L’errata applicazione della recidiva va specificatamente contestata con l’atto d’appello

Non può essere dedotta per la prima volta in Cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine della declaratoria di prescrizione del reato, in assenza di modifiche legislative o di pronunce della Corte costituzionale che ne abbia modificato in melius la portata precettiva .

Questo il nuovo principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 27256/20, depositata il 1° ottobre. L’assunto pare condivisibile in astratto, poiché se un punto della decisione non viene specificatamente contestato con il gravame, lo stesso dovrebbe sostanzialmente ritenersi assorbito dal giudicato. Purtroppo, però, le questioni sono più complesse ed il troppo semplificare non sempre aiuta nella gestione anche ordinaria della giustizia. Infatti, se si contesta, con i motivi di appello – come avvenuto nel caso di specie -, la penale responsabilità dell’imputato e, in subordine, si chiede una rideterminazione della pena applicabile , è giocoforza concludere che, contestandosi l’ an della responsabilità, si contesti a monte” anche l’applicazione della recidiva. Certamente, la richiesta subordinata di rimodulazione della pena può essere intesa come generica”, ma è nelle prerogative proprie della Corte d’Appello rimodulare la pena e ciò non la esime affatto dal verificare la corretta applicazione di circostanze o della recidiva, salvo che sul punto non si sia effettivamente formato un giudicato effettivo ancorché parziale per esempio, come se si impugnassero solo le pene accessorie statuite in sentenza o l’applicazione di misure di sicurezza . Se poi la questione inerente all’applicazione della recidiva è rilevante per stabile l’intervenuta prescrizione del reato, è oltremodo evidente che in questo contesto non si possa ridurre il tutto a formule di stile o a formalità bizantine. Ciò che lascia perplessi della massima espressa dalla Corte di Cassazione non è tanto l’idea che non si possa dichiarare l’intervenuta prescrizione laddove il gravame sia inammissibile cosa peraltro pacifica ma che in sostanza si trovi una ragione per dichiarare inammissibile un ricorso per non dichiarare l’intervenuta prescrizione. Il salto logico operato dalla Corte di legittimità, nel caso di specie, è molto pericoloso, poiché silenziosamente ha incominciato a porre atipici oneri di allegazione in sede di gravame. Un tempo – in verità non molto lontano – se si contestava l’ an della responsabilità , di per sé ciò significava ciò comunque devolvere alla Corte d’appello ogni questione anche sulla determinazione della pena e ciò per la semplice ragione che l’appello mira ad una rimodulazione nel merito di quanto stabilito dal giudice di primo grado. Per anni e decenni, si è poi affermato che le formalità sempre più stringenti sulle impugnazioni e sui ricorsi per cassazione fossero del tutto ragionevoli ed accettabili, poiché in fondo solo in Italia” vi è un vero e proprio doppio grado di giudizio nel merito. Oggi si assiste sempre più ad una svalutazione della doppia condanna conforme” , assumendo ingiustamente, perché non richiesto dal codice e dalle garanzie anche ordinamentali connesse alla tradizione nostrana che ciò che conta è solo il dato formale di una conferma della prima condanna ma se così è, il secondo” giudizio di merito si trasforma in un giudizio di mera legittimità e non anche in una valutazione effettiva e coscienziosa dei dati processuali. Ciò che emerge dalla lettura della breve sentenza di legittimità cui si tratta è un chiaro indirizzo proteso a ridurre l’appello , anche sul piano sanzionatorio, a primo grado di legittimità ma come si può contestare formalmente” l’applicazione di circostanze aggravanti o chiedere una rivisitazione della sanzione, motivando adeguatamente sul punto specie se la motivazione dell’impianto sanzionatorio è quasi sempre ridotto ai minimi termini e sempre più racchiuso in frasi di stile? E ciò senza considerare che la determinazione in concreto della pena è – del tutto opportunamente – dominata dalla discrezionalità del decidente. L’invocazione alla pietà o, per usare un’espressione cara alla prassi, alla clemenza della Corte” è da sempre l’ultima e più preziosa delle argomentazioni, poiché pone in diretto contatto l’accusato ed il suo giudice, chiedendo a quest’ultimo in qualche modo di immedesimarsi nel primo, immedesimazione da effettuarsi non già sul piano delle responsabilità ma della comune umanità. Un giudizio ed un ordinamento che ritengono preclusa una simile istanza, perché non adeguatamente espressa e circostanziata, sono un giudizio ed un ordinamento puramente formali ed auspicare che ciò sia non è cosa né buona né giusta.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 luglio – 1° ottobre 2020, n. 27256 Presidente Ramacci – Relatore Corbetta Ritenuto in fatto 1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna nei confronti di M.A. , che, ritenuta la contestata recidiva specifica infraquinquennale, aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, in relazione all’omesso versamento dell’1.v.a. per un importo di 298.014 Euro relativamente all’anno di imposta 2010. Fatto commesso il omissis . 2. Avverso l’indicata sentenza, M.A. , per il tramite del suo difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi. 2.1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , per difetto di motivazione. Assume il ricorrente che il Tribunale territoriale avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di declaratoria dell’intervenuta prescrizione, ritenendo sussistente la recidiva, contestata dalla difesa, e fornendo sul punto una motivazione lacunosa. 2.2. Con il secondo motivo si eccepisce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , in relazione agli artt. 157 e ss. c.p., laddove la Corte Territoriale non avrebbe dichiarato la prescrizione del reato, previa esclusione della contestata recidiva specifica infraquinquennale. Assume il ricorrente che la Corte Territoriale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la recidiva sulla base di due precedenti condanne per il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali per fatti che sarebbero depenalizzati, in quanto le ritenute non versate sarebbero inferiore alla vigente soglia di punibilità, come emerge dalla sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa dal G.i.p. del Tribunale di Ravenna il 12 ottobre 2010 e dal decreto penale di condanna del 4 ottobre 200 emesso dal G.i.p. del Tribunale di Ravenna e dalla comunicazione della direzione provinciale dell’I.n.p.s. di Ravenna, documenti tutti allegati al ricorso. 2.3. Con il terzo motivo si eccepisce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , per erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, in ordine all’elemento soggettivo del reato. Assume il ricorrente che la Corte territoriale, nell’affermare che l’imputato non ha posto in essere azioni sfavorevoli per il patrimonio personale al fine di recuperare la liquidità necessaria, pretenderebbe una probatio diabolica, a fronte, peraltro una un’acclarata crisi di liquidità dell’impresa, e considerando che l’imputato, come egli ha dichiarato nel corso dell’esame, ha impiegato la residua liquidità per pagare i dipendenti onde scongiurarne il licenziamento. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. I primi due motivi, esaminabili congiuntamente essendo entrambi diretti alla declaratoria di prescrizione previa disapplicazione della contestata recidiva, sono inammissibili. 3. Va rilevato che il Tribunale, in sede di determinazione del complessivo trattamento sanzionatorio, ha ritenuto e applicato la recidiva specifica infraquinquennale in quanto correttamente contestata p. 4 della sentenza di primo grado . Con l’atto di appello, l’imputato ha contestato l’affermazione della penale responsabilità, chiedendo, in subordine, la riduzione della pena, previo riconoscimento delle circostanza attenuanti generiche, da ritenersi prevalenti sulla contestata aggravante della recidiva. In sede di discussione davanti alla Corte territoriale, la difesa ha chiesto l’accoglimento dei motivi di appello e, in subordine, la declaratoria di prescrizione del reato. 4. Orbene, è pacifico che il tema della disapplicazione della recidiva - a cui è funzionale il diverso e più favorevole computo del termine della prescrizione non sia stato devoluto con i motivi di appello, di talché la relativa violazione di legge non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione, ostandovi lo sbarramento posto dall’art. 606 c.p.p., comma 3, ultimo periodo, a tenore del quale il ricorso è inammissibile se è proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello . 5. Nè può valorizzarsi la circostanza che la difesa, in sede di conclusioni assunte dinanzi alla Corte d’appello, abbia genericamente chiesto la declaratoria di prescrizione, che, nella prospettiva del ricorrente, sarebbe decorsa ma solo previa esclusione della recidiva, il che, come detto, avrebbe dovuto formare motivo di appello, ciò che non è avvenuto. In altri termini, il ricorrente avrebbe dovuto, con i motivi di appello, contestare in maniera specifica i presupposti integranti la contestata recidiva, mediante le produzioni delle pregresse sentenze di condanna ora tardivamente allegate al ricorso, e quindi irricevibili in questa sede. 6. La questione posta dal ricorrente, d’altronde, non rientra tra quelle rilevabili d’ufficio, in quanto non si è in presenza di una pena illegale , perché il ricorrente si limita a contestare il merito della ritenuta recidiva, la cui disciplina non è stata oggetto di modifica in melius da parte di interventi del legislatore ovvero di pronunce della Corte costituzionale. 7. Del resto, questa Corte ha affermato il principio secondo cui l’errore di diritto contenuto nella sentenza di primo grado riguardante le modalità di calcolo della pena, comunque fissata entro i limiti edittali ed in assenza di modifiche normative incidenti sulla determinazione della stessa, non può essere prospettato per la prima volta con ricorso per cassazione, nè è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2, non potendosi ritenere nel suo complesso la pena irrogata all’imputato illegale Sez. 2, Sentenza n. 14307 del 14/03/2017, dep. 23/03/2017, Musumeci, Rv. 269748 . Ciò vale, evidentemente, anche nel caso in cui l’asserito errore concernente la sussistenza della recidiva abbia rilevanza non solo ai fini della determinazione della pena, ma anche, come effetto riflesso, con riguardo al calcolo della prescrizione. 7. Va perciò affermato il seguente principio non può essere dedotta per la prima volta con ricorso per cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine di ottenere la declaratoria di prescrizione del reato, in assenza di modifiche normative o di pronunce della Corte costituzionale che ne abbia modificato in melius la portata precettiva. 8. Quanto, poi, all’omessa motivazione in relazione alla richiesta di prescrizione avanzata dalla difesa in sede di conclusioni, essa è stata evidentemente esclusa dalla Corte territoriale, in quanto, per effetto dell’aumento per la recidiva, il termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data dal omissis , maturerà il omissis . 9. Il terzo motivo è manifestamente infondato, in quanto meramente riproduttivo di una doglianza già rigettata dalla Corte d’appello con motivazione immune da vizi logici o giuridici. 10. La questione della sussistenza del dolo relativamente al delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-tee, va affrontata alle luce delle argomentazioni sviluppate dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità nella sentenza n. 37424 del 28/03/2013, dep. 12/09/2013, Romano. 10.1. Nella motivazione di quell’importante decisione, mai sconfessata sul punto, le Sezioni Unite hanno operato una approfondita disamina dell’elemento soggettivo del delitto in esame par. 6 , osservando che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà non emerge dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, che è punito a titolo di dolo generico, per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all’agente, di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, consapevolezza che deve investire anche la soglia di punibilità, la quale, contribuendo a definirne il disvalore, è un elemento costitutivo del fatto. 10.2. Le Sezioni Unite hanno precisato che la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto. Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già dall’acquirente del bene o del servizio l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del 2006 di non far debitamente fronte alla esigenza predetta . 10.3. Si tratta di un’interpretazione pianamente in linea con quanto costantemente affermato da questa Corte di legittimità in relazione alla fattispecie parallela di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, secondo cui, di regola, non essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all’esigenza predetta Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013 - dep. 13/09/2013, Corlianò, Rv. 257683 . 10.4. Ciò non significa che, in astratto, siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - in cui possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto d’imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 - dep. 15/05/2014, Zanchi, Rv. 259190 Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055 . Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014 Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055 Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, dep. 29/10/2015, Rv. 265262 . 10.5. Nel caso di specie, la Corte territoriale si è attenuta ai principi ora richiamati, correttamente osservando, per un verso, l’assoluta genericità della prova della situazione di sofferenza economica, sorretta non da specifica documentazione ma dalle sole dichiarazioni dell’imputato e della di lui moglie, e, per altro verso, che il M. non ha fornito prova di aver cercato di ovviarvi anche a discapito delle proprie risorse personali, e, in ogni caso, utilizzò la liquidità non per onorare il debito fiscale, bensì per il pagamento della retribuzioni dei dipendenti, di talché si trattò di una scelta libera, e quindi consapevole, che integra il dolo. 11. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000 , alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 Euro in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.