Concorso di sanzioni penali e amministrative e violazione del bis in idem

Non è ravvisabile la violazione del ne bis in idem” come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo allorché le due sanzioni rappresentano misure complementari, dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, che determinano una sanzione penale integrata” prevedibile e nel suo complesso del tutto proporzionata al disvalore del fatto

La Seconda Sezione Penale interviene a delimitare il campo di operatività del ne bis in idem , come tratteggiato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso di concorso di sanzioni penali e amministrative Corte di Cassazione, sentenza n. 5048/21, depositata il 9 febbraio . Truffa in danno della assicurazione. La vicenda da cui trae origine la pronuncia in commento è relativa ad una consumata truffa in danno della assicurazione, realizzata da un sub agente assicurativo che, mediante meccanismi fraudolenti, aveva proceduto alla stipula di contratti assicurativi con classe di rischio inferiore a quella reale, così da arrecare un ingiusto vantaggio ai beneficiari contraenti, lucrando sulle provvigioni, ed arrecando un danno alla compagnia assicurativa pari ai minori premi incassati ed aveva, altresì, stipulato numerosi contratti assicurativi secondo una scontistica ben superiore a quella applicabile. Avverso la sentenza di condanna di primo e secondo grado propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, assumendo la violazione dell’art. 649 c.p. e quindi la improcedibilità della azione penale, in quanto l’imputata era stata già destinataria delle sanzioni disciplinari applicate dall’autorità amministrativa all’esito di un procedimento disciplinare, in cui erano stati contestati i medesimi fatti oggi assunti a fondamento del procedimento penale e delle sanzioni in conseguenza irrogate in primo ed in secondo grado. Il motivo di ricorso. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata violerebbe il dettato dell’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 4 prot. 7 CEDU in relazione alle sanzioni amministrative che erano già state applicate in sede disciplinare alla ricorrente medesima. Stante la natura particolarmente afflittiva delle sanzioni amministrative applicate, le stesse avrebbero natura sostanzialmente penale e, dunque, sarebbe illegittima la duplicazione che conseguirebbe all’esito del processo penale. Nel dettaglio, il ricorrente richiama i principi dettati della Corte Europea nella sentenza Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014, che non sarebbero stati scalfiti dalla successiva pronuncia A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016, che sarebbe relativa esclusivamente alle questioni di natura tributaria, trattate in tale ultimo caso. Osserva, altresì, il ricorrente come difetti fra il procedimento disciplinare e quello penale quella stretta connessione temporale e sostanziale, con la conseguenza che, in ossequio alla giurisprudenza CEDU, non sarebbe consentito un doppio trattamento sanzionatorio. La natura non penale della sanzione disciplinare. Investita della questione, osserva la Cassazione come, in primo luogo, paia assolutamente condivisibile la valutazione operata dai Giudici di merito che avevano escluso che la sanzione disciplinare inflitta alla sub -agente radiazione, peraltro non definitiva, dall’albo potesse ritenersi di natura penale per il suo grado di afflittività. Troppo evidente la differente gravità della sanzione della radiazione rispetto alle elevate pene detentive previste per il delitto di truffa aggravata. Gli Ermellini richiamano, peraltro, un proprio precedente in cui si era esclusa la natura penale di una sanzione disciplinare irrogata ad un notaio, anche perché la sanzione disciplinare è destinata esclusivamente agli iscritti ad un ordine ed ha la precisa funzione di sanzionare il mancato adempimento ai doveri professionali. Ciò solo, dunque, sarebbe sufficiente ad escludere, anche nel caso di specie, la violazione dell’art. 649 c.p.p La rilevanza di uno stretto legame temporale e materiale. Tuttavia, i Giudici della Cassazione non si accontentano di tale rilievo, che invero sarebbe di per sé stato sufficiente a legittimare il rigetto del ricorso, ma approfondiscono i criteri dettati della giurisprudenza della cassazione, costituzionale e comunitaria onde chiarire il campo di operatività del dettato dell’art. 649 c.p.p. nei casi in cui entrambe le sanzioni possano avere natura penale per la loro afflittività. In particolare, osservano gli Ermellini come il lungo percorso giurisprudenziale sia ormai giunto ad un pacifico approdo affermando da ultimo con la recente sentenza della Sez. 3, n. 22033 del 07.02.2019, dep. 20.05.2019 che il divieto di bis in idem ” non opera quando i diversi procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, in quanto l’uno persegue finalità complementari all’altro, essendo prevedibile la duplicazione dei procedimenti, e allorché nel quantificare la misura della seconda sanzione possa tenersi conto della prima già irrogata, onde evitare un eccessivo carico sanzionatorio per il medesimo fatto. L’applicazione di tali principi nel caso di specie porta ad osservare l’esistenza di una connessione temporale fra i due procedimenti penale e disciplinare , entrambi avviati nell’anno 2013, nonché la complementarietà delle finalità dai medesimi perseguite seppur connesse a diversi profili della condotta incriminata. Trattasi, insomma, di un unico sistema che offre risposte giuridiche che si completano reciprocamente senza che le sanzioni fra loro combinate rappresentino un onere eccessivo per il soggetto interessato e sanzionato. Le due sanzioni, quella penale e quella disciplinare, sono quindi misure complementari, ma rivolte al soddisfacimento di finalità sociali differenti, che nel loro complesso determinano una sanzione penale integrata che, da un lato, appare prevedibile e dall’altro del tutto proporzionata rispetto al disvalore del fatto. Ne consegue, stante l’infondatezza anche degli altri minori motivi, la declaratoria di inammissibilità del ricorso .

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 dicembre 2020 – 9 febbraio 2021, n. 5048 Presidente Diotallevi – Relatore Di Pisa Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 11 Marzo 2019 la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brescia in data 19/02/2018, dichiarava non doversi procedere nei confronti di R.S. in ordine al reato di cui al capo A art. 640 c.p. per difetto di querela ed in ordine al reato di cui al capo B art. 81 cpv c.p., art. 61 c.p., n. 11 e art. 640 c.p. limitatamente ai fatti commessi nel , per intervenuta prescrizione confermava l’affermazione di responsabilità dell’imputata in relazione alle ulteriori condotte contestate al richiamato capo B nonché quelle di cui al capo C art. 81 cpv c.p., art. 61 c.p., n. 2 e 489 c.p. e D art. 81 cpv c.p., art. 61 c.p., n. 11 e art. 640 c.p. rideterminando il trattamento sanzionatorio, e confermava, altresì, le statuizioni civili. 1.1. La corte territoriale rigettava l’eccezione di improcedibilità dell’azione penale per bis in idem ex art. 649 c.p.p. formulata dall’imputata per avere la stessa subito dall’autorità amministrativa preposta all’irrogazione di sanzioni amministrative in ambito assicurativo IVASS un procedimento disciplinare per i fatti oggetto dell’odierno procedimento assumendo che non sussistevano i presupposti sulla base della giurisprudenza Europea per qualificare le sanzioni amministrative e/o disciplinari come penali riteneva che, sulla scorta delle complessive emergenze processuali, risultavano comprovate le condotte truffaldine e di falso contestate. I giudici di appello, nel confermare la ricostruzione operata dai giudici di primo grado, assumevano, in particolare, che sussisteva la dimostrazione che l’imputata, attraverso meccanismi fraudolenti, aveva proceduto alla stipula di contratti assicurativi con classe di rischio inferiore rispetto a quella reale così da arrecare un ingiusto vantaggio ai beneficiari-contraenti, lucrando sulle provvigioni, ed un danno per la compagnia assicurativa pari alla differenza fra il premio dovuto e quello minore pagato e che la stessa, attraverso ulteriori raggiri, aveva stipulato numerosi altri contratti assicurativi secondo una scontistica non applicabile. 2. Avverso la suddetta sentenza l’imputata, a mezzo difensore di fiducia, propone ricorso per Cassazione deducendo i seguenti motivi a. violazione dell’art. 649 c.p.p., in riferimento ai capi B e D dell’imputazione, assumendo l’improcedibilità dell’azione penale in quanto l’imputata era già stata destinataria di sanzioni applicate dall’autorità amministrativa all’esito di un procedimento disciplinare relativo agli stessi fatti, sanzioni aventi natura penale b. violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei reati di cui ai capi B e D . Deduce che la corte di appello aveva, in modo erroneo, ritenuto che la compagnia assicuratrice aveva subito un pregiudizio per effetto delle condotte dell’imputata che, quale sub-agente della B.L. Service di B.G. s.a.s. titolare dell’Agenzia Unipol Assicurazioni di , aveva provocato l’incameramento da parte della predetta assicurazione di premi assicurativi inferiori rispetto a quelli prestabiliti, pur difettando la prova di un danno subito dalla compagnia la quale, per effetto della condotta dell’imputata, aveva finito per introitare maggiori somme legate al maggior numero di contratti stipulati dalla imputata in ragione della scontistica proposta c. omessa pronunzia in ordine alla chiesta revoca delle statuizioni civili. Assume che la corte di merito aveva omesso di esaminare le specifiche censure riguardanti la insussistenza del danno in capo alla compagnia assicuratrice e la quantificazione della provvisionale. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato. 2.1. La censura proposta con tale motivo attiene della violazione dell’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 4, prot. 7 CEDU, sostenuta dal riferimento alle sanzioni amministrative applicate per gli stessi fatti nei confronti della ricorrente ai sensi del D.Lgs. n. 209 del 2005. Si tratterebbe, secondo la difesa, di sanzioni particolarmente afflittive, e come tali di natura sostanzialmente penale, con la conseguenza che sarebbe illegittima la duplicazione punitiva espressa nel parallelo giudizio penale. In tale senso si richiamano i principi fissati dalla la sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella causa Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014, la cui portata non sarebbe incisa dalla successiva sentenza della Grande Camera della CEDU del 15/11/2016 emessa in caso A e B contro NORVEGIA, che avrebbe formulato indirizzi di segno differente valevoli soltanto per la specifica materia tributaria oggetto di quel procedimento. Viene assunto, altresì, che nella specie difetterebbe una stretta connessione temporale e sostanziale fra i due procedimenti con la conseguenza che, secondo la giurisprudenza della CEDU, non poteva operare un doppio binario sanzionatorio. 2.2. Va precisato che le argomentazioni comuni dei giudici di merito relativamente all’esclusione del bis in idem con riferimento ai fatti sanzionati in via amministrativa dall’IVASS appaiono, nel loro complesso, corrette in diritto e pienamente condivisibili. Il primo giudice ha valorizzato la tenuità della sanzione amministrativa prevista per le infrazioni amministrative contestate all’imputata e, viceversa, la evidente differenza con le pene edittali previste per i reati ascritti, per escluderne la sostanziale natura penale. Tale opzione interpretativa appare condivisibile nella misura in cui le sanzioni amministrative irrogate per le violazioni del Regolamento ISVAP n. 5/06 e del D.Lgs. n. 209 del 2005 non appaiono avere una natura sostanzialmente penale ai sensi dell’art. 6 CEDU in quanto non presentano un grado di afflittività assimilabile a quello proprio delle sanzioni penali, non potendo certo assimilarsi la sanzione della radiazione peraltro non perpetua ad una pena detentiva. Sulla distinzione della sanzione penale rispetto a quella disciplinare per violazione degli obblighi riguardanti una determinata categoria professionale va segnalato come la Cassazione civile ha avuto modo di precisare che in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti nella specie, notaio , in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del ne bis in idem , - secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia - in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale. Sez. 2 -, Sentenza n. 2927 del 03/02/2017, Rv. 643161 - 01 . La corte d’appello ha condiviso le considerazioni del primo giudice richiamando, altresì, in modo pienamente condivisibile, alcune decisioni di legittimità che affermano l’insussistenza dei presupposti dell’art. 649 c.p., anche ove ritenuta la sostanziale natura penale della sanzione amministrativa, quando i due procedimenti, penale ed amministrativo, presentino aspetti di complementarità e connessione sostanziale e temporale tale da legittimare il doppio binario sanzionatorio. Ed una simile ricostruzione appare in linea con l’orientamento da ultimo ribadito da Cass. Sez. 3, n. 22033 del 07/02/2019 - dep. 20/05/2019, PALMA GIUSEPPE, Rv. 27602301, la quale ha affermato che il divieto di bis in idem , alla luce della giurisprudenza costituzionale e convenzionale, non opera allorquando i diversi procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, in particolare consistendo il primo nel perseguimento di finalità complementari, nella prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, nel grado di coordinamento probatorio tra essi e nella circostanza che, nel commisurare la seconda sanzione, possa tenersi conto della sanzione irrogata per prima, in modo da evitare un eccessivo carico sanzionatorio per il medesimo fatto. Ritiene la Corte che, al fine di affrontare la questione in esame, sia indispensabile muovere dai principi stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza 24 gennaio 2018, n. 43, con la quale ha deciso nel senso della restituzione degli atti al giudice rimettente per nuovo esame dello jus superveniens Europeo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. - per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4, Prot. 7 CEDU, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo - nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi protocolli ed è stata evidenziata la portata decisiva della sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, costituente diritto vivente Europeo con la quale la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute . La sentenza da ultimo indicata, com’è noto e come evidenzia lo stesso ricorrente, ha introdotto un nuovo parametro da considerare nella valutazione circa il rispetto del divieto di cui all’art. 4, Prot. 7 Cedu quello della connessione sostanziale e temporale fra i diversi procedimenti concernenti l’idem factum. Se prima, infatti, la sentenza definitiva in uno dei due procedimenti segnava, in maniera netta, il momento a partire dal quale il protrarsi del procedimento ancora pendente costituiva una violazione del ne bis in idem convenzionale, ora una tale violazione si presenta come meramente ipotetica. Ed, anzi, si è ritenuto di dover escludere la violazione in questione quando i due procedimenti - pur procedendo separatamente e concludendosi in momenti diversi - risultino tra loro strettamente connessi, sia dal punto di vista materiale che da quello temporale. E la medesima Corte di Strasburgo ha individuato alcuni criteri che il giudice può adoperare al fine di indagare la sussistenza di una tale connessione - se i procedimenti previsti per la violazione abbiano scopi differenti, e abbiano ad oggetto - non solo in astratto ma anche in concreto - profili diversi della medesima condotta antisociale - se la duplicità dei procedimenti sia una conseguenza prevedibile della condotta - se i due procedimenti siano condotti in modo da evitare per quanto possibile ogni duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova, in particolare attraverso una adeguata interazione tra le varie autorità competenti in modo da far sì che l’accertamento dei fatti in un procedimento sia utilizzato altresì nell’altro procedimento - e, infine, se la sanzione imposta nel procedimento che si concluda per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena § 133 . La Corte di Strasburgo ha precisato inoltre - riprendendo una distinzione già formulata in Jussila c. Finlandia a proposito del diritto all’equo processo ex art. 6 CEDU - che il rischio di un bis contrario alla garanzia convenzionale sarà tanto meno rilevante in quanto il procedimento amministrativo concerna illeciti estranei al nucleo duro del diritto penale, e pertanto non associati ad alcun particolarmente significativo stigma sociale mentre sarà destinata ad accentuarsi laddove il procedimento amministrativo assuma in concreto cadenze stigmatizzanti simili a quelle del processo penale § 133 . Orbene la Corte Costituzionale, con la citata pronunzia, nel rilevare che la rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trovava applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificavano come amministrative, aveva creato non poche difficoltà presso gli Stati che avevano ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, dal momento che la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem ha osservato che la Corte EDU, per temperare l’inconveniente, aveva enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto sufficiently closely connected in substance and in time , attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. Al contempo, si dovrà valutare anche se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto . Ha precisato che, sulla scorta di tali principi, Il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una close connection è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro . Inoltre, afferma la C. Cost. neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante Ha, quindi, puntualizzato il carattere fortemente innovativo che la regola della sentenza A e B contro Norvegia aveva impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem, precisando che si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena in senso convenzionale complessivamente irrogata . Ha chiosato, infine, concludendo come la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende meno probabile l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali . Va, dunque, osservato, muovendo dalle superiori coordinate ermeneutiche, che i motivi di censura, peraltro assai genericamente prospettati, non colgono in alcun modo nel segno. È innegabile nel caso in esame la sussistenza di una connessione temporale dei due procedimenti nei termini richiesti dalla Corte di Strasburgo , entrambi avviati nel 2013 ancorché decisi ma non vi è prova che quello amministrativo sia stato definito in modo irrevocabile in tempi diversi. Corretto appare il richiamo alla complementarità dei due procedimenti, in quanto i diversi procedimenti in questione perseguano finalità fra loro complementari, connesse a profili diversi della condotta. Come rilevato dalla Procura Generale, nelle note conclusive, i due procedimenti fanno, infatti, parte di un unico sistema che offre risposte giuridiche che si completano reciprocamente di fronte ad alcuni comportamenti socialmente inaccettabili, per mezzo di varie procedure che formano un insieme unitario e coerente, al fine di affrontare, nei diversi suoi aspetti, il fatto in questione, la tutela del patrimonio da un lato, il corretto esercizio dell’attività assicurativa dall’altra senza che le sanzioni fra loro combinate rappresentino un onere eccessivo per il soggetto interessato e sanzionato. La giurisprudenza comunitaria ha, del resto, lasciato ai giudici nazionali tali valutazioni e la corte d’appello bresciana ha ritenuto, in modo lineare, l’inesistenza del divieto tenuto conto del diverso scopo perseguito dai due procedimenti nel sanzionare medesime condotte, della prevedibilità del doppio giudizio da parte dell’imputata, della proporzione complessiva della pena inflitta, del collegamento cronologico, di cui si è già detto e, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, dall’assenza di duplicazione nella raccolta probatoria in realtà solo genericamente prospettata e, infine, dell’appartenenza delle fattispecie in oggetto al nucleo centrale del diritto penale e, dunque, caratterizzate da forme accentuate di stigma sociale. Non è, pertanto, ravvisabile la violazione del ne bis in idem previsto dall’art. 4, prot. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, nella causa A e B ci Norvegia del 15 novembre 2016, trattandosi di misure complementari, dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, che determinano una sanzione penale integrata prevedibile e nel suo complesso del tutto proporzionata al disvalore del fatto. 3. Il terzo motivo è generico, aspecifico e, comunque, manifestamente infondato. Occorre premettere che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante , su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo per cui sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, 0., Rv. 26296501 . Rileva la Corte che, nella fattispecie, in esame i giudici hanno ricostruito la condotta truffaldina di cui ai capi B e D dell’imputata la quale anche utilizzando documentazione falsa ha stipulato, quale sub agente della B.L. Service s.a.s di G.B. titolare dell’Agenzia omissis s.p.a., contratti secondo condizioni e con una tipologia di sconti non autorizzati, provocando un pregiudizio della compagnia assicuratrice che ha percepito, per come ricostruito dai giudici di merito, premi assicurativi inferiori rispetto a quelli previsti. La tesi difensiva secondo cui, in realtà, la compagnia assicurativa non avrebbe subito alcun danno ma piuttosto un profitto in ragione del numero maggiore di polizze stipulato non coglie in alcun modo nel segno a parte che la stessa difesa prospetta una tale evenienza in via meramente ipotetica, trattasi di una mera allegazione finalizzata ad una ricostruzione alternativa della vicenda, certamente preclusa in questa sede. Muovendo da tali considerazioni non può che rilevarsi la manifesta infondatezza di tutte le censure mosse con il secondo motivo in forza delle quali la ricorrente contesta una violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza della condotta di truffa aggravata continuata contestata, reato i cui elementi costitutivi sono stati correttamente individuati dai giudici di merito con una motivazione che non appare nè carente nè illogica nè contraddittoria. 4. Per quanto concerne la contestazione relativa al difetto di prova dei danni subiti dalla parti civili va considerato che ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, quale quella in esame, non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria juris da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 27038601 . Va, poi, precisato non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento. Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019 - dep. 05/11/2019, TUCCIO GAETANO, Rv. 27777302 . Dai superiori principi discende la totale infondatezza delle censure formulate con il terzo motivo afferenti le statuizioni relative alla condanna generica al risarcimento del danno ed al pagamento di una provvisionale. 5. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila. 5.1. L’imputata va, poi, condannata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili B.G. , anche nella qualità di legale rappresentante della B.L. Service s.a.s di G.B. e da omissis s.p.a. liquidate, per ciascuna parte, in complessivi Euro 3.510,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l’imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili B.G. , anche nella qualità di legale rappresentante della B.L. Service s.a.s di G.B. e omissis s.p.a. che liquida per ciascuna parte in complessivi Euro 3.510,00, oltre accessori di legge.