“Mia moglie mi tradisce”: l’accusa è falsa e vale una condanna

Nessun dubbio sulla colpevolezza di un uomo, che ha presentato una denuncia assolutamente falsa nei confronti della coniuge separata. Evidente per i giudici l’offesa arrecata alla reputazione della donna, attribuendole una inesistente relazione extraconiugale.

Guerra totale tra i coniugi ormai in separazione. Pessima idea, però, quella dell’uomo, cioè addebitare alla moglie una inesistente relazione extraconiugale. Legittima la sua condanna per diffamazione Cassazione, sentenza n. 13564/20, sez. VI Penale, depositata il 4 maggio . Dignità. Linea di pensiero comune per i giudici di merito così, prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, l’uomo viene ritenuto colpevole dei delitti di diffamazione e di calunnia in danno della moglie separata , delitti commessi attraverso una regolare denuncia, centrata anche sul presunto tradimento ad opera della consorte. L’uomo prova a ridimensionare la propria condotta, soffermandosi sulla difficile, a suo dire, configurabilità della lesione alla reputazione della persona offesa . Per i giudici della Cassazione, invece, la condanna va confermata senza dubbio. Nessun dubbio, in sostanza, sulla falsità delle accuse formulate dall’uomo nella denuncia a carico della moglie . Logico, quindi, parlare di calunnia derivante dalla formulazione nei confronti della persona offesa di accuse prospettate in termini volutamente diversi da quanto accaduto realmente e dunque non spiegabili soggettivamente sulla base di diversi apprezzamenti del reale . Evidente, poi, la diffamazione subita dalla donna, alla luce dell’ ingiustificato addebito a suo carico di intrattenere una relazione extra-coniugale con un altro uomo , elemento, questo, intrinsecamente idoneo a vulnerare non l’opinione che la persona offesa ha di sé, bensì, oggettivamente, l’apprezzamento da parte della storicizzata comunità di riferimento del complesso dei valori e delle qualità che la vittima esprime, quale dinamica sintesi della sua dignità personale, apprezzamento cui si correla la lesione dell’altrui reputazione, che integra il delitto di diffamazione , concludono i giudici.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 febbraio – 4 maggio 2020, n. 13564 Presidente Costanzo – Relatore Ricciarelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 4/10/2019 la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato quella del Tribunale di Taranto in data 4/7/2018, con cui Se. Em. è stato riconosciuto colpevole dei delitti di diffamazione ex art. 595, comma terzo, cod. pen. e di calunnia ex art. 368 cod. pen. in danno della moglie separata Ma. Ma. Co., commessi attraverso la denuncia presentata in data 4/7/2014. 2. Ha presentato ricorso il Semerano tramite il suo difensore. 2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la Corte aveva omesso di rispettare il canone normativo di cui all'art. 546, comma 1, lett. e cod. proc. pen. nell'approccio alla valutazione della prova della colpevolezza dell'imputato l'insufficienza, contraddittorietà e l'incertezza probatoria e il ragionevole dubbio fondato su elementi specifici erano tali da neutralizzare l'ipotesi accusatoria anche in ordine all'attribuibilità del fatto all'agente sotto i profili oggettivo e soggettivo. 2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla configurabilità dei reati e alla sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo degli stessi, in quanto la Corte, nel ripercorrere gli elementi sui quali aveva fondato la sua valutazione, relativi in realtà a reati separatamente giudicati, aveva omesso specificamente di argomentare in ordine ai reati contestati in questa sede in relazione agli elementi costitutivi loro propri, omettendo fra l'altro di soffermarsi sulla configurabilità della lesione della reputazione della persona offesa. 2.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e carenza di motivazione in ordine alle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, avendo la Corte omesso di valutare i presupposti per la concessione delle attenuanti invocate. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è inammissibile, perché aspecifico e comunque manifestamente infondato. Il ricorrente prospetta che la Corte avrebbe omesso di ricostruire sotto il profilo fattuale e probatorio i reati contestati, seguendo un corretto percorso, conforme alle direttive desumibili dall'art. 546 comma 1, lett. e , cod. proc. pen. Ma in realtà la deduzione non si confronta con la motivazione, che non ha fatto acriticamente leva sull'esito del separato giudizio per maltrattamenti a carico del Se., ma ha esaminato il dato probatorio acquisito nell'ambito del presente processo, alla luce di tutti gli elementi disponibili, e valorizzato i dati probatori a carico, alla luce degli argomenti difensivi, desunti anche dalle dichiarazioni dell'imputato in tal modo la Corte ha sviluppato un'analisi conforme al modello indicato dalla norma processuale, sottolineando la piena attendibilità della persona offesa, suffragata peraltro dalle dichiarazioni confermative del figlio e del fratello, ponendo in rilievo l'insussistenza o l'irrilevanza delle addotte criticità e rilevando per contro l'inidoneità delle dichiarazioni dell'imputato a sorreggere la versione difensiva, potendosi semmai desumere da quelle dichiarazioni ulteriori elementi di conferma della tesi accusatoria. In particolare la Corte ha ampiamente valutato tutti i profili rispetto ai quali erano state prospettate incoerenze o divergenze dichiarative, ricomponendo armonicamente il quadro probatorio, sulla base di un preciso rapporto dialettico tra prove a carico e controargomenti difensivi. Il motivo di ricorso, a fronte di ciò, si limita ad assertive contestazioni, che non si confrontano in alcun modo con gli argomenti utilizzati dalla Corte, che ha ritenuto di confermare la ricostruzione già fornita dal primo giudice in ordine alla sostanziale falsità delle accuse formulate dal ricorrente nella denuncia a carico della persona offesa. 2. Il secondo motivo è parimenti generico e manifestamente infondato. La Corte ha ricostruito i fatti, sulla base del canone epistemologico sopra menzionato, e nel contempo ha dato conto della natura calunniosa delle accuse mosse dal ricorrente alla persona offesa, quale mero strumento di reazione alla denuncia di quest'ultima. Nell'esaminare gli argomenti difensivi, alla luce della ricostruzione già fornita dal primo Giudice, la Corte ha fornito puntuale motivazione in ordine all'infedeltà della versione fornita dall'imputato in merito alla dinamica delle vicende rappresentate nella denuncia del 4/7/2014, a fronte delle smentite rivenienti dalle dichiarazioni della persona offesa e dagli altri testi che avevano accreditato la versione di quest'ultima. Dalla lettura delle due convergenti sentenze di merito risulta la concreta configurazione del delitto di calunnia, derivante dalla formulazione nei confronti della persona offesa di accuse prospettate in termini volutamente diversi da quanto accaduto realmente e dunque non spiegabili soggettivamente sulla base di diversi apprezzamenti del reale. D'altro canto i Giudici di merito hanno inteso ravvisare anche il delitto di diffamazione aggravata, in ragione dell'ingiustificato addebito, mosso alla persona offesa sulla base di una sviata rappresentazione della vicenda, di intrattenere una relazione extra-coniugale con un altro uomo, elemento intrinsecamente idoneo a vulnerare non l'opinione che la persona offesa ha di sé, bensì, oggettivamente, l'apprezzamento da parte della storicizzata comunità di riferimento del complesso dei valori e delle qualità che la vittima esprime, quale dinamica sintesi della sua dignità personale, apprezzamento cui si correla la lesione dell'altrui reputazione, che integra il delitto di diffamazione. 3. Il terzo motivo è inammissibile, in quanto volto a sollecitare, peraltro genericamente, una diversa valutazione di merito, non consentita in questa sede, in ordine alla concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, fermo restando che sul punto la Corte si è espressa, formulando tutt'altro che arbitrariamente un giudizio di immeritevolezza, in assenza di elementi positivamente valutabili, che neppure nel ricorso sono stati concretamente indicati. 4. All'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell'inammissibilità, a quello della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende. Atteso che sia l'imputato sia la parte civile sono ammessi al patrocinio a spese dello Stato, risulta applicabile l'art. 110 D.P.R 115 del 2002, dovendosi porre a carico dello Stato le spese del grado che saranno liquidate in favore della parte civile dalla Corte di appello competente. P. Q. M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende. Pone le spese di rappresentanza della parte civile liquidate a carico dello Stato dalla Corte di appello competente.