Ricostruzione del credito IVA: inutile il riferimento a costi presunti

Per accertare il reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000, è necessaria l’allegazione documentale dei costi sostenuti, non essendo sufficiente il riferimento alla ipotetica sussistenza di costi effettivi non registrati poiché essi non hanno alcun effetto sulla determinazione della base imponibile e, di conseguenza, dell’imposta evasa.

Così si esprime la Corte di Cassazione con la sentenza n. 41122/19, depositata l’8 ottobre. Il caso. La Corte d’Appello di Brescia confermava la sentenza emessa dal Tribunale con cui gli imputati venivano condannati poiché, nelle vesti di legali rappresentanti di una società, al fine di evadere l’IVA non presentavano la relativa dichiarazione per l’anno 2011. Contro tale decisione, gli imputati propongono ricorso per cassazione, lamentando, tra i diversi motivi, l’erronea applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 in relazione alla sussistenza della prova relativa al superamento della soglia di punibilità ivi prevista. I ricorrenti sostengono, infatti, che lo strumento dello Spesometro integrato”, avente natura presuntiva, era stato utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per determinare i ricavi della società, e dunque per stabilire il superamento della soglia di punibilità oggetto della norma citata, senza considerare che esso consente una ricostruzione del volume di affari solo parziale, in quanto limitata ai ricavi, tralasciando invece la valutazione dei costi. La rilevanza dei costi documentati. La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il motivo di ricorso prospettato dai ricorrenti, osservando come la presenza di costi effettivi non documentati può avere effetti sulla determinazione della base imponibile e di conseguenza sulla determinazione dell’imposta solo in relazione ai reati riguardanti le imposte dirette, e non anche all’IVA. Tale imposta indiretta, infatti, si colloca in un sistema chiuso che rileva dal punto di vista sovranazionale, e può funzionare solo tramite la specifica tracciabilità di ogni singola fattura emessa nei traffici commerciali, non avendo in tale contesto alcuna rilevanza i costi effettivi non registrati, i quali non hanno effetti sulla determinazione della base imponibile. Per questo motivo, l’accertamento del reato addebitato ai ricorrenti non può prescindere dall’allegazione documentale dei costi. Utilizzo dell’accertamento induttivo. Per quanto riguarda, invece, la contestazione circa l’utilizzo dello Spesometro integrato”, la Corte precisa che non vi è alcuna norma che vieti al giudice penale di avvalersi, ai fini dell’accertamento del reato tributario compreso quello di specie , delle risultanze degli accertamenti a cui si è pervenuti in sede tributaria, e ciò per via del principio di atipicità dei mezzi di prova, di cui è espressione l’art. 189 c.p.p Da ciò consegue che il giudice penale può avvalersi legittimamente, per ricostruire le imposte dovute e non dichiarate, dell’accertamento induttivo compiuto dai competenti Uffici finanziari ai fini della determinazione dell’imponibile. Alla luce di quanto esposto, non essendo stata distinta la natura dell’imposta dovuta rispetto a quella sui redditi in quanto l’importo della prima può essere ridotto solo mediante la detrazione , e non avendo il consulente tecnico della difesa fornito elementi idonei alla ricostruzione del credito IVA essendosi basato a tal fine solo su costi presunti , la Suprema Corte respinge il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 22 maggio – 8 ottobre 2019, n. 41122 Presidente Izzo – Relatore Andreazza Ritenuto in fatto 1. M.M. e Ma.Gi. hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia del 9/04/2018 di conferma della sentenza del Tribunale della medesima città pronunciata in data 22/05/2017 di condanna per il reato previsto dall’art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 perché, nella loro qualità di legali rappresentanti della società GIO.MI di M.M. & amp C. s.n.c., al fine di evadere l’Iva, non presentavano per l’anno 2011, essendovi obbligati, la relativa dichiarazione per un’imposta pari ad Euro 132.910,02. 2. Con un primo motivo lamentano la nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 5 del D.Lgs. cit., nonché per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza della prova del superamento della soglia di punibilità prevista dalla citata norma, nonché con riferimento alla regola di giudizio dell’onere della prova a carico del P.M. Deducono che lo strumento dello Spesometro integrato , di natura presuntiva, utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per la determinazione dei ricavi della società Gio.Mi. di M.M. e C. s.n.c. , e quindi per stabilire il superamento della soglia di punibilità ex D.Lgs. cit., art. 5, consentirebbe una ricostruzione del volume di affari, ai fini della determinazione dell’I.V.A. effettivamente dovuta, assolutamente parziale e limitata ai soli ricavi, tralasciando completamente la valutazione dei costi, a differenza di quanto fatto dalla stessa Agenzia delle Entrate per la quantificazione del reddito di impresa. Nel caso di specie, lo spesometro sarebbe stato costruito con i soli dati comunicati dalle società clienti, assurgendo dunque a mero strumento di accertamento induttivo. Nè può dirsi che l’onere motivazionale, necessario per evitare che si recepiscano acriticamente i dati valorizzati in sede di accertamento tributario, sia stato assolto dalla Corte di appello, atteso che questa si sarebbe affidata agli accertamenti fiscali svolti dall’Agenzia delle Entrate con la conseguenza di un’inversione dell’onere della prova ammissibile in ambito tributario ma non in quello penale come sarebbe stato affermato da Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014. Deduce conseguentemente che l’1.V.A. a debito, depauperata dalle componenti di costo, anche nell’ipotesi meno favorevole agli imputati risulterebbe essere nella specie pari ad Euro 22.910,13, valore ampiamente inferiore rispetto alla soglia di punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 tale calcolo si ricaverebbe dalla relazione del consulente tecnico della difesa dalla quale sarebbe emerso che la Corte non avrebbe confutato in alcun modo l’idoneità della detrazione dei costi determinati dalla stessa Agenzia delle Entrate e addirittura dalla stessa applicati in ambito di imposte dirette. Inoltre la Corte, nonostante l’assenza di prova offerta dalla pubblica accusa in ordine alla insussistenza dei costi e alla loro mancata registrazione, avrebbe confermato la sentenza di primo grado sulla base del fatto che gli imputati non avrebbero fornito alcuna prova positiva dell’esistenza dei medesimi e della loro registrazione. Nè può escludersi la possibilità che una ditta di abbigliamento attiva e operativa assolvesse l’I.V.A. pagando regolarmente i fornitori e operando in nero gli acquisti, posto che sarebbe illogico considerare raggiunta la prova del superamento della soglia di punibilità sulla scorta della mancata conservazione di copia delle fatture passive. Deducono altresì che l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate sarebbe stato effettuato quattro anni dopo l’anno di imposta oggetto di verifica, in epoca, dunque, non solo distante dai fatti per cui si procede, ma altresì ampiamente successiva rispetto alla cessazione dell’attività effettiva della società con conseguente oggettiva impossibilità di produzione dei documenti in ordine ai costi e alle relative registrazioni contabili dunque, la distanza temporale dell’accertamento rispetto alla cessazione dell’attività e l’evidente esistenza di costi sostenuti dalla società a fronte delle fatture attive reperite presso i clienti avrebbero dovuto indurre la Corte a ritenere corretta l’operazione di decurtazione di quei costi. Ciò posto, la Corte territoriale non avrebbe detratto dall’imposta a debito, pari ad Euro 133.910,02, l’imposta a credito nella misura di Euro 109.999,89, determinata dall’Agenzia delle Entrate stessa, che avrebbe consentito di individuare correttamente il saldo a debito I.V.A. nella misura di soli Euro 22.910,13. 3. Con un secondo ed ultimo motivo lamentano la nullità della sentenza per erronea applicazione dellà legge con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 per manifesta illogicità della motivazione in relazione ai criteri di valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo agli imputati. La Corte di appello avrebbe ritenuto immotivatamente che le fatture di vendita emesse dalla Gio.Mi sarebbero state effettivamente incassate ciò che, nella motivazione della sentenza, condurrebbe a far ritenere sussistente la volontà di evasione , senza che tale dato sia mai emerso nel corso del dibattimento ed inoltre avrebbe omesso ancora una volta di valutare l’incidenza dei costi pagati, ossia dell’I.V.A. già versata ai fornitori nella determinazione della imposta dovuta. Sul piano dell’elemento soggettivo, la semplice conoscenza dei ricavi, quand’anche sussistente, non equivarrebbe a conoscenza dell’imposta dovuta e, dunque, al superamento della soglia di punibilità. Considerato in diritto 1. Il primo motivo nonché il secondo, laddove vengono reiterate le medesime doglianze, è inammissibile. Questa Corte segnatamente, da ultimo, Sez. 3, n. 53980 del 16/07/2018, Tirozzi, Rv. 274564, ha già affermato che la sussistenza di costi effettivi non documentati può esplicare effetti sulla determinazione della base imponibile e conseguentemente sulla determinazione dell’imposta, solo con riferimento ai reati concernenti le imposte dirette e non anche con riferimento all’IVA. Si è infatti specificato che detta imposta indiretta è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale che può funzionare solo attraverso la specifica tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale ed ipotetica sussistenza di costi effettivi non registrati che, in quanto tali, non possono esplicare alcun effetto sulla determinazione della base imponibile e, conseguentemente sulla quantificazione dell’imposta evasa con la conseguenza che l’accertamento del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 non può prescindere dall’allegazione documentale dei costi sostenuti. Nè, si è aggiunto, la giurisprudenza secondo cui il giudice penale deve compiere una valutazione che prescinda dal mero dato formale emerso nel corso dell’accertamento tributario, valorizzando il dato fattuale formatosi nel corso del processo ex plurimis Sez. 3, n. 53907 del 01/06/2016 Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014 Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013 , intende scorporare l’accertamento dell’evasione IVA dal dato documentale delle fatture emesse, ma intende neutralizzare il rischio di un’eventuale pregiudiziale di carattere fiscale” e dunque escludere che il giudice penale sia vincolato alle risultanze emerse in sede tributaria, ben potendo, al contrario, svolgere egli stesso una nuova analisi, del tutto automa rispetto al dato formale cristallizzato in sede tributaria, attraverso la quale valorizzare eventuali documenti che l’imputato noni abbia, per qualsiasi ragione, presentato durante l’accertamento fiscale, ma che ben può presentare in sede penale. Quanto poi alla contestazione formulata in ordine allo strumento di accertamento utilizzato nella specie, va ribadito che nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi, ai fini, in generale, della prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati tributari, ivi compreso, evidentemente, quello, contestato nella specie, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria, ciò discendendo, se non altro, dal principio di atipicità dei mezzi di prova operante nel principio penale e di cui è espressione la previsione dell’art. 189 c.p.p., restando peraltro salva la necessità che tali elementi siano, ove necessario, in conformità delle peculiarità dei fatti giudicati e dei rilievi delle parti, fatti oggetto di una autonoma valutazione idonea a coniugare la valorizzazione di tali risultanze con i criteri in generale dettati dall’art. 192 c.p.p., comma 1. È, dunque, per tale, implicita, ma evidente, ragione che questa Corte ha affermato che il giudice penale può legittimamente avvalersi, ai fini della ricostruzione delle imposte dovute e non dichiarate v. tra le altre, Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rocco, Rv. 250647 e Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Ottaiano, Rv. 257619 , dell’accertamento induttivo, mediante gli studi di settore, compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile. 2. Ciò premesso, nella specie appare allora corretto il ragionamento della sentenza impugnata secondo cui le obiezioni difensive, come visto riproposte con il presente ricorso, si infrangono, quanto al primo aspetto, sul piano della non considerata diversa natura dell’imposta sul valore aggiunto rispetto a quella sui redditi puntualmente la Corte territoriale ha evidenziato che, mentre con riguardo alla redditività dell’azienda, vanno considerati i costi sostenuti nell’esercizio dell’attività economica, un’analoga considerazione non può valere con riguardo al calcolo dell’Iva, il cui importo, per la natura dell’imposta, può essere ridotta solo attraverso il meccanismo della detrazione e, quanto a quest’ultima, ha poi sottolineato, in mancanza di allegazione di elementi sul punto da parte degli imputati e di una corretta tenuta della contabilità che, con la registrazione delle fatture di acquisto e la liquidazione dell’Iva pagata in rivalsa avrebbe consentito di ricostruire la somma da porre in detrazione , l’impossibilità di presumere l’avvenuto pagamento dell’Iva ai fornitori nè, hanno concluso i giudici di appello, il consulente della Difesa è stato in grado di fornire elementi utili in ordine alla ricostruzione di un credito Iva, essendosi limitato ad invocare il diritto ad una detrazione da calcolarsi sui costi presunti. Sul piano più generale della utilizzazione dello spesometro, la sentenza impugnata, dopo avere sottolineato la non contestazione dell’esito neppure da parte dei ricorrenti, ha poi richiamato la sentenza di primo grado laddove questa ha ritenuto attendibili, mediante l’utilizzazione delle comunicazioni telematiche provenienti dai clienti della società, e la individuaziohe dei clienti in relazione alle operazioni aventi ammontare più rilevante, e la conseguente acquisizione dagli stessi delle fatture emesse dalla società, i risultati acquisiti. A fronte di tutto ciò il motivo di ricorso reitera, nella sostanza, le doglianze già avanzate alla Corte territoriale e da questa disattese in termini logici e congruenti, insistendo in particolare, quanto al primo profilo, in assunti non congruenti con la struttura dell’imposta sul valore aggiunto. 3. Il secondo motivo, nella parte residuale in cui si contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo, è inammissibile. Correttamente, infatti, la sentenza impugnata ha valorizzato un complesso di elementi ritenuti idonei a far ritenere sussistente il dolo specifico di evasione che deve sorreggere, per espresso dettato del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, il reato di omessa presentazione della dichiarazione tali infatti sono stati ritenuti l’omessa tenuta dei registri Iva e l’entità delle operazioni e dell’Iva, quali elementi in base ai quali potere ricavare l’imposta dovuta e, allo stesso tempo, l’individuazione del superamento della soglia di punibilità di legge, in tal modo finendo per soddisfare i requisiti probatori richiesti sul punto dalla giurisprudenza v. Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022 . Tale argomentazione, allora, certamente non manifestamente illogica, appare insindacabile nella presente sede con conseguente inammissibilità delle doglianze poste, fondamentalmente volte ad ottenere da questa Corte una diversa lettura del compendio probatorio. 4. Il ricorso va dunque rigettato, conseguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.