Collaboratori di giustizia: valida la misura di riduzione della pena fissata in un terzo

Ai fini del suo riconoscimento, l’attenuante prevista all’art. 8 d.l. n. 152/1991, non è soggetta al giudizio di bilanciamento fra le circostanze e, qualora ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, la pena deve determinarsi effettuando, innanzitutto, il giudizio di comparazione fra tali ultime circostanze, per poi applicare sul risultato ottenuto la riduzione derivante dall’attenuante della dissociazione attuosa.

Lo ha ribadito la Cassazione con sentenza n. 43824/19 depositata il 28 ottobre. Il caso. La Corte d’assise di Palermo, in parziale riforma della sentenza del GIP, confermava la responsabilità degli imputati per il reato di omicidio e, riconoscendogli la circostanza attenuante di cui all’art. 8 l. n. 203/1991 per i collaboratori di giustizia, rideterminava la pena in 10 anni e 8 mesi di reclusione. Dolendosi della modalità di calcolo della sanzione utilizzata dai Giudici, gli imputati ricorrono per cassazione. Misura di riduzione della pena fissata in un terzo. Nel sancire l’infondatezza dei ricorsi, la Cassazione afferma che la Corte d’assise si è correttamente attenuta ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia. In tema di riconoscimento dell’attenuante ex art. 8 d.l. n. 152/1991, infatti, essa non è soggetta al giudizio di bilanciamento fra le circostanze e qualora ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, la pena deve determinarsi effettuando, innanzitutto, il giudizio di comparazione fra tali ultime circostanze, per poi applicare sul risultato ottenuto la riduzione derivante dall’attenuante della dissociazione attuosa . Inoltre, prosegue il Collegio, i Giudici della Corte d’assise hanno correttamente chiarito che la misura della diminuzione di pena, che ha come presupposto oggettivo il comportamento attivo dell’imputato nel prestare un concreto e significativo contributo alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi, non può essere ridimensionata sulla base di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità di delinquere dell’imputato, né alle ragioni che lo hanno spinto a collaborare . Infine, la Cassazione ritiene pure adeguatamente motivata la scelta dei Giudici di fissare in un terzo la misura della riduzione della pena che, nel caso di specie, è stata imposta dalla necessità di contemperare le esigenze di premialità sottese al riconoscimento dell’attenuante con utilità concreta delle dichiarazioni rese da ciascuno degli imputati rispetto al preesistente quadro indiziario. Per tutti questi motivi, la Suprema Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 giugno – 28 ottobre 2019, n. 43824 Presidente Tardio – Relatore Cappuccio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 9 luglio 2018 la Corte di assise di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza emessa il 21 aprile 2017 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo nei confronti di F.A.P. e N.N. , ha, tra l’altro, applicato ad entrambi la circostanza attenuante prevista dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, art. 8, e rideterminato la pena loro inflitta in dieci anni ed otto mesi di reclusione ciascuno. 2. F.A.P. e N.N. sono stati tratti a giudizio e condannati perché ritenuto responsabili dell’omicidio di L.S. , avvenuto a omissis , e dei connessi reati in materia di armi. Avendo gli imputati, collaboratori di giustizia, ammesso l’addebito, le questioni esaminate dalla Corte di assise di appello hanno riguardato esclusivamente il trattamento sanzionatorio. La Corte ha, in specie, accolto i motivi di appello relativi all’applicazione della circostanza attenuante speciale, disposta nella misura minima di un terzo, e rigettato quelli concernenti l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per un periodo minimo di tre anni. 3. N.N. propone, con l’assistenza dell’avv. Valeria Maffei, ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge per errata determinazione della pena base e, di conseguenza, di quella finale sul rilievo che il giudice di merito avrebbe dovuto individuare, quale pena base sulla quale effettuare le successive operazioni, quella, compresa tra dodici e venti anni di reclusione, indicata dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, in sostituzione di quella dell’ergastolo. 4. F.A.P. propone a sua volta, con l’assistenza dell’avv. Monica Genovese, ricorso per cassazione affidato a due motivi, con il primo dei quali lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per avere il giudice di merito applicato la circostanza attenuante prevista dalla legge sui collaboratori di giustizia nella misura minima di un terzo a dispetto dell’importanza del contributo da lui fornito in relazione alla posizione del coimputato S. , condannato all’ergastolo, nell’ambito di separato giudizio, proprio grazie alle sue dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie. Con il secondo ed ultimo motivo, lamenta, ancora, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla conferma dell’applicazione della misura di sicurezza, disposta in patente contraddizione con le considerazioni svolte in merito alla sua scelta collaborativa ed al suo definitivo distacco dal contestato associativo di riferimento. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono infondati e, pertanto, passibili di rigetto. 2. In ordine all’unico motivo spiegato nell’interesse di N.N. , afferente alle modalità di calcolo della sanzione, va detto che i giudici di appello si sono puntualmente attenuti alle direttive impartite dalla giurisprudenza di legittimità in tema di riconoscimento dell’attenuante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, rilevando che essa non è soggetta al giudizio di bilanciamento fra le circostanze e che qualora, come nella specie, ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, deve determinarsi la pena, dapprima, effettuando il giudizio di comparazione fra tali ultime circostanze, per poi applicare sul risultato ottenuto la riduzione derivante dall’attenuante della dissociazione attuosa Sez. U, n, 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245930 Sez. 1, n. 4066 del 11/10/2018, dep. 2019, Di Buono, n. m. Sez. 6, n. 31983 del 13/04/2017, Iovine, Rv. 270430 . 3. Privo di pregio è, del pari, il primo motivo articolato nell’interesse di F.A.P. , il quale lamenta che i giudici di merito, una volta riconosciuti i caratteri di decisività dell’apporto del collaboratore in vista della complessiva ricostruzione della vicenda processuale e, quindi, la sussistenza delle condizioni per l’applicazione dell’attenuante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, hanno, con motivazione illogica e contraddittoria, ridotto la pena in misura inferiore a quella massima. La Corte di assise di appello, invero, ha chiarito, con il conforto di pertinenti citazioni giurisprudenziali Sez. 1, n. 2137 del 05/11/1998, dep. 1999, Favaloro, Rv. 212531 Sez. 1, n. 14528 del 03/02/2006, Cariolo, Rv. 233938 , che la misura della diminuzione di pena, rinvenendo il proprio presupposto oggettivo in un comportamento attivo dell’imputato nel prestare un concreto e significativo contributo alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi, non può essere ridimensionata in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato nè alle ragioni che lo hanno determinato alla collaborazione. Successivamente, ha spiegato che la fissazione in un terzo della misura della riduzione D.L. 13 maggio 1991, n. 152, ex art. 8 è, nel caso di specie, imposta dalla necessità di contemperare le esigenze di premialità sottese al riconoscimento dell’attenuante con l’utilità concreta delle dichiarazioni rese da ciascuno degli imputati rispetto al preesistente quadro indiziario. Affermazione, questa, che, nell’ancorare la misura della riduzione al coefficiente di novità degli apporti ed alla loro incidenza in relazione alle informazioni aliunde acquisite in coerenza, peraltro, con il rilievo, ribadito da ultimo da Sez. 2, n. 27808 del 14/03/2019, Furnari, Rv. 276111, secondo cui l’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 è conseguenza del valido contributo fornito dall’imputato allo sviluppo delle indagini allo scopo di evitare le ulteriori conseguenze della attività delittuosa , non si pone in contraddizione con l’esclusione della rilevanza, ai medesimi fini, dei parametri afferenti alla obiettiva gravità del reato, alla capacità a delinquere di chi lo ha commesso ovvero ai motivi sottesi all’opzione collaborativa e che costituisce fisiologica espressione, non sindacabile in sede di legittimità, del discrezionale apprezzamento rimesso al giudice del merito. 4. Con il secondo ed ultimo motivo, F. taccia di illegittimità la decisione impugnata nella parte in cui ha confermato l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per il periodo minimo di tre anni sulla scorta di un giudizio di pericolosità sociale smentito, in concreto, dalla sua intervenuta collaborazione con la giustizia e dalla sua sottoposizione a programma di protezione, e supportato solo da inconferenti richiami alla gravità del fatto accertato ed al contesto nel quale lo stesso è maturato. La censura è infondata la Corte di assise di appello, infatti, pur facendo riferimento ad un regime presuntivo che, in realtà, non può, come a più riprese affermato dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 1, n. 1027 del 31/10/2018, dep. 2019, Argento, in motivazione Sez. 1, n. 35634 del 04/05/2012, Lo Verde, Rv. 253257 , operare al di fuori delle limitate ipotesi previste dall’art. 417 c.p., poggia, in positivo, il formulato giudizio di pericolosità sociale sulla elevatissima gravità del reato commesso da F. e sulla consuetudine di relazioni criminali, inquadrate nell’ambito di una struttura associativa mafiosa, ad esso sotteso, ed aggiunge che spetterà alla magistratura di sorveglianza, a pena detentiva espiata, verificare la persistenza ed il grado di detta pericolosità, con giudizio correlato ad un trattamento individualizzato ed ispirato al principio di proporzionalità che tenga conto dello sviluppo e degli esiti del percorso dissociativo avviato e degli sforzi intrapresi in vista di un proficuo reinserimento sociale. Il predetto apparato argomentativo appare ossequioso delle coordinate dell’istituto e scevro dai denunziati vizi di legittimità, dovendosi considerare, a confutazione delle censure difensive, che il giudice, all’atto di vagliare l’applicazione nei confronti dell’imputato di una misura di sicurezza personale, resta libero di operare apprezzamenti, ovviamente fondati su specifiche e significative emergenze, in ordine alla pericolosità sociale a dispetto dell’ammissione del soggetto interessato al programma di protezione per i collaboratori di giustizia, in ossequio a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità Sez. 2, n. 20612 del 16/04/2004, Viscardi, Rv. 229525 con riferimento alla materia delle misure di prevenzione, ma estensibile, per identità di ratio, a quella delle misure di sicurezza, pure fondate sulla pericolosità sociale dell’agente. D’altro canto, ai fini del giudizio sulla pericolosità e, in particolare, sull’attualità di tale pericolosità, non ha alcun rilievo, di per sé, in vista della sua esclusione, la collaborazione del soggetto interessato e l’ammissione allo speciale programma di protezione. La scelta collaborativa, infatti, non implica automatica recisione con il precedente sistema di vita, dal momento che la predisposizione del programma di protezione non esige alcuna indagine sui moventi e sulle intenzioni del richiedente ne deriva che la mera allegazione della qualità di collaboratore di giustizia è indifferente se non accompagnata dalla indicazione di elementi di riscontro in grado di convincere della sussistenza di un concreto e fattivo ripensamento del prevenuto in ordine alla sue esperienze e ai suoi progetti di vita in questi termini cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 1196 del 06/04/1999, Cirillo, Rv. 214750 . 5. Dal rigetto dei ricorsi discende la condanna di N. e F. al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 c.p.p., comma 1, primo periodo. Nulla va, invece, disposto, in ordine alla regolamentazione delle spese afferenti all’azione civile, essendo stati proposti i ricorsi con esclusivo riferimento al trattamento sanzionatorio Sez. 2, n. 29424 del 29/11/2017, dep. 2018, Canale, Rv. 273018 . P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.