Si può configurare la condotta di bancarotta su beni detenuti in leasing?

Qualsiasi manomissione o distrazione del bene detenuto in leasing dall’imprenditore fallito impedisce un accrescimento della massa attiva fallimentare, determinando una lesione all’interesse della garanzia patrimoniale dei creditori art 2740 c.c. e dunque un fatto di bancarotta patrimoniale.

La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento sentenza n. 47581/19, depositata il 22 novembre ha riaffermato la rilevanza come condotta di bancarotta di qualunque condotta distrattiva su beni posseduti dall’imprenditore a titolo di leasing, pur essendo la proprietà di detti bene della società concedente. La distrazione di un’autovettura. All’origine della pronuncia in commento vi è l’avvenuta distrazione di una autovettura detenuta dall’imprenditore, dichiarato fallito, a titolo di leasing. A seguito del mancato rinvenimento della stessa nell’attivo fallimentare l’imprenditore viene condannato, in primo e secondo grado, per bancarotta fraudolenta per distrazione. Propone ricorso per cassazione la difesa dell’imputato evidenziando come la condotta contestata all’imputato sia stata erroneamente qualificata dai giudici di merito come riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 216 l. fall Evidenzia il ricorrente come non risultasse agli atti mai sporta querela dal proprietario con conseguente non configurabilità del delitto di appropriazione indebita e dall’altro lato come il bene al momento della sentenza dichiarativa di fallimento non fosse di proprietà dell’imprenditore fallito – che ne aveva la sola materiale disponibilità – ma della società che lo aveva concesso in leasing. Ne conseguiva, sempre secondo il ricorrente, che nessun danno risultava arrecato da detta condotta ai creditori del fallimento atteso che la condotta materiale aveva avuto ad oggetto un bene di proprietà di una terza parte. La perimetrazione dell’oggetto materiale della condotta di bancarotta. Come correttamente osservano gli Ermellini nella motivazione della sentenza in commento, la soluzione del caso concreto impone di perimetrare correttamente l’oggetto del delitto di bancarotta per distrazione e quindi chiarire che cosa si intenda per beni appartenenti al fallito” l’art. 216 l. fall. riferendosi all’imprenditore dichiarato fallito parla di suoi beni” in quanto solo i beni rientranti in tale nozione possono essere oggetto di distrazione penalmente rilevante ai sensi dell’art. 216 l. fall Sul punto, osserva la Cassazione, che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che rientrano in detta nozione tutte le cose che siano di proprietà del fallito, compresi i diritti immateriale ed i diritti di credito, mentre restano senza dubbio esclusi tutti quei beni che non siamo mai entrati nel patrimonio dello stesso. E’ stato così escluso che possano essere oggetto di bancarotta beni trasferiti all’imprenditore senza traslatio dominii e che siano dunque entrati nel suo patrimonio solo a titolo precario, in quanto sugli stessi il proprietario vanta un preciso diritto di restituzione, come nel caso di beni ricevuti in comodato, in locazione ovvero in deposito. Detti beni pertanto non possono essere oggetto di bancarotta patrimoniale per distrazione. Altrettanto, osserva la Corte, vale per beni che sono entrati nel patrimonio dell’imprenditore fallito per effetto di un negozio giuridico affetto da invalidità patologica, che, in conseguenza, non ha determinato il trasferimento della proprietà in capo al fallito stesso. Bancarotta e bene acquistato in leasing. Effettivamente l’applicazione di detti principi anche alla ipotesi del leasing rende la questione non di immediata soluzione. Come noto infatti con il contratto di leasing una parte concede all’altra il godimento di un bene, con facoltà per costui di restituirlo al termine prefissato, ovvero di riscattarlo dietro pagamento di una specifica somma residua. Da un lato dunque appare evidente come la proprietà rimanga in capo al concedente, con facoltà, però, per l’utilizzatore di acquistarla alla scadenza del termine. Facoltà che l’utilizzatore eserciterà valutando la residua utilità economica del bene, in rapporto all’ammontare del riscatto. Appare allora evidente che pur non essendo il bene di proprietà del fallito, osserva la Corte, qualunque manomissione da parte del fallito che impedisca l’acquisizione del bene medesimo all’attivo del fallimento determina una compromissione dei diritti esercitabili dal curatore al termine del contratto ed al contempo comporta per la massa attiva il pregiudizio derivante dall’inadempimento delle obbligazioni assunte con il concedente il leasing. Ne consegue, conclude la Corte, che dette condotte sono sussumibili nel delitto di cui all’art. 216 l. f.all La giurisprudenza è peraltro assolutamente consolidata nell’affermare che Integrano il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale le condotte di sottrazione o dissipazione del bene oggetto di contratto di leasing, pur occorrendo la necessità di dimostrare, caso per caso, se la locazione finanziaria abbia in concreto un valore positivo o negativo. Pertanto il mancato rinvenimento della autovettura, anche in presenza di asserita rottamazione - la cui decisione sarebbe spettata esclusivamente alla società di leasing - in uno con la mancata prova, incombente all'imputato, del valore negativo della medesima è sufficiente ad integrare il delitto di bancarotta in dirittoegiustizia.it 2014, 8 gennaio . Detto principio appare assolutamente condivisibile atteso che, come osserva la Corte nella parte motiva della sentenza in commento, se è vero che la proprietà del bene rimane in capo al concedente, è altrettanto vero che l’utilizzatore è titolare del diritto di acquistare il bene alla scadenza del contratto e che tale diritto ha senza dubbio un valore economico la cui distrazione in caso di fallimento integra a tutti gli effetti la condotta di cui al comma 1 dell’art. 216 l. fall La sentenza oggetto di ricorso viene dunque confermata sul punto.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 settembre – 22 novembre 2019, n. 47581 Presidente Pezzullo – Relatore Tudino Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata del 12 maggio 2017, la Corte d’appello di Napoli ha, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Nola del 30 novembre 2011, dichiarato estinto per prescrizione il reato di bancarotta semplice documentale, così qualificato il fatto sub 2 e, esclusa l’aggravante dei più fatti di bancarotta e concessa l’attenuante di cui all’art. 216 cpv. n. 1, ha rideterminato la pena in ordine alla residua imputazione di bancarotta patrimoniale. 2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato con atto a firma del difensore, Avv. Arturo Rianna, articolando tre motivi. 2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge in riferimento alla condotta distrattiva, limitata ad un’autovettura detenuta in leasing e, come tale, inidonea a ledere gli interessi dei creditori e, comunque, improcedibile per mancanza di querela anche ai sensi dell’art. 646 c.p 2.2. Con il secondo motivo, deduce violazione di legge e correlato vizio della motivazione riguardo gli elementi costitutivi del reato, non risultando provata la colpa grave del reato di bancarotta semplice nè l’elemento materiale. 2.3. Il terzo motivo censura l’applicazione delle sanzioni accessorie in misura fissa. Condiderato in diritto I primi due motivi di ricorso sono inammissibili. 1. Sono manifestamente infondate le censure articolate nel primo motivo. 1.1. In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, questa Corte ha affermato, con unanime orientamento, come qualsiasi manomissione di beni, pervenuti all’impresa a seguito di contratto di leasing , che ne impedisca l’acquisizione alla massa, o che comporti per quest’ultima un onere economico derivante dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione, integra il reato poiché determina la distrazione dei diritti esercitabili dal fallimento, con contestuale pregiudizio per i creditori a causa dell’inadempimento delle obbligazioni assunte verso il concedente Sez. 5, n. 21933 del 17/04/2018, Farruggio, Rv. 272992, N. 33380 del 2008 Rv. 241397, N. 9427 del 2011 Rv. 251995, N. 44350 del 2016 Rv. 268469 . Siffatto principio fonda sul rilievo per cui, al fine di verificare l’integrazione della fattispecie distrattiva, ciò che conta è la disponibilità di fatto, in capo all’utilizzatore, dei beni successivamente distratti, considerato che, comunque, la sottrazione del bene comporta un pregiudizio per la massa fallimentare che viene gravata dell’onere economico derivante dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione Cfr. Sez. 5, n. 44350 del 17/06/2016, Guerri, Rv. 268469 . Donde il tema investe la perimetrazione del concetto di beni appartenenti alla società fallita . 1.2. La giurisprudenza di legittimità si esprime, invero, nel senso che in materia di bancarotta fraudolenta, nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrano le cose oggetto del diritto di proprietà, dei diritti immateriali , i crediti, ma non quei beni che non siano mai entrati nel di lui patrimonio. Nella delineata prospettiva, non sono beni dell’imprenditore quelli che sono nella sua limitata disponibilità per averli egli ricevuti a titolo diverso dalla traslatio dominii e che, quindi, non sono mai usciti dal patrimonio del dominus in quanto poiché nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrano solo le cose che abbiano fatto ingresso nel patrimonio di quest’ultimo, non possono essere oggetto delle condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale i beni sui quali il fallito ha un possesso solo precario e il proprietario vanta un diritto alla restituzione, come nel caso di beni ricevuti in locazione, deposito o comodato Cass., Sez. V, n. 13556 del 27/02/2015, Arlati, Rv 262899 . Non è, inoltre, condotta sanzionabile come bancarotta fraudolenta l’atto di disposizione di beni mai entrati nel patrimonio dell’imprenditore, perché a lui pervenuti attraverso un negozio giuridico affetto da anomalia genetica, non idoneo, quindi, al trasferimento della proprietà Sez. V, n. 5423 del 13/01/1997, Panzironi, Rv 207779 , mentre, rispetto al decisivo profilo della ravvisabilità di un effettivo ingresso del bene nel patrimonio dell’imprenditore, sono irrilevanti le vicende funzionali n. 44350 del 2016 Rv. 268469, cit. . Occorre, pertanto, distinguere le ipotesi in cui un bene sia individuabile e reperibile nella sua originaria materialità da quelle dove un atto di disposizione di quel bene abbia comportato 1 ingresso di denaro nel patrimonio dello stesso fallito, la cui spendita o sottrazione alla massa fallimentare può costituire distrazione penalmente rilevante v. Sez. V, n. 4708 del 06/02/1986, Febbo . 1.3. Nel quadro così delineato, si pone il tema della appartenenza patrimoniale del bene acquisito in leasing. Come noto, il leasing, o locazione finanziaria, è il contratto atipico col quale una parte, denominata concedente, dietro corrispettivo di un canone periodico, concede all’altra utilizzatore il godimento di un bene, con facoltà di restituirlo al termine prefissato ovvero di riscattarlo dietro pagamento di una specificata somma residua. Tale essendo la struttura del rapporto giuridico, ne deriva che la proprietà del bene, in pendenza del termine di durata, rimane in capo al concedente e il relativo trasferimento è solo eventuale in quanto dipende dalla scelta dell’utilizzazione, che sarà effettuata in base a una valutazione della residua utilità economica della cosa, in rapporto all’ammontare del prezzo di riscatto . Nondimeno, in caso di successivo fallimento, qualunque manomissione del bene da parte dell’utilizzatore, tale da impedire l’acquisizione del bene alla massa, comporta distrazione non già del bene medesimo, ma dei diritti esercitabili dal fallimento al termine del contratto, determinando altresì per i creditori il pregiudizio derivante dall’inadempimento delle obbligazioni verso il concedente v. sez. 5, n. 33380 del 18/07/2008, Bottamedi, Rv. 241397 Sez. 5, n. 6882 del 08/04/1999, Trifiletti, Rv. 213604 . In tal senso, assume precipuo rilievo la disponibilità di fatto del bene, in quanto in tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing, ai fini della configurabilità del reato in capo all’utilizzatore poi fallito, è necessario che tali beni fossero nella sua effettiva disponibilità, in conseguenza dell’avvenuta consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione, non rilevando la tipologia del contratto di leasing traslativo o di godimento Sez. V, n. 44898 del 01/10/2015, Cantore, Rv 265509 . La configurabilità del reato di bancarotta per distrazione postula, infatti, che i beni non rinvenuti in sede di inventario siano entrati realmente nella sfera patrimoniale della società fallita, di talché possa ipotizzarsi quel distacco ingiustificato che integra sul piano oggettivo la fattispecie incriminatrice. Ne consegue che anche la mera disponibilità di fatto - situazione configurabile in capo all’utilizzatore - postula, pur sempre, l’avvenuta consegna del bene oggetto di contratto di leasing, di guisa che la relativa appropriazione integra distrazione, in quanto la sottrazione o la dissipazione del bene comporta un pregiudizio per la massa fallimentare, che viene privata del valore dello stesso - che avrebbe potuto essere conseguito mediante riscatto al termine del rapporto negoziale e, al tempo stesso, gravata di ulteriore onere economico scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione per l’affermazione degli stessi principi, v. anche, già in precedenza, Cass., Sez. V, n. 33380 del 18/07/2008, Bottamedi, nonché Cass., Sez. V, n. 9427/2012 del 03/11/2011, Cannarozzo . Ne consegue che l’appropriazione illecita da parte dell’utilizzatore del bene concesso in leasing non solo onera la impresa utilizzatrice e dunque, dopo il fallimento, anche la curatela fallimentare del costo economico derivante dall’inadempimento contrattuale all’obbligo di restituzione e discendente direttamente dal sinallagma contrattuale sotteso al predetto negozio , ma determina per la fallita anche il pregiudizio economico causato dalla perdita del credito conseguente al differenziale di valore economico descritto dalla L. Fall., art. 72 quater, comma 2. Con la ulteriore conseguenza che diviene evidente e innegabile il pregiudizio economico per il ceto creditorio, determinato, da un lato, dal costo economico insorgente per l’obbligo di restituzione al concedente del bene oggetto del leasing e successivamente oggetto di appropriazione e, dall’altro, dalla perdita del credito previsto dal sopra menzionata L. Fall., art. 72, comma 2. Tale norma, invero, attribuisce all’utilizzatore un diritto soggettivo, economicamente valutabile, che entra a far parte del patrimonio dello stesso e che dunque può essere oggetto dei fatti di bancarotta. Con la conseguenza che qualsiasi manomissione o distrazione del bene detenuto in leasing dall’imprenditore fallito impedisce un accrescimento della massa attiva fallimentare, determinando una lesione all’interesse della garanzia patrimoniale dei creditori art. 2740 c.c. e, dunque, un fatto di bancarotta patrimoniale. 1.4. Se è vero che - in base al modello contrattuale in esame - la proprietà del bene rimane in capo al concedente fino all’eventuale pagamento del c.d. prezzo di opzione, il diritto di acquistare il bene alla scadenza del contratto è un diritto senza dubbio spettante all’utilizzatore, diritto avente ad oggetto un valore economico la cui distrazione, in caso di fallimento, integra la condotta descritta nella L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1 l’utilizzatore, difatti, pur non vantando la titolarità giuridica del bene in leasing la cui proprietà - è bene ricordare, ancora una volta - permane in capo al concedente gode, comunque, di una disponibilità giuridicamente qualificata del medesimo bene, che gli consente non solo di destinarlo fisiologicamente alle proprie necessità imprenditoriali, ma anche eventualmente e patologicamente di manometterlo o distrarlo. Ne deriva che laddove l’imprenditore utilizzatore del bene fallisca, la fattispecie incriminatrice L. Fall., ex art. 216, deve ritenersi applicabile ogniqualvolta sia stata, nel concreto, posta in essere con dolo una delle condotte alternativamente descritte dalla suddetta disposizione normativa, condotte che comportino un nocumento della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., impendendo, dunque, al curatore un’integrale ricostruzione ed una efficiente liquidazione del patrimonio del fallito, con conseguente pregiudizio delle ragioni creditorie. Ne consegue che, alla luce dei principi sopra esposti, la doglianza sollevata dal ricorrente nel primo motivo di ricorso deve ritenersi manifestamente infondata. 2. È, invece, aspecifica la censura prospettata nel secondo motivo. Il ricorrente contesta la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo facendo riferimento ad un’ipotesi di bancarotta semplice, omettendo di confrontarsi con la statuizione di condanna per bancarotta fraudolenta e con la puntuale disamina degli elementi indiziari del dolo - generico - contenuta nella sentenza impugnata, ponendo la doglianza nell’alveo dell’inammissibilità. 3. È, invece, fondato il terzo motivo. 3.1. Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa e siffatta declaratoria avente efficacia ex tunc ai sensi della L. costituzionale n. 87 del 1953, art. 30, - trova applicazione nell’ambito del presente procedimento in quanto, sebbene questione non investita dal ricorso, la durata delle sanzioni accessorie come determinata nella sentenza impugnata si qualifica in termini di sopravvenuta illegalità della pena, apprezzabile ex officio in sede di legittimità S.U. n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207 . Nella sentenza additiva richiamata, la Consulta ha esplicitamente escluso l’applicabilità dello strumento da commisurazione cor relativa declinato dall’art. 37 c.p., che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne determina la durata nella stessa misura della pena principale, ritenendo il relativo meccanismo non adeguato ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione in considerazione della specifica e non sovrapponibile funzione del diverso ordine di pene sia in relazione al diverso carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, che della diversa finalità. Siffatta interpretazione non è stata ritenuta vincolante in una prima applicazione giurisprudenziale Sez. 5, 7 dicembre 2018 in procomma 23648/2016, Piermartiri, informazione provvisoria n. 16/2018 , mentre altro orientamento Sez. 5, 13 dicembre 2018 in procomma 3703/2018, Retrosi Sez. 5, n. 5882 del 6 febbraio 2019, Rv. 274413 si è determinato nel senso di dover rimettere al giudice del merito la determinazione discrezionale dell’entità delle pene accessorie ex art. 216, u.c 3.2. Alla stregua del contrasto, manifestatosi nell’immediatezza della pronuncia della Consulta, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione se le pena accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dalla L. Fall., art. 216, u.c., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 5/12/2018 della Corte costituzionale con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima fino a dieci anni debbano considerarsi pena con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 c.p. che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta , con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti ovvero se, per effetto, della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola, la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p. . Con sentenza n. 28910 del 28 febbraio 2019, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito come le pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. . In applicazione dell’enunciato principio di diritto, la verifica dei parametri di commisurazione della pena accessoria, in quanto sanzione predeterminata, in riferimento al carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona libertà di iniziativa economica ed alla finalità non solo rieducativa della medesima, resta assegnata alla discrezionalità del giudice del merito. 3.3. Nel caso in esame, la durata delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, comma 3, è stata determinata dal giudice di merito in conformità alla disposizione normativa, con conseguente obbligo di rideterminazione. In applicazione degli enunciati principi di diritto, che assegnano alla discrezionalità del giudice del merito la verifica dei parametri di commisurazione della pena accessoria, in quanto sanzione predeterminata, in riferimento al carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona libertà di iniziativa economica ed alla finalità non solo rieducativa della medesima, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della durata delle sanzioni accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., irrogate all’imputato nella misura di dieci anni, con rinvio al giudice di merito per nuovo esame sul punto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie L. Fall., ex art. 216, u.c., e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.