Cannabis: numero di piante, quantitativo prodotto e strumenti a disposizione escludono la coltivazione domestica per uso personale

Confermata la condanna per un uomo, punito con un anno di reclusione e 1.400 euro di multa. Evidente per i Giudici la gravità della condotta a lui addebitata. Respinta l’ipotesi di una coltivazione domestica per mero uso personale.

Numero di piante, quantitativo di stupefacente e impiego di strumenti professionali rendono grave la coltivazione domestica della cannabis, rendendo plausibile l’ipotesi che il ‘raccolto’ sia destinato allo spaccio Cassazione, sentenza n. 4666/2020, Sezione Sesta Penale, depositata il 4 febbraio . Piante. Linea di pensiero comune per il GUP del Tribunale e per i Giudici della Corte d’Appello l’uomo sotto processo va condannato per avere violato il Testo unico sugli stupefacenti, avendo coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana . In secondo grado, comunque, la pena viene ridotta a un anno di reclusione e 1.400 euro di multa. Per l’uomo sotto accusa, però, la lettura data dai Giudici è errata. A suo dire va riconosciuta la detenzione della sostanza per uso personale , e in questa ottica spiega in Cassazione che la coltivazione è solo presupposta, perché non sono state rinvenute piantine in crescita ovvero in essicazione ma unicamente sostanza stupefacente che si può solo presumere sia oggetto di essicazione di una precedente coltivazione domestica e aggiunge che il dato quantitativo di per sé non può ritenersi determinante in assenza di comprovate condotte di cessione e spaccio . Commercio. I magistrati della Cassazione ribattono che la coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti è punibile a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica o meno della coltivazione , poiché ciò che conta è che la condotta rechi in sé un nucleo minimo di offensività, anche potenziale . E questa visione va chiarita anche tenendo conto del paletto fissato dalle Sezioni Unite Penali della Cassazione a dicembre del 2019, quando si è stabilito che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente mentre devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore . In questa vicenda, però, ci sono elementi sufficienti, secondo i Giudici, per escludere l'uso personale della sostanza . Il riferimento è in particolare a numero di piante coltivato una parte era già stata asportata e trasferita altrove , apprestamento di strumenti professionali serre fertilizzante sistema di ventilazione , quantitativo di stupefacente prodotto e già predisposto 85 grammi da cui si possono trarre circa 270 dosi , strumenti di confezionamento sacchetti in plastica , tutti elementi, questi, indicativi della finalità di commercio .

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 21 novembre 2019 – 4 febbraio 2020, n. 4666 Presidente Villoni – Relatore Vigna Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Ancona ha confermato nei confronti di Ci. Gi. la condanna del G.u.p. del Tribunale di Fermo in data 29/11/2015, all'esito di giudizio abbreviato, in relazione al reato di cui all'art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90 per avere coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana, riducendo la pena ad anni uno di reclusione ed Euro millequattrocento di multa. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione Ci. deducendo i seguenti motivi 2.1. Violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della detenzione della sostanza per uso personale. La coltivazione è solo presupposta perché non sono state rinvenute piantine in crescita ovvero in essicazione ma unicamente sostanza stupefacente che si può solo presumere sia oggetto di essicazione di una precedente coltivazione domestica. Il dato quantitativo di per sé non può ritenersi determinante in assenza di comprovate condotte di cessione e spaccio. 2.2. Violazione di legge in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche 2.3. Violazione di legge in relazione al principio del ne bis in idem per doppia valutazione della medesima circostanza esistenza di un precedente penale ai sensi dell'art. 62-bis e 133 cod. pen. 2.4. Violazione di legge in relazione all'errore nella determinazione della pena ex art. 442 cod. proc. pen., posto che nella impugnata sentenza la pena base viene indicata in anni uno di reclusione ed Euro duemilacento di multa e la pena finale, all'esito della riduzione per il rito abbreviato, sempre in anni uno di reclusione e in Euro millequattrocento di multa . Laddove si reputi sussistente un errore materiale, dovrà ritenersi insufficiente la motivazione della sentenza in relazione al calcolo della pena. 2.5. Violazione di legge sulla sproporzione tra fatto e pena in ragione della tenuità del fatto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate. 2. Il primo motivo è generico. Costituisce principio consolidato quello secondo il quale la coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti integra il reato di cui all'art. 28, D.P.R. 309/90, a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica o meno della coltivazione. Quel che conta, ai fini dell'integrazione del reato, è che la condotta rechi in sé un nucleo minimo di offensività, anche potenziale cfr., sul punto, Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 23992, secondo cui ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante ricavabile . 2.1. In pendenza del deposito della presente sentenza, questo principio è stato ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, all'udienza del 19 dicembre 2019, che hanno stabilito, con sentenza non ancora pubblicata, che Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore . Il ricorso, quindi, non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato che ha evidenziato, per escludere l'uso personale delle sostanze, il numero di piante coltivato una parte era già stata asportata e trasferita altrove , l'apprestamento di strumenti professionali serre fertilizzante sistema di ventilazione il quantitativo di stupefacente prodotto e già predisposto 85 grammi da cui si possono trarre circa 270 dosi , la presenza di strumenti di confezionamento sacchetti in plastica , tutti elementi ritenuti indicativi della finalità di commercio della condotta. 3. Il secondo motivo è inammissibile posto che il diniego delle circostanze attenuanti generiche è solidamente ancorato a ben evidenziati elementi di segno negativo Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900 , quale il precedente penale a carico dell'imputato e l'assenza di elementi da valutare positivamente. Va ricordato che le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità di delinquere dell'imputato. Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo. Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Anche il giudice di appello - pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante - non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione. Nella fattispecie in esame la Corte di merito, nel corretto esercizio dei potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge - in carenza di congrui elementi di segno positivo - ha dato rilievo ai precedenti penali dell'imputato. 4. Il terzo motivo è manifestamente infondato posto che la Corte di merito ha dato corretta applicazione della regula iuris secondo la quale ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto più volte del medesimo dato di fatto sotto differenti profili e per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem ex plurimis Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, dep. 18/04/2019, M., Rv. 275904 . E', quindi, immune da vizi la motivazione della Corte d'appello che ha fatto riferimento all'esistenza del precedente penale dell'imputato per determinare la pena, peraltro ridotta in appello e per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. 5. I motivi di ricorso sul trattamento sanzionatorio sono inammissibili perché generici e reiterativi, in quanto si limitano a riproporre le doglianze già formulate con l'atto di appello parzialmente accolte dal giudice di secondo grado, che ha ridotto il trattamento sanzionatorio, seppure in misura minore rispetto a quella richiesta, e perché non si confrontano con la motivazione del provvedimento impugnato che, facendo riferimento ai parametri di cu all'art. 132 e 133 cod. pen., ha valorizzato la gravità della condotta e il precedente penale del condannato, riducendo la pena di un terzo rispetto a quella irrogata dal primo giudice. Alla luce di tali considerazioni, risulta inconferente la doglianza indicata nel quarto motivo relativa all'errore materiale, che il ricorrente individua nella incompleta indicazione della pena base anni 1 e mesi 6 di reclusione a fronte della indicazione anni 1 mesi di reclusione , perché, come si è visto, da ciò non deriva alcun errore di diritto o vizio motivazionale nella determinazione della pena, avendo la Corte territoriale sviluppato una specifica motivazione di parziale accoglimento del motivo di appello, nonché ridotto in concreto la pena inflitta dal primo giudice. 6. In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.