Ottanta persone riunite in preghiera nel negozio locato: dato non sufficiente per parlare di mutamento della destinazione d’uso

Sotto i riflettori il legale rappresentante di un’associazione. Necessario un nuovo giudizio in appello per valutarne meglio la condotta. Per i Giudici il solo dato della presenza di ottanta persone riunite in preghiera il venerdì non è sufficiente per dedurre la sussistenza del requisito che giustifica la richiesta del permesso a costruire.

Ottanta persone riunite in preghiera, all’interno di un immobile utilizzabile come negozio e locato ad un’associazione, non sono sufficienti per ritenere acclarato l’abusivo mutamento della destinazione d’uso Cassazione, sentenza n. 23427/20, sez. III Penale, depositata il 31 luglio . A finire sotto accusa è il legale rappresentante di un’associazione gli viene contestato, in particolare, di avere utilizzato in un Comune lombardo l’immobile, preso in locazione dall’associazione, in modo difforme rispetto alla destinazione d’uso di negozio, adibendolo a luogo di assembramento per la celebrazione di riti islamici, in assenza però del permesso di costruire. In Tribunale l’accusa viene ritenuta priva di fondamento. Di parere opposto, invece, i giudici d’appello, che condannano il legale rappresentante dell’associazione . A dover esaminare la delicata questione è ora la Cassazione, prendendo in esame il ricorso proposto dal rappresentante dell’associazione. In particolare, l’uomo sostiene che non vi era stato aggravio urbanistico poiché non era stato effettuato alcun lavoro , e osserva poi l’associazione usava i locali per tutte le attività sociali, mentre la preghiera pubblica era un’attività secondaria ed occasionale il venerdì . Poi aggiunge che il mutamento della destinazione d’uso dei locali da commerciale ad associazione non era urbanisticamente rilevante, essendo avvenuto senza opere edilizie all’interno della medesima categoria funzionale, ed era consentito dalle norme tecniche di attuazione del piano del governo del territorio predisposto dal Comune. Prima di esaminare la vicenda, però, i giudici della Cassazione richiamano il pronunciamento con cui nel dicembre 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2 e comma 5, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 , spiegando che la disposizione censurata subordinava l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al ‘PAR’ – piano delle attrezzature religiose –, atto separato facente parte del ‘piano dei servizi’, che rappresentava, a sua volta, una novità introdotta dalla stessa legge della Regione Lombardia n. 2 del 2015 che, già in altre occasioni, con la sentenza n. 63 del 2016 e 67 del 2017, aveva affermato che il legislatore regionale poteva incidere sull’urbanistica, ma non poteva introdurre, all’interno di una legge sul governo del territorio, disposizioni ostacolanti o compromettenti la libertà di religione che, in ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, la stessa disciplina urbanistico-edilizia doveva far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non poteva comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo che, quindi, il ‘PAR’ non era di per sé illegittimo, alla duplice condizione del perseguimento dello scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico e della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose . Sulla base di queste coordinate interpretative, i giudici della Consulta hanno osservato che l’art. 72 non rispondeva a tali esigenze, perché prevedeva che le attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica solo per il fatto di avere destinazione religiosa ad esempio una piccola sala destinata alla preghiera privata di una piccola comunità religiosa dovevano essere preventivamente localizzate nel ‘PAR’ e che, del pari, i membri di un’associazione religiosa non potevano riunirsi per esercitare il culto, senza una specifica previsione del ‘PAR’ . Premesso che analoghe limitazioni non erano previste nel nostro ordinamento per locali adibiti ad altri scopi , la Corte Costituzionale ha ravvisato nella norma regionale un’illegittima compressione della libertà di culto, in assenza di una ragionevole giustificazione del perseguimento delle finalità urbanistiche, in violazione degli art. 2 e 3, primo comma e 19 Cost. e ha ricordato poi che l’art. 72, comma 5, stabiliva che il ‘PAR’ doveva essere approvato unitamente al nuovo ‘PGT’ o di una sua variante generale. Ciò comportava che le istanze di insediamento di attrezzature religiose fossero destinate ad essere decise in tempi incerti ed aleatori. Era significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge della Regione Lombardia non solo non esigeva la variante generale al ‘PGT’, ma non richiedeva neppure la procedura di variante parziale, visto che la realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comportava l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed era autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale . Di qui l’incostituzionalità anche dell’art. 72, comma 5 . Dalla Cassazione osservano che il ragionamento della Corte Costituzionale è interessante nella valutazione della vicenda, perché ha stabilito che l’amministrazione non può imporre il ‘PAR’ collegato alla pianificazione del governo del territorio, ed ha ribadito il principio costituzionale della libertà di culto e della laicità dello Stato . Va però tenuto conto che la vicenda che ha coinvolto l’imputato e la sua associazione è molto complessa, perché ha dato luogo, oltre che al presente processo penale, anche ad un processo amministrativo e ad un processo civile , ed è interessante osservare che il giudice civile, chiamato a decidere sulla fondatezza della domanda del proprietario dei locali di risoluzione del contratto di locazione per mutamento della destinazione d’uso, ha escluso il suddetto mutamento ed ha rigettato la domanda. Poi, sul fronte penale, il Tribunale, dato atto che il ricorrente aveva documentato al Comune l’uso conforme dei locali, mentre il Comune non aveva effettuato alcuna verifica e che la questione era oggetto di un giudizio amministrativo, e della decisione del giudice civile, ha escluso il reato ed ha pronunciato l’assoluzione , mentre la Corte di appello ha ribaltato la decisione, pervenendo alla condanna per violazione dell’art. 52, comma 3-bis, legge Regione Lombardia n. 12 del 2005, come introdotto dall’art. 1 della legge Regione Lombardia n, 12 del 2006 . Va tenuto presente che la norma dispone che i mutamenti di destinazione d’uso di immobili , anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire , ma la citata legge è stata abrogata dall’art. 2, comma 1, lett. f della legge Regione Lombardia del 22 febbraio 2010, n. 11. Il successivo art. 3 stabilisce tuttavia che Sono fatti salvi gli effetti prodotti dalle leggi di cui ai commi 1 e 2, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi di cui al comma 1, ove non superate da integrazioni e modificazioni disposte da leggi intervenute successivamente” . Ciò farebbe ritenere che il comma 3-bis sia tuttora vigente. E lo stesso è a dirsi per l’art. 52, comma 2, secondo cui i mutamenti di destinazione d’uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie, purché conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria, sono soggetti esclusivamente a preventiva comunicazione dell’interessato al Comune. Sono fatte salve le previsioni dell’art. 20, comma 1, del d.lgs. 42/2004 in ordine alle limitazioni delle destinazioni d’uso dei beni culturali”, che è stato introdotto dalla legge Regione Lombardia n. 4 del 2008, del pari abrogata dalla legge Regione Lombardia n. 11 del 2010 . Ebbene, per i giudici della Cassazione, è stato trascurato il tema centrale, ossia se vi sia stato o meno mutamento della destinazione d’uso , poiché non si può ritenere sufficiente, come invece fatto in Appello, il dato della presenza di ottanta persone raccolte nella preghiera del venerd ì . Anche perché alla luce della giurisprudenza amministrativa, non basta a configurare il mutamento della destinazione d’uso la semplice riunione in preghiera in un giorno della settimana, poiché di uso incompatibile o difforme può parlarsi se l’attività di preghiera non sia riservata solo ai membri dell’associazione o se il fine religioso rivesta carattere di prevalenza nell’ambito degli scopi statutari o effettivamente perseguiti da parte dell’associazione . In questo caso, invece, il solo dato della presenza di ottanta persone riunite in preghiera il venerdì non è sufficiente per dedurre la sussistenza del requisito che giustifica la richiesta del permesso a costruire . Necessario perciò un nuovo giudizio in Appello per esaminare meglio la vicenda e valutare con attenzione la posizione del legale rappresentante dell’associazione.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 14 gennaio – 31 luglio 2020, n. 23420 Presidente Aceto – Relatore Macrì Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 21 luglio 2017 il Tribunale di Lecco ha assolto Ou. Sy., perché il fatto non sussiste, dal reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. a , D.P.R. n. 380 del 2001, perché, in qualità di legale rappresentante dell'Associazione La Rosa, locataria di un immobile sito in Oggiono, l'aveva utilizzato difformemente alla destinazione d'uso di negozio, adibendolo a luogo di assembramento per la celebrazione dei riti islamici, in assenza del permesso a costruire, in Oggiono il 4 dicembre 2015. Su ricorso del Pubblico ministero, la Corte d'appello di Milano ha condannato il Sy. alle pene di legge, con i doppi benefici. 2. L'imputato presenta cinque motivi di ricorso. Con il primo deduce la violazione di legge in ordine al reato ascrittogli, perché non vi era stato aggravio urbanistico siccome non era stato effettuato alcun lavoro. Con il secondo denuncia la violazione di legge anche in rapporto all'art. 51, legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, alle norme tecniche di attuazione, al piano di governo del territorio di Oggiono. Precisa che l'Associazione usava i locali per tutte le attività sociali, mentre la preghiera pubblica era un'attività secondaria ed occasionale il venerdì. Aggiunge che il mutamento della destinazione d'uso dei locali da commerciale ad associazione non era urbanisticamente rilevante, essendo avvenuto senza opere edilizie all'interno della medesima categoria funzionale. Era consentito dalle norme tecniche di attuazione del piano del governo del territorio di Oggiono. Con il terzo eccepisce il vizio di motivazione e la violazione di legge, poiché l'art. 72 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 era stata oggetto di rinvio alla Corte costituzionale da parte del TAR Lombardia. La Corte territoriale non aveva inteso sospendere il giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale né aveva sollevato una nuova questione. Con il quarto lamenta la violazione di legge poiché la citata legge regionale, nella parte riferita al piano delle attrezzature religiose ed alla necessità della concessione edilizia per i centri culturali, era contraria alla Costituzione ed alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Invoca la sospensione dell'art. 45 D.P.R. n. 380 del 2001. Il decreto penale di condanna risaliva al 24 marzo 2016 ed il Comune di Oggiono aveva effettuato il sopralluogo il 6 maggio 2016, il che implicava che, al momento dell'emissione del decreto penale di condanna, l'azione penale doveva considerarsi sospesa in virtù dell'art. 45 D.P.R. n. 380 del 2001. Considerato in diritto 3. Il ricorso è fondato. 3.1. Con sentenza in data 5 dicembre 2019, n. 254 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 72, comma 2 e comma 5, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, mentre ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 72, comma 1. Con riferimento all'art. 72, comma 2, ha spiegato che la disposizione censurata subordinava l'installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR piano delle attrezzature religiose , atto separato facente parte del piano dei servizi, che rappresentava, a sua volta, una novità introdotta dalla stessa legge della Regione Lombardia n. 2 del 2015 che, già in altre occasioni, con la sentenza n. 63 del 2016 e 67 del 2017 aveva affermato che il legislatore regionale poteva incidere sull'urbanistica, ma non poteva introdurre, all'interno di una legge sul governo del territorio, disposizioni ostacolanti o compromettenti la libertà di religione che, in ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, la stessa disciplina urbanistico-edilizia doveva far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all'ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non poteva comportare l'esclusione o l'eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo che, quindi, il PAR non era di per sé illegittimo, alla duplice condizione del perseguimento dello scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico e della necessità di favorire l'apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose. Sulla base di queste coordinate interpretative, ha osservato che l'art. 72 non rispondeva a tali esigenze, perché prevedeva che le attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica solo per il fatto di avere destinazione religiosa ad esempio una piccola sala destinata alla preghiera privata di una piccola comunità religiosa dovevano essere preventivamente localizzate nel PAR e che, del pari, i membri di un'associazione religiosa non potevano riunirsi per esercitare il culto, senza una specifica previsione del PAR. Premesso che analoghe limitazioni non erano previste nel nostro ordinamento per locali adibiti ad altri scopi, la Corte costituzionale ha ravvisato nella norma regionale un'illegittima compressione della libertà di culto, in assenza di una ragionevole giustificazione del perseguimento delle finalità urbanistiche, in violazione degli art. 2 e 3, primo comma e 19 Cost. Ha ricordato poi che l'art. 72, comma 5, stabiliva che il PAR doveva essere approvato unitamente al nuovo PGT o di una sua variante generale. Ciò comportava che le istanze di insediamento di attrezzature religiose fossero destinate ad essere decise in tempi incerti ed aleatori. Era significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge della Regione Lombardia non solo non esigeva la variante generale al PGT, ma non richiedeva neppure la procedura di variante parziale, visto che la realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comportava l'applicazione della procedura di variante al piano stesso ed era autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale. Di qui l'incostituzionalità anche dell'art. 72, comma 5. 3.2. Il ragionamento della Corte costituzionale è interessante nella valutazione della vicenda che ci occupa, perché ha stabilito che l'Amministrazione non può imporre il PAR collegato alla pianificazione del governo del territorio, ed ha ribadito il principio costituzionale della libertà di culto e della laicità dello Stato. Va ricordato, tuttavia, che la Corte territoriale non aveva inteso sollevare la questione di legittimità costituzionale o aspettare la decisione della questione già sollevata sull'art. 72, poiché irrilevante ai fini del decidere. E di fatti il ricorrente non aveva chiesto al Comune le autorizzazioni imposte dalla legge regionale, con la conseguenza che non si poteva disquisire delle modalità e dei tempi di rilascio del provvedimento amministrativo o valutare l'impatto della citata norma sul procedimento. Correttamente i Giudici di appello avevano quindi ritenuto la questione non rilevante ai fini della decisione. Di fatti, il percorso motivazionale di condanna aveva seguito un'altra via. 3.3. Si deve ulteriormente premettere che la vicenda che ha coinvolto l'imputato e la sua associazione è molto complessa, perché ha dato luogo, oltre che al presente processo penale, anche ad un processo amministrativo e ad un processo civile. E' interessante osservare che il Giudice civile, chiamato a decidere sulla fondatezza della domanda del proprietario dei locali di risoluzione del contratto di locazione per mutamento della destinazione d'uso, ha escluso il suddetto mutamento ed ha rigettato la domanda. Il Tribunale di Lecco in primo grado, dato atto che il ricorrente aveva documentato al Comune di Oggiono l'uso conforme dei locali, mentre il Comune non aveva effettuato alcuna verifica e che la questione era oggetto di un giudizio amministrativo, e della decisione del Giudice civile, ha escluso il reato ed ha pronunciato l'assoluzione. La Corte di appello ha ribaltato la decisione, pervenendo alla condanna per violazione dell'art. 52, comma 3-bis, legge Regione Lombardia n. 12 del 2005, come introdotto dall'art. 1 della legge Regione Lombardia n. 12 del 2006. La norma dispone che i mutamenti di destinazione d'uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire. Sennonché la citata legge è stata abrogata dall'art. 2, comma 1, lett. ffff della legge Regione Lombardia del 22 febbraio 2010, n. 11. Il successivo art. 3 stabilisce tuttavia che Sono fatti salvi gli effetti prodotti dalle leggi di cui ai commi 1 e 2, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi di cui al comma 1, ove non superate da integrazioni e modificazioni disposte da leggi intervenute successivamente . Ciò farebbe ritenere che il comma 3-bis sia tuttora vigente. E lo stesso è a dirsi per l'art. 52, comma 2, peraltro non citato dai Giudici d'appello, secondo cui i mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie, purché conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria, sono soggetti esclusivamente a preventiva comunicazione dell'interessato al comune. Sono fatte salve le previsioni dell'art. 20, comma 1, del D.Lgs. 42/2004 in ordine alle limitazioni delle destinazioni d'uso dei beni culturali , che è stato introdotto dalla legge Regione Lombardia n. 4 del 2008, del pari abrogata dalla legge Regione Lombardia n. 11 del 2010. Orbene, ritiene il Collegio che il tema d'indagine, se vi sia stato o meno mutamento della destinazione d'uso, non sia stato adeguatamente esplorato, perché la Corte territoriale si è limitata a ritenere sufficiente ai fini della decisione il dato della presenza di 80 persone raccolte nella preghiera del venerdì. Come precisato dalla sentenza di questa Sezione n. 36689 del 03/07/2019, Patwery, Rv. 277671-01, alla luce della giurisprudenza amministrativa, non basta a configurare il mutamento della destinazione d'uso la semplice riunione in preghiera in un giorno della settimana, poiché di uso incompatibile o difforme può parlarsi se l'attività di preghiera non sia riservata solo ai membri dell'associazione o se il fine religioso rivesta carattere di prevalenza nell'ambito degli scopi statutari o effettivamente perseguiti da parte dell'associazione. Nel caso citato era stato accertato che il magazzino C/2 era adibito stabilmente al culto religioso, poiché tale era la finalità precipua dell'associazione, erano state realizzate opere per dividere gli spazi ed accogliere separatamente uomini e donne, all'interno vi era il tabellone con gli orari delle preghiere, era stata riscontrata la presenza di 400 persone al momento del sopralluogo. Di qui la conclusione, dopo un'attenta disamina della disciplina del mutamento della destinazione d'uso cui si rinvia, della sicura integrazione della violazione urbanistica, mancando il permesso a costruire. Nel caso in esame, dal solo dato della presenza di 80 persone riunite in preghiera il venerdì non può dedursi la sussistenza del requisito che giustifica la richiesta del permesso a costruire, per i motivi già esposti dalla giurisprudenza amministrativa citata nel precedente di questa Sezione, sicché si rende necessario un accertamento più approfondito e una motivazione particolarmente rigorosa per pervenire alla condanna. A tal fine va disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano