Condannato il venditore di vini che indica falsamente sulla confezione la provenienza di origine italiana

Integra il reato di cui all’art. 517 c.p., in relazione all’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino doc italiano, nell’ipotesi in cui il mosto non provenga, diversamente da quanto appare dalla confezione, da vitigni italiani.

Lo ricorda la Corte di Cassazione con sentenza n. 9357/20, depositata il 9 marzo. Il caso. La Corte d’Appello, in accoglimento del gravame proposto dal PM avverso la decisione del GUP all’esito del giudizio abbreviato, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato di cui agli artt. 81 c.p., 110 e 517 c.p.p., perché estinto per intervenuta prescrizione e lo condannava per le residue condotte alla pena di giustizia. In particolare, si contesta all’imputato prodotti recanti nelle confezioni le indicazioni di vini italiani a denominazione di origine protetta, così da ingenerare negli acquirenti la falsa convinzione che si tratta di bevanda composta da mosti di origine italiana. Avverso tale decisione, l’imputato propone ricorso per cassazione sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che i mosti utilizzati per creare i vini non fossero di provenienza italiana e che i nomi contenuti nelle etichette fossero idonei a trarre in inganno l’acquirente sull’origine e la provenienza dei mosti stessi. Falsa indicazione sull’origine italiana. Innanzitutto, occorre sottolineare che l’imputato non ha documentato la provenienza italiana dei mosti utilizzati, ciò non comportando un’indebita inversione dell’onere della prova. Inoltre, i Giudici di legittimità ribadiscono che la fallace indicazione del marchio di provenienza o di origine riportati sui prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra il reato di cui all’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 qualora, attraverso indicazioni false o fuorvianti di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana ovvero integra l’illecito amministrativo di cui al medesimo art. 4, comma 49- bis , qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sull’effettiva origine dei prodotti. E nel caso in esame, il consumatore era stato tratto in inganno nella fase di acquisto sull’origine italiana del mosto. Sulla base di ciò, la S.C. rigetta il ricorso affermando che integra il reato di cui all’art. 517 c.p., in relazione all’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino doc italiano, nell’ipotesi in cui il mosto non provenga, diversamente da quanto appare dalla confezione, da vitigni italiani.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 15 gennaio – 9 marzo 2020, n. 9357 Presidente Ramacci – Relatore Corbetta Ritenuto in fatto 1. Con l’impugnata sentenza, per quanto rileva in questa sede, in accoglimento dell’appello proposto dal p.m. avverso la pronuncia assolutoria resa dal g.u.p del Tribunale di Reggio Emilia all’esito del giudizio abbreviato, la Corte di appello di Bologna dichiarava non doversi procedere nei confronti di G.C. in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 517 c.p., contestato al capo E , relativamente alle condotte poste in essere fino al 31/07/2011, perché estinto per intervenuta prescrizione, e condannava il predetto imputato alla pena di otto mesi di reclusione e ottomila Euro di multa per le residue condotte commesse sino all’agosto 2004. 2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi. 2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e , in relazione all’art. 517 c.p Assume il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto provato che i mosti utilizzati per creare il Wine Kit non fossero di origine italiana, in quanto 1 non esiste alcun canale vincolato attraverso cui il mosto di vino può circolare in Canada, dal momento che, come emerge dal dossier informativo realizzato dalla camera di commercio italiana in Quebec, al Liquor Control Board è riservata la commercializzazione dei vini e degli alcolici, e non anche del mosto 2 se è vero che una parte del mosto, pari al’incirca al 15%, come emerge dall’analisi del fatturato della società, proveniva dalla Keller, non risulta provata la provenienza dell’altro mosto utilizzato dalla Paklab 3 spettava al titolare della pubblica accusa provare le caratteristiche dei mosti acquistati da Paklab da fornitori diversi dalla Keller. 2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , in relazione all’art. 517 c.p Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che i nomi riportati sulle etichette contenute all’interno del kit fossero idonei a trarre in inganno l’acquirente sull’origine e sulla provenienza dei mosti, considerando che le uniche indicazioni che richiamano i prodotti nella scatola di Wine Kit non riguardano il mosto, ma sono costituite da etichette da applicare alle confezioni del prodotto realizzato a cura dell’acquirente. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 2. Per una migliore comprensione della vicenda, va precisato che al G. si contesta la messa in commercio, da parte della ditta canadese Paklab product inc. - società di proprietà e gestita direttamente dalla Rudolf Keller srl, di cui l’imputato era presidente - la messa in commercio di prodotti denominati Wine Kit contenenti mosto, tappi, etichette , recanti nelle confezioni le indicazioni di vini italiani a denominazione di origine protetta quali omissis e numerosi altri , la dicitura vino italiano , le effigi del tricolore italiano e del Colosseo, così da ingenerare negli acquirenti la falsa convinzione che trattasi di bevanda composta da mosti di origine italiana. 3. Ciò posto, il primo motivo, con cui si contesta l’origina non italiana del mosto, è manifestamente infondato. 3.1. Invero, la Corte d’appello ha desunto la prova che i mosti utilizzati per creare il Wine Kit non provenissero da vitigni italiani sulla base della valutazione congiunta da una pluralità di elementi, quali 1 il fatto che l’analisi del fatturato delle società Paklab e Rudolf Keller non ha riscontrato l’acquisto di mosti di vini DOP 2 le etichette recanti le indicazioni dei nomi di vini DOP risultavano commissionate dalla Keller a imprese non solo italiane, ma anche cinesi 3 l’importazione in Canada di mosti di vino può essere effettuata solo tramite monopoli provinciali a tal proposito, non ha pregio il rilevo difensivo secondo cui dal dossier informativo realizzato dalla camera di commercio italiana in Quebec non trattandosi, appunto, di un mero documento a contenuto divulgativo, che, peraltro, nulla dice in ordine alla commercializzazione del mosto. 3.2. A fronte di tali elementi, gravemente indiziari, la Corte territoriale ha evidenziato come l’imputato non avesse documentato la provenienza italiana dei mosti, ciò non comportando un’indebita inversione dell’onere della prova invero, gli elementi indicati dalla pubblica accusa e sopra indicati avrebbero potuto essere confutati dalla prova della provenienza del mosto da vitigni italiani prova peraltro di agevole dimostrazione, ove realmente esistente, che, tuttavia, il ricorrente non ha mai fornito. 3.3. Il motivo, pertanto, si risolve in una rivalutazione del compendio probatorio, che non è ammissibile in sede di legittimità. 4. Il secondo motivo è infondato. 4.1. Va ricordato che, ai sensi della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 c.p. . Tale disposizione precisa inoltre che costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana . 4.2. Questa Corte di legittimità ha affermato che la fallace indicazione del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra a il reato previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o l’uso con modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana b l’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49 bis, della medesima legge qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti Sez. 3, n. 21256 del 05/02/2014 - dep. 26/05/2014, Uberti, Rv. 259721 . 4.3. Nel caso in esame, è di tutta evidenza che il consumatore, nell’acquistare il Wine Kit , fosse tratto in inganno sull’origine italiana del mosto, utilizzato per preparare la bevanda al gusto di vino, in quanto l’indicazione nelle confezioni di vini italiani a denominazione di origine protetta quali omissis e numerosi altri , la dicitura vino italiano , le effigi del tricolore italiano e del Colosseo sono elementi idonei a ingenerare nel consumatore la falsa convinzione dell’origine italiana - non ovviamente del vino ma - del mosto medesimo, utilizzando per la preparazione della bevanda. 5. Va perciò affermato il seguente principio di diritto integra il reato previsto dall’art. 517 c.p., in relazione alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino doc italiano, nel caso in cui il mosto, fornito dal venditore, non provenga, diversamente da quanto desumibile dalla confezione recante l’indicazione di vini italiani, le effigi della bandiera italiana e del Colosseo , da vitigni italiani. 6. Il ricorso, conclusivamente, va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 7. L’ammissibilità del ricorso consente l’instaurazione del rapporto processuale e, di conseguenza, la rilevabilità della maturata prescrizione con riguardo alle condotte commesse fino al 15/07/2012. Nondimeno, si osserva che la Corte territoriale non ha operato alcun aumento per la continuazione, avendo determinato la pena in un anno di reclusione, ridotta per il rito a otto mesi conseguentemente, la dichiarazione di prescrizione delle condotte commesse fino al 15/07/2012 non comporta la necessità di rimodulare il trattamento sanzionatorio, posto che la continuazione non è stata calcolata dalla Corte territoriale nella determinazione della pena. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle condotte commesse fino al 15/07/2012. Rigetta nel resto il ricorso.