Arresti domiciliari presso la comunità terapeutica: la condotta incompatibile dell’imputato giustifica il ripristino della custodia in carcere

Legittima la decisione del giudice di ripristinare la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’imputato qualora dalla relazione del responsabile della comunità terapeutica presso cui egli si trova in regime di arresti domiciliari emerga una condotta incompatibile con il programma terapeutico per lui predisposto.

Questo l’oggetto della sentenza della Suprema Corte n. 27220/20, depositata il 30 settembre. Il Tribunale del riesame di Catania rigettava l’appello proposto dal difensore dell’imputato avverso l’ordinanza con cui la Corte d’Appello aveva ripristinato nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere in luogo degli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica . Lo stesso difensore propone ricorso per cassazione, lamentando il fatto che il Tribunale abbia fondato la sua decisione solo sulla relazione del responsabile della comunità , non effettuando alcuna indagine circa la veridicità della stessa e senza considerare il brevissimo lasso di tempo in cui l’assistito era stato ospitato nella comunità. La Suprema Corte, ricostruendo i fatti della vicenda, osserva come dalla relazione del responsabile della comunità terapeutica emerga il fatto che il detenuto, fin dall’inizio, aveva mostrato una difficoltà ad accettare le regole , manifestando intenzioni in contrasto con il contesto terapeutico e serbando una condotta globale tale da condurre i Giudici della cautela alla conclusione circa il carattere fortemente strumentale della sua richiesta di inserimento in comunità. Sui suddetti elementi si era fondata la decisione della Corte d’Appello, la quale, tenendo conto dell’ infruttuosità del percorso terapeutico avviato nei confronti dell’imputato, ne aveva tratto quale conseguenza il venir meno del presupposto necessario ai fini della prosecuzione del programma terapeutico. Lo stesso provvedimento, tra l’altro, evidenziava che porre in essere un comportamento che, seppur per breve tempo, fosse rivolto alla sostanziale vanificazione del raggiungimento dell’obiettivo terapeutico è sufficiente a giustificare la valutazione dei giudici di merito relativa alla sua incompatibilità con il programma terapeutico. A seguito delle argomentazioni esposte, gli Ermellini aggiungono che tra gli effetti consequenziali vi è anche quello per cui, nell’eventualità di una nuova domanda di arresti domiciliari comunitari a fine terapeutico, qualora sia stata ripristinata la custodia cautelare in carcere a causa del comportamento del detenuto contrario al programma terapeutico, il giudice, se intende aggravare ovvero sostituire la misura, non è obbligato a valutare preventivamente la presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Per queste ragioni, la Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 – 30 settembre 2020, n. 27220 Presidente Tardio – Relatore Siani Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza in epigrafe, emessa in data 3 giugno 2020, il Tribunale del riesame di Catania ha rigettato l’appello proposto dal difensore di C.S. avverso l’ordinanza emessa il 14 febbraio 2020 dalla Corte di appello di Catania con cui era stata ripristinata nei confronti di C. la misura cautelare della custodia in carcere, ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 e art. 299 c.p.p., in luogo degli arresti domiciliari presso la comunità terapeutica omissis di omissis . Il Tribunale ha posto a fondamento della sua decisione la constatazione della sostanziale incompatibilità del profilo comportamentale di C. con il percorso necessario per la realizzazione del programma terapeutico predisposto ai sensi dell’art. 89 cit 2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore di C. chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a un unico motivo con il quale si denunciano la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 e art. 275 c.p.p. nonché il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi necessari per il ripristino della custodia cautelare inframuraria. La carenza e illogicità della motivazione - sostiene la difesa - scaturisce dal rilievo che il Tribunale si è basato esclusivamente sulla relazione del responsabile della comunità, senza considerare che, dopo la sua ammissione agli arresti domiciliari il 28 settembre 2019, C. di fatto si era recato in comunità soltanto il omissis , in quanto, in precedenza, era stato sottoposto a due interventi chirurgici. Nè, secondo il ricorrente, nell’ordinanza impugnata si rinviene adeguato riscontro della deduzione difensiva inerente all’assenza nella struttura comunitaria degli ambienti asettici di cui egli aveva necessità in tale prospettiva, il comportamento del detenuto domiciliare, atteso anche il tempo molto limitato in cui C. aveva soggiornato nella struttura, sarebbe stato illogicamente ritenuto manipolatorio, mentre avrebbe dovuto accogliersi la sua istanza di trasferimento del luogo di detenzione presso la comunità La Sorgente, di cui era stata acquisita la disponibilità. 3. Con memoria successiva, la difesa di C. ha illustrato ulteriormente la sua doglianza stigmatizzando la scelta della Corte di appello, la quale non aveva effettuato alcuna indagine per verificare la veridicità della relazione posta a base del provvedimento, e criticando la motivazione dell’ordinanza impugnata, che avrebbe riportato in modo apodittico quanto era stato affermato nel provvedimento di ripristino della custodia cautelare, non tenendo conto del brevissimo periodo di tempo in cui l’imputato era stato effettivamente ospitato presso la comunità omissis e della necessità che C. aveva di proseguire il programma terapeutico, come da relazione del responsabile di un’ulteriore comunità, allegata alla memoria. 4. Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione. Considerato in diritto 1. L’impugnazione si profila basata su un motivo in parte aspecifico e in altra parte venato da incursioni nel merito, con sua conseguente inammissibilità. 2. I giudici dell’appello cautelare hanno raggiunto la soluzione avversata da C. valutando in modo adeguato e logico la fattispecie oggetto del loro vaglio nella prospettiva devoluta dalle censure che avevano caratterizzato l’appello. C.S. , imputato in processo pendente innanzi alla Corte di appello di Catania, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, per l’applicazione del programma terapeutico ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89, presso la comunità terapeutica omissis di omissis dal 28 settembre 2019, Il giudice procedente, però, aveva ricevuto successivamente la relazione del 10 febbraio 2020 inviata dal responsabile della comunità terapeutica, atto con il quale - si specifica nel provvedimento qui impugnato - era stato evidenziato che il detenuto, sin dall’arrivo nella struttura comunitaria, aveva mostrato la sua difficoltà ad accettarne le regole, aveva manifestato intenzioni contrastanti con il contesto terapeutico e aveva serbato una condotta complessiva tale da condurre i giudici della cautela alla conclusione del carattere fortemente strumentale della sua richiesta di inserimento in comunità. La relazione aveva indicato gli episodi giustificativi della riportata conclusione negativa, dimostrativi della carenza di motivazione per C. circa la sua ulteriore presenza in comunità. Sulla scorta degli elementi così acquisiti la Corte di appello di Catania preso atto che i comportamenti dell’imputato erano sintomatici dell’infruttuosità del percorso terapeutico avviato, essendo emersa l’inclinazione del detenuto a non osservare le regole correlate a quella specifica misura domiciliare - ne aveva tratto il corollario che era venuto a mancare il presupposto necessario per la prosecuzione del programma e aveva, di conseguenza, proceduto al ripristino della situazione cautelare antecedente mediante la sostituzione della detenzione domiciliare in comunità con la detenzione carceraria. Il Tribunale ha valutato l’appello proposto dalla difesa - secondo cui la Corte di merito si era basata su considerazioni generiche e non aveva tenuto conto dit del fatto che C. , affetto da patologie richiedenti una pulizia rigorosa balanite recidivante e idrocele , si era limitato a rappresentare la sua necessità di assoluta igiene, condizione non assicurata dalla comunità che lo ospitava, ragione per la quale aveva chiesto e chiedeva la sostituzione del luogo di detenzione indicando altra comunità terapeutica, denominata La Sorgente - ha ritenuto di non poter accogliere l’impugnazione e, a ragione, ha evidenziato che il contenuto della relazione smentiva le deduzioni dell’imputato, non trovando alcun riscontro la tesi difensiva che aveva addotto la sussistenza di un contrasto fra la struttura ospitante e il detenuto ospitato inerente all’igiene ambientale, ma emergendo dalla relazione stessa l’incompatibilità della condotta di Calògero con la prosecuzione del percorso terapeutico, essendo da ritenersi corretta la soluzione adottata, in dipendenza dell’oggettiva inconciliabilità dei suoi comportamenti con le finalità sottese alla sua collocazione nella struttura residenziale comunitaria. 3. Le argomentazioni svolte dal Tribunale di Catania, giudice di appello, con la ragionata enucleazione delle ragioni di conferma del ripristino della misura custodiale inframuraria stabilito dalla Corte di appello procedente, non risultano, all’evidenza, incrinate sotto il profilo logico e sotto quello giuridico dalla doglianza che si esamina. Il provvedimento ha sottolineato l’emersa inadeguatezza comportamentale del detenuto domiciliare a svolgere le attività e tenere quelle condotte necessarie per il concreto ed effettivo perseguimento del programma di recupero dalla tossicodipendenza, costituente la ragione per la quale il giudice ad onta del grave titolo di reato per il quale C. era sottoposto a giudizio e in relazione a cui era stata applicata la misura cautelare aveva concesso al medesimo la detenzione domiciliare presso la struttura comunitaria, nel solco di quanto disposto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 serbare, pure per un periodo non lunghissimo, un comportamento volto alla sostanziale vanificazione del perseguimento dell’obiettivo terapeutico, manifestando nei confronti degli esponenti della struttura di accoglienza un atteggiamento di insofferenza generalizzata, e porsi in modo problematico rispetto al doveroso adattamento al contesto comunitario, richiedente il rispetto delle regole che ne determinano il funzionamento, integra una condotta che giustifica la valutazione dei giudici di merito, i quali ne hanno valutato l’essenza come incompatibile con la corretta esecuzione del programma stesso, per i conseguenti effetti ripristinatori della misura inframuraria, ai sensi dell’art. 89, comma 3, cit. Del tutto sfornita di riscontri, oltre che meramente reiterativa delle questioni poste con l’appello e adeguatamente contrastate dal Tribunale nell’ordinanza che si esamina, è la tesi svolta dal ricorrente laddove ha prospettato, in modo chiaramente riduttivo, l’emersione fra lui e gli esponenti della comunità presso cui era detenuto di diversi punti di vista in materia di igiene ambientale. Inoltre - attesa l’accertata incompatibilità della condotta di C. con l’utile perseguimento dell’obiettivo terapeutico a cui era finalizzato il programma restato senza concreta esecuzione - si colloca su un piano ingiustificatamente pretensivo la prospettazione del detenuto, coltivata con ulteriore istanza e visibilmente tesa a paralizzare gli effetti del rilevato comportamento inadempiente, volta all’indicazione di un’altra struttura comunitaria che sarebbe stata disponibile ad accoglierlo è la sua condizione soggettiva, risultata incompatibile con il perseguimento del programma terapeutico, che, come ha determinato il provvedimento ripristinatorio, ha coerentemente precluso la praticabilità della mera sostituzione della struttura di accoglienza. In altri termini, quest’ultima soluzione avrebbe richiesto la persistente compatibilità fra la condotta del detenuto e la concreta esecuzione del programma terapeutico compatibilità, invece, venuta a mancare. Per la stessa ragione risultano fuori centro le considerazioni svolte nei motivi aggiunti contenuti nella memoria successivamente prodotta, in uno alle inconferenti valutazioni tecniche, a cui essa si è richiamata. 4. Deve, quindi, concludersi nel senso che l’ordinanza impugnata risulta conforme al dettato del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 ed è sorretta da una motivazione adeguata e immune da vizi logici, di guisa che il relativo esito risulta incensurabile in sede di legittimità, con gli effetti consequenziali, fra i quali va ricordato quello per cui, in ipotesi di altra domanda di arresti domiciliari comunitari a fine terapeutico, che sia compatibile con il disposto del D.P.R. cit., art. 89, comma 4, siccome è avvenuto il ripristino della custodia cautelare in carcere, per il comportamento del detenuto contrario al programma di disintossicazione cui ha scelto di sottoporsi, il giudice, laddove intenda aggravare la misura o comunque sostituirla, non ha l’obbligo di valutare preventivamente la presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza Sez. 2, n. 49862 del 19/11/2019, Salamac, Rv. 277995 Sez. 4, n. 8057 del 21/12/2011, dep. 2012, Lotito, Rv. 252335 . 5. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento - per i profili di colpa correlati all’irritualità delle impugnazioni Corte Cost., sent. n. 186 del 2000 - di una somma in favore della Cassa delle Ammende nella misura che, in ragione dell’insieme delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro tremila. Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà del ricorrente, segue altresì la disposizione di trasmissione, a cura della Cancelleria, di copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.