizzato all’interrogazione della banca dati dal superiore gerarchico, aveva rappresentato le ragioni di cautela, che lo avevano determinato all’accertamento di eventuali pendenze a carico di soggetto con cui aveva intrapreso relazioni personali, nell’ambito dell’attività informativa e conoscitiva consentita per ragioni di servizio e di ricerca della notizia di reato ex artt. 50 e 330 c.p.p., mentre la Corte territoriale non ha correttamente inquadrato il rapporto tra lo S. ed il Sa. , svalutando l’inesistenza del movente e confermando l’affermazione di responsabilità in via apodittica. 2.3. Con il terzo motivo, deduce violazione di legge e correlato vizio della motivazione in relazione al reato di violazione di segreto d’ufficio sub b , limitato alla sola condotta in data 29 dicembre 2013, trattandosi della comunicazione di un dato negativo l’inesistenza di iscrizioni ulteriori rispetto ad una già nota e non coperto da vincoli di segretezza, come tale inidoneo a cagionare pregiudizio alla riservatezza investigativa, avendo anche al riguardo la Corte territoriale omesso di confrontarsi con le censure articolate con l’appello e, in particolare, con la natura di reato di pericolo concreto dell’imputazione. 3. Con requisitoria scritta D.L. n. 137, ex art. 23, il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. 4. Con motivi nuovi, depositati in cancelleria il 19 gennaio 2021, il difensore ha svolto ulteriori censure. 4.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio della motivazione in riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato sub a per avere la Corte territoriale, una volta dichiarata l’inutilizzabilità delle intercettazioni autorizzate in diverso procedimento omesso di svolgere la prova di resistenza degli ulteriori elementi probatori, invece insufficienti in punto di dimostrazione dell’abusività dell’accesso, con conseguente illogicità delle argomentazioni rassegnate riguardo le ragioni, ontologicamente diverse da quelle d’ufficio, che avevano determinato la consultazione della banca dati, mentre risulta il mero dato dell’accesso con le credenziali proprie dell’imputato. Sicché la prova del reato finisce con l’essere fondata su quelle stesse intercettazioni di cui si è affermata l’inutilizzabilità. 4.2. Con il secondo motivo, deduce travisamento del motivo d’appello inerente l’esclusione dell’astratta configurabilità del reato cui all’art. 615 ter, comma 2 n. 1, argomentato valorizzando l’abilitazione dell’imputato all’accesso, effettuato con le credenziali proprie del pubblico ufficiale, con conseguente insussistenza del reato contestato sub a , in assenza della violazione di prescrizioni interne impartite dal titolare del sistema, mentre la Corte territoriale ha erroneamente interpretato la doglianza come riferita alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 615 ter, comma 2, n. 1, attraverso l’applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni unite Savarese a fattispecie non sovrapponibile a quella per cui i medesimi sono stati enunciati. 4.3. Con il terzo motivo, si censura la determinazione del trattamento sanzionatorio. Considerato in diritto Il ricorso è complessivamente infondato. 1. Il primo ed il terzo motivo nuovo introducono censure non devolute con il ricorso principale, nè dallo stesso deducibili. 1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte Sez. 2, n. 17693 del 17/01/2018, Corbelli, Rv. 272821 , i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione, non essendo consentito, con motivi definiti dalla parte proponente nuovi od aggiunti , dedurre vizi non introdotti con l’impugnazione originaria. La facoltà conferita al ricorrente dall’art. 585 c.p.p., comma 4, deve, invero, trovare necessario riferimento nei motivi principali e rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore e più dettagliata esposizione dei primi, anche per ragioni eventualmente non evidenziate in precedenza, ma sempre collegabili ai capi e punti della decisione impugnata oggetto delle censure già dedotte ne consegue che motivi nuovi ammissibili sono soltanto quelli con i quali, a fondamento del petitum già proposto nei motivi principali d’impugnazione, si alleghino argomentazioni e non anche richieste ulteriori rispetto a quelle originarie, non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato. I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i medesimi capi o punti della decisione impugnata che siano stati oggetto di doglianza nell’originario atto d’impugnazione Sez. 6, n. 73 del 21 settembre 2011, dep. 2012, Rv. 251780 . In altri termini, in materia di termini per l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi o aggiunti incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma risultando sempre ricollegabili ai capi ed ai punti già censurati ne consegue che sono ammissibili soltanto i motivi nuovi o aggiunti con i quali, a fondamento del petitum formulato nei motivi principali, si alleghino argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già svolte, non anche quelli con i quali si intenda ampliare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954, in motivazione . 1.2. Nel quadro così delineato, il primo ed il terzo motivo, formalmente definiti come nuovi , trasmessi dall’avv. Gemelli nell’interesse dell’imputato, sono inammissibili in quanto esorbitanti dai temi devoluti con il ricorso. 1.2.1. Quanto alle censure rivolte al trattamento sanzionatorio terzo motivo nuovo , le medesime introducono doglianze del tutto inedite rispetto al ricorso principale e attingono un punto della decisione non tempestivamente gravato, con conseguente preclusione alla tardiva deduzione. 1.2.2. La questione processuale dell’autosufficienza della prova d’accusa, dedotta nel primo motivo nuovo sub specie di omessa delibazione della prova di resistenza derivante dalla dichiarata inutilizzabilità delle intercettazioni, è anch’essa eccentrica rispetto al tema della rilevanza penale del fatto sub a , introdotto dal primo motivo del ricorso principale e ripresa, sotto diversa angolazione, dal secondo motivo nuovo ed è, pertanto, inammissibilmente formulata. La stessa è, peraltro, manifestamente infondata. Facendo corretta applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni unite n. 51 del 28/11/2019 dep. 2020, Cavallo, Rv. 27739 , ulteriormente specificati, di recente, da questa Sezione Sez. 5, n. 1757 del 17/12/2020 dep. 2021, Lombardo, n. m. , la Corte territoriale ha espunto dalla piattaforma dimostrativa le intercettazioni disposte in diverso procedimento, affermando, invece, l’utilizzabilità, quale corpo del reato sub b , della conversazione intercorsa tra l’imputato ed il destinat’ario dell’informazione coperta da segreto, in tal guisa evidenziandone la portata dimostrativa non solo in merito al predetto reato, ma anche allo strumentale delitto di cui al capo a , di cui la medesima intercettazione disvela, all’evidenza, la consumazione. 1.2.3. Il terzo motivo nuovo sviluppa, invece, temi già devoluti con il ricorso principale, ri evocando sotto l’inedita prospettazione del travisamento del corrispondente motivo di gravame il tema della astratta configurabilità del reato contestato al capo a , di cui si dirà nel prosieguo. Il primo ed il terzo motivo nuovo sono, pertanto, inammissibili. 2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono infondati. 2.1. Le coordinate ermeneutiche delineate da questa Corte in riferimento al reato di accesso abusivo a sistema informatico protetto hanno, in linea di continuità e di progressiva specificazione, precisato tanto gli elementi costitutivi del reato, che i rapporti tra il primo ed l’art. 615 ter c.p., comma 2. 2.1.1. Come noto, già con la sentenza Casani Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 dep. 2012, Rv. 251269 , le Sezioni unite hanno puntualizzato come integri il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p. la condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema. 2.1.2. Muovendo nella prospettiva del principio già affermato, Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061 ha precisato come integri il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita. Con la citata decisione, le Sezioni unite, ricomponendo il contrasto insorto sul se il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1, sia integrato anche nella ipotesi in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative , hanno privilegiato l’interpretazione più estensiva, già oggetto di numerose pronunce, secondo la quale è penalmente rilevante anche la condotta del soggetto che, pur essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite. A tal fine, il Supremo Consesso ha valorizzato il fondamento di ragione della norma incriminatrice, precisando che la fattispecie in esame punisce non soltanto l’abusiva introduzione nel sistema da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione , ma anche l’abusiva permanenza in esso contro la volontà del titolare dello ius excludendi e che, nel caso in cui il titolo di legittimazione all’accesso venga utilizzato dall’agente per finalità diverse da quelle consentite, deve ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà del titolare del diritto di esclusione, in tal modo venendosi a precisare quanto già evincibile da Sezioni Unite Casani in riferimento alla ir rilevanza della violazione di specifiche disposizioni che disciplinano l’accesso al sistema. In particolare, la sentenza Savarese ha approfondito e specificato il concetto di operazioni ontologicamente estranee a quelle consentite, nei casi in cui la condotta criminosa sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, evocando sia la L. n. 241 del 1990, art. 1, che gli artt. 54, 97 e 98 Cost Nel sancire il principio di diritto richiamato, il supremo Consesso si è comunque collocato nel solco di Sezioni Unite Casani, dal quale era già evincibile come fosse sufficiente, per integrare la fattispecie penale, che il soggetto avesse travalicato i limiti propri dell’autorizzazione che gli era stata concessa il soggetto agente così Sezioni Unite Casani è penalmente responsabile sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito , in continuità con l’orientamento giurisprudenziale precedente come ricostruito da Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406 . 2.2. Il tema dei rapporti tra il primo ed il comma 2 della norma in disamina è stato, ulteriormente e coerentemente, approfondito negli arresti successivi. 2.2.1. Si è, così, precisato come la fattispecie di cui l’art. 615 ter c.p., comma 1, che punisce la condotta del soggetto che, abilitato all’accesso, violi le condizioni ed i limiti dell’autorizzazione, non è integralmente sovrapponibile all’ipotesi aggravata di cui al comma 2, n. 1 del medesimo articolo, che richiede che tale violazione sia commessa da un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio V. Sez. 5, n. 25944 del 09/07/2020, Paciletti, Rv. 279496, in motivazione , e che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante predetta, non è sufficiente la mera qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo, ma è necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato Sez. 5, n. 72 del 20/11/2020 dep. 2021, Piccolo, Rv. 280144 . 2.2.2. Siffatti enunciati fondano sul rilievo per cui la circostanza aggravante in parola risulta fondata non già sulla mera qualità di pubblico ufficiale dell’agente, bensì sull’ abuso dei poteri o sulla violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio , analogamente a quanto previsto con riferimento all’aggravante comune di cui all’art. 61 c.p., n. 9, che richiede l’abuso dei poteri l’uso del potere per fini diversi da quelli collegati alle attribuzioni pubbliche e la violazione degli specifici doveri ad esso inerenti, con la conseguenza che la posizione qualificata del soggetto attivo deve avere quantomeno agevolato il reato V. Sez. 5, n. 9102 del 16/10/2019, dep. 2020, Davì, Rv. 278662 Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F, Rv. 273531 . In altri termini, nè la qualità rivestita dal soggetto agente, nè l’abuso di tale qualità fondano ex se il profilo aggravatore del fatto tipico, che invece si giustifica in presenza di un abuso potere in quanto teleologicamente orientato a scopi diversi da quelli collegati alle attribuzioni pubbliche. 2.3. Nel quadro così delineato, le censure svolte dal ricorrente s’appalesano inconducenti. 2.3.1. Il ricorso propone una ricostruzione della fattispecie che, predicando la necessità di una violazione specifica delle prescrizioni di accesso, diversa ed ulteriore rispetto alla finalizzazione extra-funzionale come precisato nel secondo motivo nuovo finisce con l’introdurre un elemento ultroneo ai fini della rilevanza penale del fatto, nei condivisibili termini sopra ricostruiti. La sentenza impugnata ha dato ampiamente atto dell’assenza di alcun profilo, funzionalmente riconducibile a ragioni di ufficio, degli accessi allo SDI operati dall’imputato attraverso le proprie credenziali, in tal guisa giustificando tanto l’ontologica estraneità delle motivazioni della consultazione rispetto alle finalità d’ufficio, che l’abuso della pubblica funzione ricoperta, non solo agevolatrice, ma infungibilmente necessaria per l’acquisizione dei dati ad eccezione del primo accesso dell’8 settembre 2010, motivato da ragioni d’ufficio, risultano ben nove consultazioni successive, prive di adeguata giustificazione, ed anzi analiticamente ricondotte all’interesse di tenere informato il Sa. con il quale, per stessa ammissione dell’imputato, il medesimo aveva avviato un personale rapporto d’amicizia dell’eventuale presenza di iscrizioni allo stesso relative. 2.3.2. Nè la motivazione presta il fianco alle censure che le vengono rivolte in riferimento alla svalutazione delle giustificazioni rese dall’imputato che, nel rivendicare un perdurante interesse investigativo relativamente ad un soggetto con il quale afferma di intrattenere relazioni amicali, finisce per introdurre un irriducibile profilo di contraddittorietà rispetto alla finalità divulgativa degli esiti degli accessi, comprovata dall’intercettazione già richiamata, e autonomamente contestata nel capo b della rubrica. I motivi svolti sul capo relativo alla affermazione di responsabilità per il delitto sub a sono, pertanto, infondati. 3. Sono, nel resto, infondate le censure svolte nel secondo motivo. 3.1. Il ricorrente assume l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 326 c.p., per essere l’informazione propalata all’esito dell’accesso abusivo allo S.D.I. temporalmente coincidente già nota al destinatario, mentre la rassicurazione circa l’inesistenza di ulteriori iscrizioni sarebbe una non notizia , e dunque un dato neutro, come tale inoffensivo del bene tutelato. Il tema che la censura impone, prioritariamente, di affrontare è, dunque, se la comunicazione di quanto risulti dallo S.D.I. sistema informatico interforze CED SDI, che contiene la banca dati di tutte le informazioni acquisite dalle forze di polizia nel corso di attività amministrative e di prevenzione o repressione dei reati al di fuori di qualunque autorizzazione, e per soddisfare la richiesta informale di un privato cittadino interessato, costituisca o meno rivelazione di notizia di ufficio che debba rimanere segreta . 3.1.1. Il vincolo di segretezza sui dati contenuti nel sistema informatico interforze CED SDI trova fondamento nella L. 1 aprile 1981, n. 121, art. 8. Il Centro Elaborazione Dati CED è stato istituito con la norma richiamata a fini di coordinamento della raccolta, classificazione, analisi e valutazione delle informazioni in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità D.Lgs. 18 maggio 2018, n. 51, art. 1, comma 1 . I dati previsti dall’art. 6, lett. a , e art. 7, della stessa legge in materia di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità, risultanti da documenti conservati dalla pubblica amministrazione o da enti pubblici, o risultanti da sentenze o provvedimenti dell’autorità giudiziaria o da atti concernenti l’istruzione penale acquisibili ai sensi dell’art. 165 ter c.p.p., o da indagini di polizia , sono custoditi nel Sistema D’Indagine SDI e messi a disposizione delle Forze di Polizia. L’esclusiva destinazione della banca dati alle forze di polizia rende il sistema chiuso , accessibile soltanto da postazioni di lavoro certificate, che consentono l’acquisizione delle informazioni in sede locale utilizzando una rete intranet, esclusivamente da parte di persone debitamente autorizzate dal Funzionario/Ufficiale Responsabile, e previa abilitazione di un apposito profilo, diversificato a seconda delle informazioni che il personale deve conoscere, in ragione delle mansioni da svolgere, avuto riguardo anche all’incarico ricoperto. L’ermeneusi letterale dell’enunciato normativo esclude ex se, in linea generale, che sia consentita la comunicazione informale di quanto risulta dalla banca dati, anche laddove la richiesta pervenga dal diretto interessato, che non è titolare di un diritto incondizionato a ricevere informazioni, se non nei limiti e con le forme previste dalla legge ai sensi del D.Lgs. 18 maggio 2018 n. 51, art. 10, con particolare riguardo al sistema di trattamento dei dati personali e in adempimento di quanto previsto dalla L. 1 aprile 1981, n. 121, art. 10, comma 3, e dal D.Lgs. 18 maggio 2018, n. 51, art. 48, di attuazione della Direttiva UE 2016/680, relativo alla protezione dati di persone fisiche nei trattamenti di dati personali per finalità di polizia, gli interessati possono inoltrare una richiesta scritta relativa al trattamento dei loro dati personali, eventualmente presenti nel predetto CED. I dati personali presenti nel CED possono essere comunicati alle sole persone cui si riferiscono, o al loro rappresentante legale designato con apposita delega, e sono accessibili solo ai soggetti indicati da specifiche norme di legge. La legge riserva, dunque, esclusivamente alle Forze di polizia la comunicazione delle informazioni concernenti eventuali iscrizioni nella banca dati, previa formale richiesta, salvi gli atti di indagine compiuti dall’autorità amministrativa nella funzione di polizia giudiziaria, che sono soggetti a segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., e, conseguentemente, sottratti all’accesso. Ne viene che solo le Forze di polizia possono fornire notizia circa eventuali iscrizioni a carico, sempre che l’interessato ne abbia fatto espressa richiesta e previa autorizzazione alla relativa comunicazione, con la conseguenza per cui fino al rilascio di siffatta autorizzazione, la notizia in ordine all’esistenza di iscrizioni a carico è segreta anche nei confronti del diretto interessato Sez. 6, n. 14931 del 30/01/2018, Galai, Rv. 272760 N. 50438 del 2015 Rv. 265860 . 3.1.2. Sotto l’ultimo profilo evocato, va ulteriormente ribadito come la nozione di notizie di ufficio che devono rimanere segrete non sia limitata alle informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma si estenda anche a quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, perché effettuate senza il rispetto delle modalità previste ex multis Sez. 6, n. 19216 del 04/11/2016 dep. 2017, P.G. in proc. Di Campli, Rv. 269776 . Nella pronuncia indicata, si è valorizzata l’oggettività giuridica dell’art. 326 c.p., individuata nella tutela del normale funzionamento della Pubblica amministrazione, quale proiezione dei principi costituzionali contenuti nell’art. 97 Cost., e che si estrinseca anche con l’osservanza del segreto d’ufficio inerente al rapporto funzionale tra il pubblico funzionario e l’amministrazione di appartenenza, in tal modo giustificando tanto più quando il segreto concerne indagini penali il sacrificio della esigenza di conoscibilità, che esprime il principio della pubblicità dell’azione dei pubblici poteri, e delineando un ambito del segreto d’ufficio non limitato gli atti segreti . Richiamando la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, che ha sostituito il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 15, T. U. degli impiegati civili dello Stato si è osservato come la legge non si limita a porre l’obbligo per l’impiegato pubblico di mantenere il segreto d’ufficio , ma ne definisce anche l’ambito e l’estensione, specificando che l’impiegato non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso , da tanto evincendo che il divieto di divulgazione e di utilizzo comprende non solo informazioni sottratte all’accesso, ma anche, nell’ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti, o rese senza il rispetto delle modalità previste ex multis Sez. 6, n. 9409 del 09/12/2015, dep. 2016, Rv. 267274 n. 15950 del 2015 Rv. 263590 , in quanto è lo stesso art. 326 c.p., che, per definire l’ambito della condotta, rinvia alla violazione di doveri inerenti alle funzioni o al servizio . Nella delineata prospettiva, oggetto materiale del delitto di rivelazione di segreti d’ufficio sono sia le notizie d’ufficio coperte dal segreto, sia quelle indebitamente svelate a chi non è titolare del diritto di accesso agli atti amministrativi o senza il rispetto delle modalità previste Sez. 1, n. 8201 del 18/02/2010, Rv. 246623 . Sotto altro profilo, è stato coerentemente rimarcato Sez. 6, n. 33256 del 19/05/2016, Martina, Rv. 267870 come nell’orbita della sfera di tutela rientri non solo il buon funzionamento dell’amministrazione e il dovere di fedeltà del funzionario, ma anche l’interesse a che quest’ultimo non tragga dall’esercizio delle sue funzioni un indebito vantaggio rispetto agli altri cittadini, sicché integra la fattispecie prevista dall’art. 326 c.p., comma 3, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che utilizza illegittimamente notizie, acquisite per ragioni di ufficio, anche solo suscettibili di arrecare pregiudizio alla P.A Del resto, la tutela delle informazioni accessibili ai terzi solo mediante apposito iter procedimentale è valore tanto prioritario da essere tutelato anche laddove l’acquisizione delle notizie sia lecita, assumendo, in tal caso, il fatto rilevanza penale ai sensi della L. n. 121 del 1981, art. 12, ex multis n. 14931 del 2018, Rv. 272760, cit. . 3. 2. Alla luce del tracciato ermeneutico ripercorso, il tema investe, allora, se siffatti principi debbano essere ribaditi anche laddove la comunicazione riguardi come nel caso di specie l’inesistenza di iscrizioni ulteriori e diverse rispetto a quelle già note al soggetto interessato, ovvero se anche per queste restano impregiudicati i vincoli di segretezza e gli oneri di accesso posti dal legislatore a salvaguardia del bene interesse del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. In altri termini, il focus si incentra sul se la conferma dei dati già noti all’avente diritto e la propalazione della inesistenza di ulteriori iscrizioni fondi il pericolo concreto di lesione degli interessi tutelati, e se la condotta accertata nel presente processo abbia determinato un pregiudizio per il bene giuridico tutelato dall’art. 326 c.p., e, quindi, se risulti, in concreto, l’assenza di offensività quale limite alla sussistenza della fattispecie incriminatrice, evocata dalla difesa. 3.2.1. Muovendo nel solco tracciato da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 dep. 2012, Casani, Rv. 251271, l’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte ha costantemente ribadito come, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 326 c.p., con riferimento alla rivelazione di notizie d’ufficio attinenti a procedimenti in fase di indagini, non sia necessaria la prova dell’esistenza di un effettivo pregiudizio per le investigazioni, posto che il delitto in questione è reato di pericolo concreto che tutela il buon andamento della amministrazione, il quale si intende leso allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio a quest’ultima o ad un terzo così Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposito, Rv. 231166, màanche Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli, Rv. 238729 . Nella delineata prospettiva, anche la sostanziale infondatezza della notizia non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 326 c.p., poiché la rivelazione è penalmente irrilevante solo se si tratta di informazioni di pubblico dominio Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 o prive di significato e non quando i fatti si rivelino inconferenti o privi di fondamento Sez. 6, n. 33609 del 18/06/2010, Bultrini, Rv. 248270 . 3.2.2. A tanto aggiungasi come costituisce principio consolidato quello secondo cui, quando è la legge a prevedere l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato di cui all’art. 326 c.p., sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto così Sez. 6, n. 42726 del 11/10/2005, De Carolis, Rv. 232751, espressamente richiamata da Sez. 6, n. 33256 del 19/05/2016, Martina, Rv. 267870, cit., ma anche, in motivazione, e con diretta rilevanza ai fini della decisione, da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251271, cit. . 3.2.3. Nel quadro così delineato ed in riferimento alla comunicazione della mancanza di iscrizioni nel registro delle notizie di reato questa Corte ha anche affermato come il reato sia integrato anche se l’informazione fornita sia quella della non rinvenibilità di iscrizione a carico del richiedente, in relazione ad uno specifico procedimento, secondo quanto emerge dalla visione degli atti e delle annotazioni accessibili all’ufficio di cui fa parte il funzionario propalante Sez. 5, n. 24583 del 18/01/2011, Tosinvest, Rv. 249821 n. 49526 del 2017, Rv. 271565 cit. , in quanto ciò che assume rilievo è la rivelazione di quanto è desumibile dai registri consultabili, mentre Non appare neutra la notizia che non risultano iscrizioni, perché a norma di legge art. 110 bis disp. att. c.p.p. l’addetto può rispondere alla richiesta dell’interessato, avanzata secondo le procedure prescritte dalla legge, soltanto con la formula Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione , formula quest’ultima che lascia impregiudicato il potere del pubblico ministero di secretazione . Il principio richiamato trova applicazione in riferimento alle iscrizioni nella banca dati SDI, anche in tal caso residuando come rilevato margini di secretazione, quando le iscrizioni a carico di un soggetto abbiano dato luogo ad un procedimento penale. 3.2.3. Del resto, anche la dottrina finisce per convenire sulla lettura accolta nella giurisprudenza di legittimità. Quando l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto discende da una previsione di legge, il bene giuridico tutelato dall’art. 326 c.p., comma 1, è anche l’imparzialità della pubblica amministrazione, in linea con quella che è ritenuta l’oggettività giuridica di categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Può ritenersi, in altri termini, che la fattispecie incriminatricè in questione sia funzionale anche ad evitare che un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio procuri un indebito trattamento di favore ad una persona, fornendole notizie che alla stessa, come alla generalità dei cittadini, sono precluse o, eventualmente, potrebbero essere fornite solo nel rispetto di formali procedure ed all’esito di una valutazione dell’Autorità competente. Tale conclusione, del resto, risulta coerente rispetto alla complessiva tutela penale del segreto di ufficio, in considerazione dei rapporti intercorrenti tra la fattispecie prevista dall’art. 326 c.p., comma 1, e le fattispecie di cui all’art. 326 c.p., comma 3, che sanzionano penalmente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si avvale illegittimamente di notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete al fine di procurare ad altri un ingiusto profitto patrimoniale o non patrimoniale. In tal senso, è stato affermato che la rivelazione da parte del pubblico agente di un segreto di ufficio, anche laddove sia compiuta per fini di utilità patrimoniale e in adempimento di una promessa corruttiva, integra il reato previsto dall’art. 326 c.p., comma 1, eventualmente in concorso con il delitto di corruzione, mentre ricorre la diversa fattispecie prevista dal comma 3 della stessa disposizione quando il pubblico ufficiale sfrutti, a scopo di profitto patrimoniale o non patrimoniale, lo specifico contenuto economico e morale, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione Sez. 6, n. 4512 del 21/11/2019 dep. 2020, Mangani, Rv. 278326 N. 9409 del 2016 Rv. 267273, N. 37559 del 2007 Rv. 2374 Il coordinamento delle due previsioni porta a concludere, e per motivi letterali rivela si avvale e per motivi sistematici concorso con la corruzione e per motivi teleologici superfluità altrimenti della previsione del comma 3 , nel senso che la condotta del pubblico ufficiale che riveli un segreto di ufficio è esaustivamente prevista nel comma 1 . così Sez. 6, n. 37599 del 27/09/2007, Spinelli, Rv. 237447, ripresa recentemente, tra le altre, da Sez. 6, n. 9409 del 09/12/2015 dep. 2016, Cerato, Rv. 267273 . Ne viene che l’attrazione nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 326 c.p., comma 1, di tutte le condotte di rivelazione di notizia coperta da segreto, pur se caratterizzate dalla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, sembra offrire una conferma che la disposizione appena citata è posta a presidio anche del bene giuridico dell’imparzialità dell’amministrazione. Nella prospettiva indicata, allora, il principio di offensività assume un ruolo di limite alla configurabilità del reato di rivelazione di segreto di ufficio solo con riferimento a notizie che siano futili o insignificanti avendo riguardo sia al principio del buon andamento, sia al principio di tutela dell’imparzialità dell’azione dell’Autorità pubblica. 3.3. Nel quadro così delineato, la notizia rivelata nella vicenda in esame e cioè, il contenuto delle risultanze della banca dati SDI consultabili dall’ufficio della Guardia di finanza presso cui l’imputato prestava servizio ha investito un duplice profilo da un lato, essa si è risolta nella conferma della esistenza di una iscrizione già nota al destinatario la cosa di Chioggia dall’altro, l’informazione si è estesa alla insussistenza di elementi ulteriori risultanti dallo SDI. La propalazione ha, dunque, avuto ad oggetto anche informazioni ulteriori rispetto a quelle già note, e per le quali il divieto di comunicazione è come correttamente rilevato dalla Corte territoriale imposto dalla legge. Quanto all’assenza di ulteriori iscrizioni, si è già rilevato come l’informazione assuma un qualificato profilo di offensività V. § 3.2 , poiché, laddove eventuali annotazioni avessero avuto ad oggetto fatti suscettibili di iscrizione nel registro delle notizie di reato, ai sensi dell’art. 110 bis disp. att. c.p.p., l’addetto avrebbe dovuto rispondere alla richiesta dell’interessato, avanzata secondo le procedure prescritte dalla legge, soltanto con la formula Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione , formula quest’ultima che lascia impregiudicato il potere del pubblico ministero di secretazione. Nè può dirsi che l’informazione fornita riguardasse una notizia insignificante avendo riguardo sia al buon andamento sia all’imparzialità dell’amministrazione, in quanto il dato era relativo alla complessiva posizione del richiedente, evidentemente coinvolto in indagini penali, e non solo al contenuto dell’iscrizione già nota, fornendo un’indicazione logistica tale da esporre, in concreto, al pericolo di pregiudizio per la segretezza gli ulteriori sviluppi investigativi. Deve esse, pertanto, affermato il principio per cui la rivelazione di notizie acquisite dalla banca dati S.D.I. e comunicate, in assenza delle prescritte formalità, integra il reato di cui all’art. 326 c.p., anche quando consistano nella propalazione dell’assenza di annotazioni. La sentenza impugnata, che ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi, individuando in termini di concretezza il periculum, s’appalesa, pertanto, incensurabile. Il ricorso è, pertanto, infondato. 4. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.