“Riferirò tutto al Prefetto e al Questore”: condannato il sindaco per le parole rivolte al carabiniere

Sanzionato, assieme al primo cittadino, anche un dirigente del Comune. Inequivocabile, secondo i Giudici, il senso delle parole rivolte al militare dell’Arma. In particolare, la posizione istituzionale del sindaco e le conoscenze altolocate da lui vantate costituiscono mezzi certamente idonei a incutere il timore di rappresaglie.

Condannato il sindaco che si gioca la carta della posizione istituzionale con annesse conoscenze altolocate per provare a intimorire, in strada, un carabiniere che aveva osato” fermare una persona di sua conoscenza – un dirigente del Comune – per chiedergli i documenti e identificarlo Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 29111/20, depositata oggi . Scenario della vicenda – tipicamente italica – è un piccolo paese in Puglia. In strada un uomo – dirigente comunale – viene fermato da un carabiniere vestito con l’uniforme di ordinanza che gli chiede i documenti per provvedere alla sua identificazione. La sua reazione è violenta il dirigente aggredisce verbalmente il militare dell’Arma, lo ingiuria ripetutamente e, infine, gli rivolge la frase stai attento a quello che fai, perché stai solo abusando della divisa che indossi adesso ti faccio vedere chi sono io”. A dare manforte al dirigente arriva casualmente anche il sindaco. Pure quest’ultimo si rivolge in malo modo al carabiniere tu non sai chi sono io io sono il sindaco e tu non prendi i documenti da nessuno. Tu non sei in servizio e stai solo facendo abuso della divisa che indossi. Devi vergognarti e se non la smetti di farmi perdere tempo adesso ti arresto sono nelle possibilità di farti arrestare perché stai abusando della divisa. Riferirò tutto al Prefetto e al Questore di come ti sei comportato. Stai scherzando col fuoco. Il tuo è un abuso e se non la finisci ti arresto. Arresto te e ho il potere di arrestare altri dieci carabinieri”. A fronte dei dettagli dell’episodio, i Giudici di merito ritengono colpevoli entrambi, condannati, sia in Tribunale che in Corte d’appello, per il reato di minaccia . I due esponenti del Comune decidono di portare la questione in Cassazione, ma si rivela una scelta pessima, poiché per entrambi viene confermata la condanna , così come pronunciata in Appello. Per i Giudici del Palazzaccio, difatti, sono assolutamente corrette le valutazioni compiute in secondo grado, laddove si è esplicitato il senso delle parole pronunciate dai due imputati sotto processo, ossia il fatto che il carabiniere avrebbe dovuto temere il potere politico e le conoscenze personali da essi vantate Inequivocabili, difatti, le frasi pronunciate all’indirizzo del militare dell’Arma. Innanzitutto, il dirigente comunale ha attribuito al carabiniere un indebito uso della divisa e ha preannunciato azioni nei suoi confronti, dal contenuto vago e indistinto, ma non per questo indifferente per il diritto , facendosi riferimento, difatti, a possibili ritorsioni certamente illegittime , poiché il carabiniere non stava affatto abusando del suo ruolo, anzi, stava facendo il suo dovere . Per quanto concerne la posizione del sindaco, va escluso, checché ne dica il difensore, il tono disinvolto e il carattere scherzoso delle espressioni da lui utilizzate all’indirizzo del carabiniere. Decisiva la ricostruzione dell’episodio. Così è stato possibile valutare il comportamento tenuto dal sindaco, osservando che egli non si era limitato a minacciare di arresto il carabiniere, ma aveva rappresentato la possibilità di far intervenire, contro di lui, un altro sindaco e un Prefetto con i quali aveva un appuntamento . Ci si trova di fronte a una rappresentazione che non aveva nulla di scherzoso o di burlesco, ma, date le circostanze, prefigurava effettivamente interventi astiosi – da attuare presso autorità superiori – nei confronti del carabiniere e idonei, come tali, a turbarne la tranquillità , osservano i Giudici della Cassazione. Da respingere, infine, anche l’ipotesi – fatta balenare dalla difesa – della impossibilità del reato , giacché la posizione istituzionale del sindaco e le conoscenze altolocate da lui vantate costituiscono mezzi certamente idonei a incutere il timore di rappresaglie , e ciò indipendentemente dal possesso della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e del connesso potere di arresto .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 10 settembre – 21 ottobre 2020, n. 29111 Presidente Palla – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Trani, quale giudice d'appello, ha confermato la sentenza di prima cura, che aveva condannato Di Ba. An. a pena di giustizia per il reato di cui all'art. 612 cod. pen. per avere, nel corso di un controllo su strada, minacciato il carabiniere Mo. Gi. - che, vestito con l'uniforme d'ordinanza, gli aveva chiesto i documenti - dicendogli, dopo averlo ingiuriato stai attento a quello che fai perché stai solo abusando della divisa che indossi adesso ti faccio vedere chi sono io . Con la stessa sentenza è stata confermata la condanna, anche in questo caso per minaccia, di Di Tu. Ni., sindaco di Spinazzola, il quale, trovandosi di passaggio e avvicinatosi, nel contesto sopra descritto, a Di Ba. e Mo., aveva preso le difese del primo e detto al carabiniere Tu non sai chi sono io io sono il sindaco di Spinazzola e tu non prendi i documenti da nessuno. Tu non sei in servizio e stai solo facendo abuso della divisa che indossi. Devi vergognarti e se non la smetti di farmi perdere tempo adesso ti arresto sono nelle possibilità di farti arrestare perché stai abusando della divisa. Riferirò tutto al prefetto Sessa e al Questore di come ti sei comportato. Stai scherzando col fuoco. Il tuo è un abuso e se non la finisci ti arresto. Arresto te e ho il potere di arrestare altri dieci carabinieri . 2. Contro la sentenza suddetta ha presentato ricorso per Cassazione il difensore di Di Ba. An. dolendosi - sotto il profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale - del fatto che il Tribunale di Trani abbia sovrapposto la propria valutazione a quella del primo giudice, invece di accertare se questi abbia esaminato tutti gli elementi a disposizione, se abbia fornito una corretta interpretazione di stessi, dando una convincente risposta alle deduzioni delle parti inoltre, del fatto che il Tribunale abbia travisato la prova, facendo dire a Di Ba. che Mo. avrebbe dovuto temere il potere politico e le conseguenze personali da esse vantate . Con altro motivo si duole della ritenuta sussistenza del fatto, dacché l'espressione attribuita all'imputato sarebbe priva di efficacia minatoria, come già statuito in plurime pronunce di questa Corte. 3. Ricorso per cassazione è stato proposto anche da Di Tu., attraverso il medesimo difensore, dolendosi anch'egli del fatto che il Tribunale avrebbe - illegittimamente - sovrapposto la propria valutazione a quella del primo giudice ed avrebbe travisato la prova, attribuendo a Di Tu. fatti da questi mai commessi il Di Tu., infatti, non si era mai rifiutato di esibire i documenti che non gli erano mai stati richiesti e non ha mai intimato a Mo. di avere timore del potere politico . Con altro motivo contesta anch'egli il tenore minatorio delle frasi a lui attribuite, che erano stata pronunciate con tono disinvolto e scherzoso , al fine di ridimensionare i fatti . Si sarebbe trattato, oltretutto, di reato impossibile, posto che il sindaco di Spinazzola non era e non è ufficiale di polizia giudiziaria e non ha il potere di arrestare nessuno. Considerato in diritto Entrambi i ricorsi sono inammissibili. 1. Il primo motivo di entrambi i ricorrenti è manifestamente infondato. Il giudizio di appello - proprio perché costituisce revisio prioris instantiae - attribuisce al giudice d'appello il compito di riesaminare l'intero materiale probatorio e di sovrapporre la propria valutazione a quella del giudice di primo grado, senza doversi limitare ad accertare se la motivazione offerta da quest'ultimo sia corretta e se questi abbia compiutamente e razionalmente utilizzato il materiale probatorio a sua disposizione. La diversa opinione dei ricorrenti si riferisce, all'evidenza, al giudizio di cassazione ed è, pertanto, totalmente errata. 2. Il Tribunale non ha - in nessun passo della motivazione - attribuito a Di Ba. o a Di Tu. frasi diverse da quelle riportate in imputazione, né alcuna della frasi riportate in ricorso. Riferendosi al fatto che Mo. avrebbe dovuto temere il potere politico e le conoscenze personali da essi imputati, ndr vantate il Tribunale ha, all'evidenza, esplicitato il senso delle parole pronunciate da Di Ba. e Di Tu., al fine di chiarire quale fosse il contenuto della minaccia giuridicamente rilevante non ha travisato i fatti né la prova, avendo elaborato il proprio giudizio sulla base di quanto effettivamente detto, nell'occasione, dagli imputati. Anche questo motivo di ricorso è, pertanto, manifestamente infondato. 3. E' vero che il carattere minatorio di un'espressione va valutato in relazione al contesto in cui è stata proferita. Tanto è stato correttamente fatto dai giudici di merito, avendo essi apprezzato tutte le circostanze del fatto e le qualità personali degli interessati, giungendo ad una conclusione che non ha niente di illogico o di illegittimo. a Di Ba. non si è affatto limitato alla pronuncia dell'espressione riportata in ricorso adesso ti faccio vedere chi sono io . La frase a lui attribuita, e per cui è stata pronunciata condanna, è più articolata e assai meno vaga stai attento a quello che fai perché stai solo abusando della divisa che indossi adesso ti faccio vedere chi sono io . Con tale espressione Di Ba., oltre ad attribuire a Mo. un indebito uso della divisa, preannunciava azioni nei suoi confronti, dal contenuto vago e indistinto, ma non per questo indifferente per il diritto, perché lasciava intravedere ritorsioni certamente illegittime, atteso che Mo. non stava affatto abusando del suo ruolo anzi, stava facendo il suo dovere il che rappresenta, per qualsiasi persona, la prospettazione di un male idoneo a suscitare apprensione più o meno intensa, a seconda della impressionabilità o ricettività del destinatario, ma comunque reale per la carica di violenza in essa insita. Inconferente, pertanto, è la giurisprudenza richiamata dal ricorrente, che non ha affatto escluso il rilievo penale dell'espressione - peraltro amputata -riportata in ricorso, essendosi limitata a rappresentare la necessità di contestualizzarla e di interpretarla in relazione alle effettive intenzioni dell'agente. b Il tono disinvolto e il carattere scherzoso delle espressioni di Di Tu. sono caratteristiche assertive e congetturali delle frasi a lui addebitate, che la Corte di appello ha disatteso attraverso una diversa ricostruzione dell'accaduto e col valutare negativamente il comportamento dell'imputato, il quale non si era limitato a minacciare di arresto il carabiniere, ma aveva rappresentato la possibilità di far intervenire, contro di lui, il sindaco di Andria e il prefetto di Barletta, con i quali aveva un appuntamento . Trattasi di rappresentazione che, secondo ogni logica, non aveva nulla di scherzoso o di burlesco, ma, date le circostanze, prefigurava effettivamente interventi astiosi - da attuare presso autorità superiori - nei confronti del carabiniere e idonei, come tali, a turbare la tranquillità di quest'ultimo. La ragionevolezza della conclusione tratta dalla Corte d'appello è confermata, del resto, dal fatto che l'imputato non ebbe a invocare il carattere scherzoso delle sue espressioni nell'immediatezza del fatto, allorché si rese conto che Mo. non aveva gradito il suo scherzo e, chiamati in ausilio i colleghi, procedette, con questi, a verbalizzare l'accaduto e alle operazioni identificazione. Quanto alla impossibilità del reato, trattasi di deduzione totalmente infondata, giacché la posizione istituzionale del Di Tu. e le conoscenze altolocate da lui vantate costituiscono mezzi certamente idonei a incutere il timore di rappresaglie, indipendentemente dal possesso della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e del connesso potere di arresto. 4. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché — ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 a favore della Cassa delle ammende.