Detenzione di stupefacenti: sulla valutazione complessiva e comparativa degli indici di lieve entità

I Giudici di legittimità riprendono una recente sentenza con cui le Sezioni Unite hanno chiarito in modo preciso ed esaustivo come il giudice debba procedere alla valutazione complessiva e comparativa degli indici di lieve entità contenuti nel comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990.

Questo l’oggetto della sentenza della Suprema Corte n. 25044/20, depositata il 4 settembre. La Corte d’Appello di Bari rideterminava, in parziale riforma della pronuncia resa dal Giudice di primo grado, la pena irrogata nei confronti dell’imputato, per avere egli detenuto presso la propria abitazione alcuni grammi di cocaina precisamente, 145 dosi medie singole . L’imputato propone ricorso per cassazione, censurando, tra l’altro, la mancata riconducibilità della sua condotta alla meno grave ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990, per via della qualità e quantità di stupefacente in suo possesso. La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile , richiamando la recente sentenza delle Sezioni Unite sentenza n. 51063/2018 in cui si chiarisce che nella valutazione complessiva e comparativa degli indici di lieve entità oggetto dell’art. 73 citato è necessario abbandonare l’dea che il giudice possa utilizzarli in modo alternativo, riconoscendo o escludendo la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo. Al contrario, sussiste la possibilità che tra tali indicatori si instaurino dei rapporti di compensazione e neutralizzazione tali da consentire un giudizio unitario sull’offensività concreta del fatto, anche quando le circostanze del caso appaiono contraddittorie in tal senso. Le Sezioni Unite proseguono affermando che solo all’esito di una valutazione complessiva degli indici di lieve entità è possibile che uno di essi assuma in concreto valore assorbente tale da non poter essere compensato da uno di segno opposto. Tale valutazione globale dovrà, poi, riflettersi sull’ impianto motivazionale della decisione assunta dal giudice, dovendo egli affermare ovvero negare la tipicità del fatto ai sensi del citato art. 73, provare di aver preso in considerazione tutti gli aspetti normativamente rilevanti e dar conto delle ragioni della ritenuta prevalenza riservata anche ad uno solo di essi. In tale prospettiva, anche l’ elemento ponderale non può essere escluso dal percorso valutativo implicito nella formulazione della disposizione in oggetto, dunque anche la maggiore o minore espressività del dato quantitativo deve essere determinata in concreto nell’ambito di un confronto con le altre circostanze rilevanti in base ai parametri normativi di riferimento. Per tali ragioni, anche la detenzione di pochi grammi di stupefacente, all’esito di una valutazione globale delle altre circostanze, non risulta decisiva al fine di ritenere integrata la fattispecie in questione. Ora, nel caso concreto, il Giudice ha escluso la riconducibilità della condotta del ricorrente nell’ipotesi di lieve entità in base alla valutazione complessiva degli elementi del caso, tenendo conto non solo del quantitativo non minimo di cocaina sequestrata, ma anche del ritrovamento di fogli in cui erano riportati nomi di persone e relativi numeri di telefono, di materiale di confezionamento e di un bilancino elettronico, elementi sintomatici di un’attività di spaccio professionale . Per questi motivi, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 luglio – 4 settembre 2020, n. 25044 Presidente Di Nicola – Relatore Corbetta Ritenuto in fatto 1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale di Foggia all’esito del giudizio abbreviato e appellata dall’imputato, la Corte di appello di Bari rideterminava in tre anni e quattro mesi di reclusione e 12.000 Euro di multa la pena inflitta nei confronti di R.M. , nel resto confermando la pronuncia di primo grado, la quale aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, per avere detenuto presso la propria abitazione gr. 24,22 di cocaina e ulteriori dodici dosi termosigillate del peso netto di gr. 1,78, pari a complessive 145 dosi medie singole. 2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c in relazione all’art. 195 c.p.p., comma 4. Assume il ricorrente che, sulla base di una lettura congiunta degli artt. 61, 62, 63 e 64 c.p.p., e art. 195 c.p.p., comma 4, le dichiarazioni rese dal teste di p.g., in riferimento a quanto verbalmente dichiaratogli dall’indagato in sede di indagini e mai compendiato di alcun verbale, sono affette da inutilizzabilità assoluta, in quanto assunte in palese violazione di legge. 2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , c ed e in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso la riconducibilità del fatto nella meno grave ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, senza tener conto della qualità e quantità di stupefacente, pari a sole 145 dosi, e nemmeno del fatto che il R. abbia reso dichiarazioni autoaccusatorie. 2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c in relazione al ritenuto concorso nel reato. Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ravvisato il concorso del R. nella detenzione dello stupefacente, non avendo indicato alcuna condotta tale da integrare un contributo causale, materiale o materiale, nella realizzazione del reato, trattandosi al più di connivenza non punibile. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato. 3. Si osserva che l’imputato ha chiesto la definizione del processo a suo carico con giudizio abbreviato non condizionato, ossia con un rito a prova contratta, in cui la piattaforma probatoria utilizzabile dal giudice è rappresentata non, come nel giudizio ordinario, dalle prove assunte nel contraddittorio tra le parti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, ma dagli atti di indagine contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero. È perciò inconferente il richiamo, operato dal ricorrente, all’art. 195 c.p.p., comma 4, che pone uno specifico divieto probatorio con riferimento all’esame in sede dibattimentale degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria. 4. Ciò chiarito, il ricorrente con non si confronta con il principio, affermato dalla prevalente e più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell’incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 350 c.p.p., comma 7, purché emerga con chiarezza che l’indagato ha scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione, proprio perché tale norma ne limita l’inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento Sez. 3, n. 20466 del 03/04/2019 - dep. 13/05/2019, S, Rv. 275752 Sez. 2, n. 14320 del 13/03/2018 - dep. 28/03/2018, Basso, Rv. 272541 Cass., Sez. 5, n. 13917 del 16/02/2017 - dep. 22/03/2017, Pernicola, Rv. 269598 Sez. 2, n. 26246 del 03/04/2017 - dep. 25/05/2017, Distefano, Rv. 271148 . 5. Nel caso in esame, la Corte territoriale si è attenuta al principio ora richiamato, evidenziando come il R. , all’atto della perquisizione, spontaneamente e in assenza di ogni forma di coercizione o di sollecitazione, si sia assunto la responsabilità in ordine alla detenzione della droga rinvenuta dagli operanti nella propria abitazione. 6. Il secondo motivo è manifestamente infondato. 7. A dispetto della mutata configurazione giuridica dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, elevata da circostanza attenuante al rango di fattispecie autonoma di reato a seguito delle novelle di cui alle L. n. 10 del 2014 e n. L. 79 del 2014, non sono cambiati i presupposti per la sua applicabilità. In particolare, la fattispecie del fatto di lieve entità è ravvisabile in ipotesi connotate da una minima offensività, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione mezzi, modalità, circostanze dell’azione , con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010 - dep. 05/10/2010, Rico, Rv. 247911 . 8. Recentemente, le Sezioni Unite di questa Corte Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo Ciro hanno chiarito la necessità di procedere ad una valutazione complessiva e comparativa degli indici di lieve entità elencati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sicché occorre abbandonare l’idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo od escludendo, cioè, la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri. Ma allo stesso tempo anche che tali indici non debbano tutti indistintamente avere segno positivo o negativo . Ed invero, va riconosciuta la possibilità che tra gli stessi si instaurino rapporti di compensazione e neutralizzazione in grado di consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie in tal senso . Solo all’esito della valutazione globale di tutti gli indici che determinano il profilo tipico del fatto di lieve entità, è poi possibile che uno di essi assuma in concreto valore assorbente e cioè che la sua intrinseca espressività sia tale da non poter essere compensata da quella di segno eventualmente opposto di uno o più degli altri . Ma, è per l’appunto necessario che una tale statuizione costituisca l’approdo della valutazione complessiva di tutte le circostanze del fatto rilevanti per stabilire la sua entità alla luce dei criteri normativizzati e non già il suo presupposto. Ed è parimenti necessario che il percorso valutativo così ricostruito si rifletta nella motivazione della decisione, dovendo il giudice, nell’affermare o negare la tipicità del fatto ai sensi del T.U. stup., art. 73, comma 5, dimostrare di avere vagliato tutti gli aspetti normativamente rilevanti e spiegare le ragioni della ritenuta prevalenza eventualmente riservata a solo alcuni di essi. Il che significa che il discorso giustificativo deve dar conto non solo dei motivi che logicamente impongono nel caso concreto di valutare un singolo dato ostativo al riconoscimento del più contenuto disvalore del fatto, ma altresì di quelli per cui la sua carica negativa non può ritenersi bilanciata da altri elementi eventualmente indicativi, se singolarmente considerati, della sua ridotta offensività. In tale ottica è opportuno sottolineare come anche l’elemento ponderale - quello che più spesso assume un ruolo centrale nell’apprezzamento giudiziale - non è escluso dal percorso valutativo implicito nella formulazione dell’art. 73, comma 5, come rivela ancora una volta proprio il raffronto dello stesso con la già evocata disposizione di cui all’art. 80, comma 2, T.U. stup In altri termini, anche la maggiore o minore espressività del dato quantitativo deve essere anch’essa determinata in concreto nel confronto con le altre circostanze del fatto rilevanti secondo i parametri normativi di riferimento. Ferma la possibilità che, nel rispetto delle condizioni illustrate, tale dato possa assumere comunque valore negativo assorbente, ciò significa che anche la detenzione di quantitativi non minimali potrà essere ritenuta non ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, e, per converso, che quella di pochi grammi di stupefacente, all’esito della valutazione complessiva delle altre circostanze rilevanti, risulti non decisiva per ritenere integrata la fattispecie in questione . 9. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha fatto buon governo dei principi ora ricordati, avendo escluso la riconducibilità del fatto nell’ipotesi di lieve entità sulla base di una valutazione complessiva degli elementi del caso in esame, rappresentati non solo dal quantitativo non trascurabile di cocaina sequestrata, pari a 145 dosi, ma anche dal rinvenimento di fogli su cui erano riportati nomi di persona con i numeri di telefono, di un bilancino elettronico e di altro materiale da confezionamento elementi ritenuti, in maniera non manifestamente illogica, sintomatici di un’attività di spaccio professionale, quindi incompatibile con la connotazioni del fatto in termini di lieve entità . 10. Va infine rilevato che, ai fini della sussumibilità del fatto nella previsione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 non rileva il contegno collaborativo assunto dall’imputato elemento che esula dai mezzi , dalle modalità o dalle circostanze dell’azione , e che può trovare riconoscimento a livello sanzionatorio, ricorrendone i presupposti, nell’applicazione della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, ovvero, come nel caso in esame, delle circostanze attenuanti generiche. 11. Il terzo motivo è manifestamente infondato. Invero, il R. è stato ritenuto responsabile della detenzione dello stupefacente non a titolo di concorso, ma in proprio, in considerazione del rinvenimento dello stupefacente nella propria abitazione, elemento corroborato delle dichiarazioni autoaccusatorie rese dal R. agli operanti al momento del ritrovamento dello stupefacente. La motivazione addotta dalla Corte territoriale in tema di concorso si giustifica con il fatto che, anche a voler ritenere - come ipotizzato dal ricorrente - che la droga sequestrata fosse di proprietà del fratello del R. , che era con lui presente nell’abitazione al momento dell’intervento della polizia giudiziaria, in ogni caso sarebbe configurabile una responsabilità ex art. 110 c.p., avendo il R. , in ipotesi, custodito la droga per conto del fratello. 12. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000 , alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.