Avvocato firma la procura per conto del cliente: falso ideologico

Integra il reato di falsità in certificati commessa da un soggetto esercente un servizio di pubblica necessità la condotta dell’avvocato che firmi, per conto del cliente, la procura alle liti, così attestando falsamente l’autenticità della sottoscrizione.

Lo ha stabilito la Quanta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45451, deposita in cancelleria l’8 novembre 2019. Autentiche false nella procura alle liti. Nel caso di specie un avvocato è stato sottoposto a procedimento penale in relazione al reato di falsità in certificati commessa da un soggetto esercente un servizio di pubblica necessità” di cui all’art. 481, c.p Secondo la procura inquirente, il professionista avrebbe inter alia attestato falsamente l’autenticità delle sottoscrizioni di due clienti, nell’ambito di un mandato alle liti al medesimo conferito. In esito al giudizio di prime cure, il Tribunale ha accertato la responsabilità penale del legale per il reato lui ascritto, per l’effetto condannandolo alla pena di giustizia. Tanto ha confermato, sebbene in parte, la Corte territoriale, adita dalla difesa nell’ottica di ottenere un ribaltamento del verdetto. Al professionista non è rimasto che rivolgersi, in ultima istanza, alla Suprema Corte di Cassazione. Ai giudici romani è stato chiesto di annullare le precedenti decisioni negative sulla base di due principali ordini di contestazione da un lato, la paventata inapplicabilità del reato contestato art. 481, c.p. al caso di specie dall’altro, la non ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa e, segnatamente, l’assenza dell’elemento soggettivo i.e. il dolo . La procura alle liti non è una scrittura privata” in senso stretto. La pronuncia in epigrafe merita apprezzamento per le considerazioni svolte dalla Corte sulla riconducibilità del caso in oggetto i.e. falsa attestazione dell’autenticità della sottoscrizione del cliente al reato di falsità in certificati, anche in relazione al noto percorso di depenalizzazione di talune ipotesi di reato avviato con legge delega n. 67/2014 e corrispondente d.lgs. n. 7/2016. In proposito - in disparte il problema comunque non costituzionalmente rilevante sul pieno esercizio della delega ad opera del legislatore delegato - gli Ermellini hanno ribadito come, pur a fronte del consolidato orientamento in forza del quale la procura alle liti non rappresenterebbe un atto pubblico siccome difetta dei requisiti della provenienza da un pubblico ufficiale, dell’inerenza all’esercizio della pubblica funzione e del contributo alla formazione di un procedimento della Pubblica Amministrazione , nondimeno il maggior credito di cui gli atti in esame godono [i.e., la procura, ndr.], in ragione della rilevanza del servizio espletato dai soggetti che ne sono gli autori [i.e., avvocati, ndr.], e la loro efficacia probatoria, nonché la loro rispondenza ad un interesse pubblico, conducono a negare l’equiparabilità degli stessi alle comuni scritture private” e, dunque, alla esclusione della ricorrenza della fattispecie di reato contestata per assenza dell’elemento materiale. Si tratta, in effetti, di scritture - spiega la Corte, richiamando importanti arresti giurisprudenziali - rappresentative di atti aventi una importante rilevanza pubblica”, dunque oggetto di tutele anche rispetto le falsità ideologiche, diversamente dalle scritture private, intese in senso stretto. L’elemento soggettivo e l’irrilevanza del rapporto abituale con il cliente. Al pari è stata riscontrata la giustezza della ricostruzione dei fatti svolta dai giudici di merito laddove hanno ritenuto che, nel caso di specie, la piattaforma probatoria e, segnatamente, le dichiarazioni rese dai testimoni, militavano nel senso della sottoscrizione delle procure nello studio legale, in assenza delle clienti interessate. Merita qui sottolineare che la condanna è inflitta a prescindere del rapporto professionale abituale e stabile in essere tra il legale e le clienti, ciò che non ha inciso nemmeno sul fronte dell’elemento soggettivo. Al pari è stata assunta irrilevante la circostanza che le clienti non abbiano patito nocumento alcuno in relazione al falso commesso dal rispettivo legale. La decisione. Sul crinale delle considerazioni che precedono la Suprema Corte ha dunque confermato la sentenza della corte d’appello, con conseguente condanna del legale, anche per quanto concerne il pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 ottobre – 8 novembre 2019, n. 45451 Presidente Palla – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bari ha confermato la condanna di C.V. per il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità di cui al punto a dell’imputazione, per avere egli attestato falsamente l’autenticità delle sottoscrizioni delle clienti S.R. e I. nel mandato alle liti a lui conferito dalle medesime in data 24 settembre 2012. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte territoriale ha invece assolto il C. ed il coimputato A.T. da analogo falso agli stessi contestato ai punti c ed e dell’imputazione in relazione al diverso mandato alle liti del 23 gennaio 2013, perché il fatto non costituisce reato, provvedendo di conseguenza a rideterminare il trattamento sanzionatorio, con esclusione dell’aumento disposto per la continuazione ed irrogazione della sola pena pecuniaria. Il giudice di appello ha altresì assolto S.R. dal delitto di sostituzione di persona, a lei contestato in relazione alla sottoscrizione del mandato del gennaio 2013, perché il fatto non costituisce reato. 2. Avverso la sentenza suindicata ricorre C.V. attraverso il proprio difensore, articolando tre motivi. 2.1 Con il primo lamenta che il giudice di appello avrebbe illegittimamente ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 481 c.p., e D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 1, sollevate in riferimento agli artt. 25, 76 e 3 Cost., sollecitando questa Corte, in via principale, ad introdurre l’incidente di costituzionalità. Secondo il ricorrente, a differenza di quanto sostenuto nella sentenza impugnata, il legislatore delegato, con l’art. 1, del decreto citato, avrebbe violato il criterio direttivo di cui all’art. 2, comma 3, lett. a , n. 1 della Legge Delega n. 67 del 2014, che imponeva l’abrogazione di tutte le ipotesi codicistiche di falso - con la sola eccezione di quella prevista dall’art. 491 c.p., - limitatamente alle condotte relative a scritture private tipologia di atto, quest’ultima, a cui devono certamente considerarsi riconducibili le certificazioni contemplate dalla norma censurata, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità. Inconferente sarebbe in proposito il riferimento operato dalla Corte d’appello alla derivazione dal mancato integrale esercizio della delega di una responsabilità esclusivamente politica del Governo, nonché alla conservazione in capo al Parlamento del potere di incidere sulla menzionata disposizione. Evidente sarebbe quindi la violazione del principio di legalità in senso formale, avendo l’Esecutivo sostituito indebitamente le proprie valutazioni alle scelte di politica criminale spettanti al Parlamento. Si reputa inoltre sussistente un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai fatti di falsità materiale in scrittura privata ormai qualificati come illeciti civili, denunciandosi la contraddittorietà del percorso argomentativo del giudice dell’appello, la quale avrebbe prima ammesso la riconducibilità dell’art. 481 c.p., entro l’ambito applicativo della legge delega, e quindi escluso che gli atti ivi contemplati possano essere ritenuti scritture private. La violazione del principio di uguaglianza sarebbe tanto più evidente ove si consideri il maggiore disvalore della fattispecie di cui all’art. 485 c.p., originariamente caratterizzata da più elevati limiti edittali di pena. Rispetto, infine, al vuoto di tutela paventato dalla sentenza impugnata, si richiama il precedente della contravvenzione di cui alla L. n. 515 del 1993, art. 15, comma 7, in materia di disciplina elettorale, e in particolare l’intervenuta determinazione delle sanzioni, in quell’occasione, ad opera della stessa Consulta. 2.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizi della motivazione, con particolare riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato. La sentenza impugnata avrebbe illogicamente ed in maniera apodittica ritenuto che, essendosi accertata la falsità di entrambe le firme della S. , le stesse sarebbero state apposte inevitabilmente nello studio dell’imputato, non potendosi considerare riferibile a tale episodio la modalità di consegna del mandato in busta chiusa ed in bianco , al contrario impiegata nella vicenda di cui al capo c . Tali considerazioni, secondo il ricorrente, si fondano sul travisamento delle dichiarazioni della teste C.R. , secondo la quale i mandati stessi sarebbero stati portati nello studio legale, con le modalità appena indicate, ma non sempre ed esclusivamente ad opera delle due sorelle. Per di più, elementi indicativi dell’assenza del dolo in capo all’imputato sarebbero le affermazioni della medesima teste in merito all’abitualità del rapporto professionale con le sorelle, nonché la contiguità temporale dei mandati alle liti e la mancata derivazione dal fatto di alcun nocumento alle clienti. 2.3 Con l’ultimo motivo il ricorrente lamenta analoghi vizi in relazione al trattamento sanzionatorio, avendo la Corte d’appello fondato l’irrogazione di una pena vicina al massimo edittale su una qualità - quella di esercente la professione forense - che deve necessariamente essere riferibile al soggetto attivo del reato in esame. Considerato in diritto 1. Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve conseguentemente essere rigettato. 2. Le prospettate questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 481 c.p., e D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 1, devono ritenersi manifestamente infondate. 2.1 Con riferimento alla ritenuta violazione degli artt. 25 e 76 Cost., può invero osservarsi quanto segue. In primo luogo, del tutto correttamente la Corte d’appello ha distinto le ipotesi di mancato integrale esercizio della delega legislativa e di eccesso di delega, essendo solo quest’ultima idonea a determinare una violazione del citato art. 76 della Carta fondamentale. Come infatti il giudice delle leggi ha ripetutamente avuto modo di precisare, l’attuazione solo parziale o la mancata attuazione della delega possono determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, ma non integrano una violazione di legge costituzionalmente apprezzabile sentenze nn. 304/2011, 218/1987, 8/1977 e 41/1975 , salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione sentenza n. 149/2005 ordinanze nn. 283/2013 e 257/2005 , fermo restando che al legislatore delegato, essendo la norma delegante e quella delegata avvinte da un naturale rapporto di riempimento, le funzioni del delegato non possono essere limitate a una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dal delegante sentenze nn. 10/2018, 278/2016, 194/2015, 146/2015, 98/2015, 229/2014, 47/2014, 219/2013, 426/2008, 98/2008, 341/2007, 426/2006, 174/2005, 199/2003 e 4/1992 ordinanze nn. 157/2013, 73/2012 e 213/2005 . Il legislatore delegato rimane dunque libero di individuare e tracciare i necessari contenuti attuativi, secondo l’ordinaria sfera della discrezionalità legislativa sentenza n. 44/1993 , e, pur nell’ambito invalicabile dei confini dati dalle possibilità applicative desumibili dalle norme di delega, è ugualmente libero di interpretare e scegliere fra le alternative che gli si offrono sentenza n. 355/1993 e di valutare le specifiche situazioni da disciplinare sentenze nn. 174/2005, 308/2002 e 362/1995 ordinanze nn. 213/2005, 21/1998 e 321/1987 . Ove così non fosse, al legislatore delegato verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere pur sempre primario del provvedimento legislativo delegato sentenza n. 98/2015 . 2.2 In tal senso anche recentemente la Consulta è tornata ad occuparsi della mancata attuazione di delega legislativa, valorizzando sì alcuni principi consolidatisi nella giurisprudenza costituzionale concernente la diversa ipotesi dell’eccesso di delega sentenza n. 127/2017 , ma secondo modalità che consentono di escludere la violazione delle norme costituzionali invocate dal ricorrente. Tale sentenza, in un caso analogo a quello oggetto del presente procedimento - essendosi censurata la norma di cui al D.Lgs. n. 8 del 2016, art. 1, nella parte in cui escludeva dall’intervento di depenalizzazione i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria che siano contemplati dal codice penale - ha difatti riaffermato la necessità di avere riguardo, nel vaglio di legittimità delle scelte del legislatore delegato, alla ratio della legge di delegazione ed al contesto normativo in cui essa si inserisce ex multis n. 126/2000 , ferma restando la riferibilità al Governo di una certa discrezionalità nell’esercizio della delega stessa, tanto più estesa quanto meno siano stringenti e definiti i principi e criteri direttivi ivi contenuti. Il Giudice delle leggi ha ribadito come spetti all’Esecutivo compiere scelte coerenti con le scelte di fondo e con gli indirizzi formulati dal Parlamento, in particolare a fronte di direttive dal significato non univoco, implicanti una più accentuata responsabilità del legislatore delegato. Si sono quindi valorizzati il rispetto, nell’attuazione di una delega espressione di scelte di politica criminale del Parlamento, della ratio della legge, oltre alla coerenza con esigenze sistematiche proprie della materia penale . 2.3 Pertanto, anche con riguardo all’attuazione dell’art. 2, comma 3, lett. a , n. 1, ad opera della norma appena indicata, è necessario fare riferimento a tale orientamento interpretativo. Secondo quanto si ricava dalla relazione illustrativa del citato decreto delegato - che contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente ha invece rivelato le ragioni dei limiti dell’intervento legislativo - il legislatore delegante ha inteso depenalizzare alcune ipotesi delittuose previste nel codice penale a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, che sono accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura privata e di essere procedibili a querela, ricollocandone il disvalore sul piano delle relazioni private . Pertanto, si ritiene che il legislatore abbia inteso privare di rilevanza penale, tra le altre, fattispecie di falso caratterizzate dal fatto di avere ad oggetto documenti dalla valenza esclusivamente privatistica. E tanto è confermato anche dall’applicazione del criterio di interpretazione sistematico. Invero, l’unico delitto di falso avente ad oggetto documenti qualificabili come scritture private che sia stato espressamente escluso dall’abrogazione è stato quello di cui all’art. 491 c.p Quest’ultimo contempla ipotesi di falsificazione di documenti - il testamento olografo, la cambiale, i titoli di credito trasmissibili per girata o al portatore equiparati agli atti pubblici ai fini della pena, in ragione della particolare rilevanza dell’interesse pubblico alla loro genuinità, ovvero, limitatamente ai titoli di credito trasmissibili per girata o al portatore, della meritevolezza di un livello di protezione più elevato a fronte delle modalità di circolazione contemplate dalla norma, e tali da esporre le scritture ivi menzionate ad un maggiore pericolo di condotte insidiose Sez. U, n. 40256 del 19/07/2018, F., Rv. 273936, in motivazione . Di conseguenza, tale argomento depone in favore della conclusione secondo cui il legislatore delegante ha inteso escludere dall’intervento di decriminalizzazione fatti aventi ad oggetto documenti non qualificabili come atti pubblici, ma caratterizzati, diversamente dalle scritture private di cui agli artt. 485 e 486 c.p., dalla rispondenza a interessi non meramente privati. È il caso, questo, anche dei certificati formati da soggetti esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell’art. 481 c.p., che difatti hanno originato un contrasto interpretativo, specialmente dottrinale, in merito alla relativa qualificabilità come atti pubblici o scritture private. 2.4 Pur essendosi, nella giurisprudenza di legittimità, consolidato l’orientamento secondo cui nei documenti in considerazione difettano i caratteri dell’atto pubblico - e segnatamente i requisiti della provenienza da un pubblico ufficiale, dell’inerenza all’esercizio della pubblica funzione e del contributo alla formazione di un procedimento della pubblica amministrazione Sez. 5, n. 43737 del 27/09/2012, Dalla Zeta, Rv. 254520 - nondimeno il maggiore credito di cui gli atti in esame godono, in ragione della rilevanza del servizio espletato dai soggetti che ne sono gli autori, e la loro efficacia probatoria, nonché la loro rispondenza anche ad un interesse pubblico, conducono a negare l’equiparabilità degli stessi alle comuni scritture private. Ed invero, secondo quanto correttamente rilevato nella sentenza impugnata, vero è che le stesse Sezioni Unite hanno negato la possibilità di configurare i documenti di cui al citato art. 481 c.p., come atti pubblici, in quanto provenienti da soggetti che non esercitano una pubblica funzione o un pubblico servizio e che sono definiti privati dall’art. 359 c.p. al contempo, tuttavia, il Supremo Collegio ha ritenuto che si tratti di scritture rappresentative di atti aventi una particolare rilevanza pubblica , e in quanto tali oggetto di tutela anche rispetto alle falsità ideologiche, a differenza delle scritture private in senso stretto intese Sez. U, n. 18056 del 24/04/2002, Panarelli e altro, Rv. 221404 . 2.5 Non può quindi condividersi quanto sostenuto nel ricorso, in merito alla pretesa volontà del legislatore delegante di estendere la decriminalizzazione, seguita dalla previsione di sanzioni di natura civile, a tutti i reati aventi ad oggetto le scritture private intese nella loro accezione più ampia, e pertanto tale da comprendere anche i documenti previsti dall’art. 481 c.p 2.6 Quanto illustrato consente altresì di ritenere manifestamente infondata la questione sollevata in relazione all’art. 3 Cost., e non meritevole di apprezzamento la connessa obiezione relativa all’ipotizzabilità di una sostituzione, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, della pena prevista dall’art. 481 c.p., con la sanzione civile contemplata dal D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 3, analogamente a quanto statuito in relazione agli illeciti in materia di propaganda elettorale. La pronunzia richiamata dal ricorrente Corte Cost., n. 52/1996 ha invero rilevato come la fattispecie di cui alla L. n. 130 del 1975, art. 7, costituisse il tassello residuo di un’unica disciplina sanzionatoria di tipo penale, che è omogenea, quanto al bene giuridico protetto, alla previsione delle condotte e delle sanzioni penali ivi stabilite . A fronte di tale omogeneità, la Consulta ha ritenuto che il mantenimento della sanzione penale per il solo fatto contemplato dalla disposizione suindicata costituisse presumibilmente il frutto di una dimenticanza del legislatore, ravvisandosi un contrasto con l’art. 3 Cost. si è quindi dichiarato incostituzionale la L. n. 515 del 1993, art. 15, nella parte in cui contemplava, nel suo riferimento alla norma precedentemente indicata, l’applicazione della sanzione penale in luogo di quella amministrativa pecuniaria prevista, nei medesimi limiti edittali, per tutti gli illeciti in materia di campagna elettorale. 2.7 Difetta invece per le ragioni già indicate, nel caso in esame, quella sovrapponibilità delle fattispecie - sotto i profili delle condotte, dell’oggettività materiale e del disvalore degli illeciti - che possa consentire di ravvisare, nell’esercizio della discrezionalità del legislatore delegato, l’arbitarietà e l’irragionevolezza idonee a determinare la violazione del principio di uguaglianza, e tali da giustificare la sostituzione ad opera della Consulta della pena stabilita dal codice penale con la sanzione operante in altri settori dell’ordinamento. 2.8 In conclusione, per tutti i motivi esposti, devono ritenersi manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal ricorrente, tanto rispetto all’art. 25, e art. 76, quanto in relazione all’art. 3 Cost 3. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto generico e versato in fatto, limitandosi a proporre una lettura alternativa delle risultanze probatorie non ammessa nel giudizio di legittimità. 3.1 Invero, a fronte delle doglianze formulate in sede di appello, la Corte territoriale ha ritenuto - con motivazione non manifestamente illogica - che la consapevolezza, in capo all’imputato, del carattere apocrifo delle firme delle sorelle S. debba ritenersi desumibile dal fatto che, a differenza di quanto accaduto con riferimento al mandato di cui al punto c dell’imputazione, entrambe le sottoscrizioni fossero non autentiche, e pertanto verosimilmente apposte nello stesso studio legale. 3.2 Il ricorrente contesta tali argomentazioni essenzialmente in punto di fatto, proponendo una ricostruzione della vicenda diversa da quella accolta dai giudici del merito, deducendo non già un effettivo travisamento delle dichiarazioni della teste C.R. , bensì un’inammissibile rilettura delle stesse, peraltro riportate solo in maniera frammentaria. Invero, il ricorrente vorrebbe far derivare dalla riportata affermazione, secondo cui i mandati alle liti sarebbero stati usualmente recapitati in busta chiusa ed in bianco dalle clienti, oltre che dalle dichiarazioni relative all’abitualità del rapporto professionale con le S. e dagli altri elementi di fatto riportati nel motivo, una ricostruzione della vicenda diversa da quella operata dai giudici del merito, e indicativa dell’assenza di dolo in capo all’imputato, dialogando direttamente con la prova e non con la motivazione della sentenza, senza evidenziare un effettivo travisamento del suo significante, bensì attribuendole un diverso significato da quello non illogicamente ricavato dal giudice del merito. 3.3 Infine, sono del tutto irrilevanti le osservazioni concernenti la mancata derivazione alle S. di alcun nocumento per effetto della falsificazione, non essendo certo questa di ostacolo alla sussistenza del dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice e rilevante ai fini della sussistenza di una fattispecie configurata da quest’ultima come reato di pericolo. 4. Deve infine considerarsi infondato anche il terzo motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio. Difatti, nel rimodulare la pena a seguito I 17 dell’assoluzione del C. da alcune delle imputazioni, il giudice dell’appello ha operato una scelta di particolare favore nell’applicare all’imputato la sola pena pecuniaria, per cui lo scostamento dai minimi edittali previsti per quest’ultima risulta sufficientemente giustificato dalla valutazione del fatto ricavabile dal complesso della motivazione anche a prescindere dalla tenuta dell’ulteriore argomentazione censurata dal ricorrente. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.