Sul rapporto di specialità sussistente tra il delitto di truffa e quello di ricorso abusivo al credito

Una volta esaminata la condotta oggetto del reato di ricorso abusivo al credito, la Corte di Cassazione afferma che tra questo ed il delitto di truffa esiste un rapporto di specialità tale per cui il primo assorbe il secondo.

Questo il contenuto della sentenza della Suprema Corte n. 36985/19, depositata il 3 settembre. La vicenda. La Corte d’Appello di Firenze riformava parzialmente la sentenza con cui il GUP aveva condannato l’imputato per diversi reati, tra cui quello di concorso in ricorso abusivo al credito e concorso in truffe ai danni, tra gli altri, di un istituto bancario, delitti ritenuti uniti dal vincolo della continuazione. Contro tale pronuncia, l’imputato propone ricorso per cassazione, lamentando, tra i diversi motivi, la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte per non aver ritenuto il delitto di ricorso abusivo al credito assorbente rispetto a quello di truffa, essendo in presenza di un caso di concorso apparente di norme penale, considerato che le condotte sono identiche. I delitti di ricorso abusivo al credito e truffa. La Suprema Corte dichiara fondato il motivo di ricorso prospettato dal ricorrente, osservando che a seguito della modifica apportata dall’art. 32, comma 1, l. n. 262/2005 all’art. 218, R.D. n. 267/1942, è stata eliminata la clausola di sussidiarietà in base alla quale, nel caso in cui il fatto ricadesse sotto la previsione di entrambe le norme, doveva ritenersi configurato solo il reato di truffa, essendo necessario, a questo punto, verificare se sussista o meno un concorso formale dei reati. La Corte esamina la condotta oggetto del delitto di ricorso abusivo al credito, osservando come esso si configuri quando l’imprenditore, nel ricorrere al credito, abbia tenuto un comportamento decettivo, occultando il proprio stato di dissesto/insolvenza, non essendo necessari artifizi o raggiri nei confronti del creditore, che sono essenziali, invece, ai fini della sussistenza del reato di truffa. Tuttavia, gli Ermellini rilevano che in entrambi i casi l’imprenditore pone in essere una condotta truffaldina, poiché anche nel ricorso abusivo al credito egli approfitta della condizione di ignoranza in cui si trova il creditore, non comunicandogli il cattivo stato patrimoniale in cui versa. Ciò affermato, la Corte rileva che gli elementi caratterizzanti il ricorso abusivo al credito sono la sua natura propria e la necessità dell’intervento di una pronuncia di fallimento, la quale rende attuale e concreto il danno cagionato per via della concessione di nuovo credito a coloro nei cui confronti l’imprenditore era già debitore. Alla luce di quanto esposto, la Corte afferma che tra le due norme sussiste un rapporto di specialità, che consente di individuare nell’art. 218 la norma prevalente, avendo il delitto di ricorso abusivo al credito un’oggettività giuridica più ampia rispetto a quello di truffa, visto che il disvalore di quest’ultimo viene assorbito dal primo, il quale ha lo scopo di tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche di quelli precedenti, essendo esso teso ad evitare che coloro che siano destinati al fallimento facciano ricorso al credito distruggendo risorse economiche che potrebbero essere diversamente impiegate. Anche per questi motivi, la Corte di Cassazione annulla senza rinvio la decisione impugnata, ritenendo assorbito il reato di truffa da quello di ricorso abusivo al credito.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 giugno – 3 settembre 2019, n. 36985 Presidente Sabeone – Relatore Romano Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Appello di Firenze ha parzialmente riformato la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Firenze del 24 marzo 2017 che, all’esito del giudizio abbreviato, ha affermato la penale responsabilità di R.O. per i delitti di concorso in ricorso abusivo al credito di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 218, capo A e bancarotta fraudolenta patrimoniale capo B, punti 1 e 2 , unificati in un unico delitto di bancarotta fraudolenta impropria aggravato ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 1 e per i delitti di concorso nelle truffe ai danni di G.P. capo D , C.U. e P.G. capo E e della Banca Monte dei Paschi di Siena capo F , delitti tutti unificati dal vincolo della continuazione, condannandolo alla pena di giustizia oltre che al risarcimento del danno, da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili, G.P. e P.G. . In particolare la Corte di appello ha applicato le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, riducendo la pena ad anni due di reclusione ed applicando il beneficio della sospensione condizionale della pena. Nello specifico, all’imputato si addebita di avere indotto B.V. , imprenditore titolare della ditta OMISSIS , fallito il 5 giugno 2013, a ricorrere abusivamente al credito, sebbene già insolvente, emettendo fatture per operazioni inesistenti che erano state poi presentate, dal OMISSIS , alla filiale della Banca Monte dei Paschi di Siena ove l’impresa intratteneva un conto anticipo fatture e della quale il R. era direttore in tal modo il B. aveva ottenuto un anticipo pari al 80% dell’importo fatturato. Al R. si addebita pure di avere concorso con il B. nella distrazione di prestazioni rese dalla OMISSIS per Euro 20.000,00 e della somma di Euro 14.000,00 facendosi firmare dal B. due fogli in bianco che erano stati utilizzati come distinte di prelevamento dal conto corrente bancario intrattenuto dall’impresa poi fallita. Inoltre, al R. si addebita di avere indotto G.P. , C.U. e P.G. a richiedere finanziamenti alla banca e a versare le somme così ottenute sul conto intrattenuto presso l’azienda di credito dalla OMISSIS facendo falsamente credere loro ed al B. che quest’ultimo avrebbe presto conseguito un mutuo senior garantito dalla proprietà della sua abitazione pari a Euro 250.000,00, somma che sarebbe stata impiegata per restituire loro le somme versate sul conto della ditta, mentre poi il mutuo non era stato erogato e le somme non erano state restituite. Infine al R. si imputa di avere, in concorso con il B. , indotto in errore la Banca Monte dei Paschi di Siena attraverso l’utilizzo delle false fatture, inducendo l’azienda di credito ad anticipare alla ditta poi fallita un importo pari allo 80% delle somme fatturate. 2. Avverso detta sentenza ricorre per cassazione R.O. , a mezzo del suo difensore, affidandosi a quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 42 e 110 c.p. e art. 218 L. Fall. e manifesta illogicità della motivazione quanto al concorso nel delitto di ricorso abusivo al credito. Nelle sentenze di merito era stato riconosciuto che egli non era l’ideatore del meccanismo attraverso il quale il B. aveva fatto abusivo ricorso al credito, poiché tale meccanismo era stato utilizzato dal fallito già a partire dal XXXX e presso diverse aziende di credito, mentre egli era divenuto direttore della filiale della Banca Monte dei Paschi di Siena solo il OMISSIS , cosicché egli non aveva partecipato alle erogazioni dei finanziamenti relativi a fatture anteriori, che erano state invece curate da Pu.Fr. , diretto interlocutore del B. . Il R. , quindi, non si era comportato diversamente dai direttori di filiale delle altre banche dalle quali il B. aveva ottenuto anticipazioni su fatture false. La Corte di appello aveva affermato la sua penale responsabilità sulla base di presunte anomalie nelle procedure di erogazione delle anticipazioni che in realtà erano insussistenti. In particolare, si era affermato che egli aveva omesso di inviare le raccomandate ai debitori ceduti, mentre le indagini avevano consentito di accertare che tutti i debitori avevano ricevuto comunicazione della cessione dei crediti, ma ad essa avevano omesso di rispondere. Neppure poteva ritenersi rilevante che i debitori non avessero pagato, poiché da tale circostanza poteva desumersi la insolvenza degli obbligati e non quella della OMISSIS . La Corte di appello non aveva adeguatamente motivato sulla attendibilità del B. . Quest’ultimo provava risentimento verso l’odierno ricorrente perché addebitava il fallimento della sua impresa proprio al R. che aveva chiuso i rapporti che essa intratteneva con la banca e aveva chiesto l’immediato rientro delle esposizioni, determinando in tal modo la chiusura dei rapporti bancari della impresa anche presso le altre banche. L’attendibilità del B. non poteva desumersi dalla natura autoaccusatoria delle sue dichiarazioni, poiché la sua responsabilità per i delitti a lui contestati era già evidente. La motivazione in ordine alla attendibilità del coimputato era perfino illogica, atteso che il B. era interessato a spostare sul R. le sue responsabilità e che la affermazione del B. secondo la quale egli, ricevuta dal R. la proposta di ottenere finanziamenti bancari attraverso l’utilizzo di fatture false, si sarebbe confidato con il Pu. , che, venuto a conoscenza della proposta, avrebbe espresso stupore, era palesemente contraddetta dalla circostanza che il B. già ricorreva a tale espediente ancor prima che il R. divenisse direttore della filiale, avvalendosi a tal fine proprio della collaborazione del Pu. , che pertanto non poteva essersi stupito. Le forniture effettuate dalla OMISSIS a favore del R. avevano un valore di appena Euro 2.200,00 che certo non poteva costituire il prezzo del concorso nel ricorso abusivo al credito per un importo di circa Euro 250.000,00. Anche i prelevamenti attraverso i fogli firmati in bianco erano irreali e non consentiti dalla normativa, neppure con l’avallo del direttore della filiale. Anche in ordine alla attendibilità delle deposizioni testimoniali dei truffati, che, essendosi questi costituiti parte civile, doveva essere valutata con particolare rigore, la Corte di appello non aveva dato risposta ai rilievi formulati nell’atto di impugnazione. In particolare si era segnalato che G.P. aveva partecipato alla formazione delle false fatture e che la stessa, come P.G. , aveva interesse a figurare quale vittima di un inesistente raggiro nella speranza di poter recuperare quanto versato al B. . Neppure era credibile che il B. , di età avanzata e pesantemente esposto verso le banche, potesse ottenere un mutuo garantito da ipoteca sulla abitazione pur non disponendo di redditi adeguati a far fronte alle rate del mutuo stesso. Quanto al Pu. , egli era interessato ad allontanare da sé la responsabilità di avere curato le pratiche di anticipazione su fatture. La Corte di appello, in relazione a tali rilievi, si era limitata ad affermare che era difficile credere che il B. , il Pu. , la G. e gli altri potessero essersi accordati allo scopo di calunniare il R. , senza tenere conto che ognuno dei testi aveva ben più di un motivo per affermare il falso. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, quanto al delitto di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale, violazione degli artt. 42 e 110 c.p. e art. 216 L. Fall. e manifesta illogicità della motivazione. La modestia delle prestazioni conseguite dall’imputato rendevano inconsistente l’accusa e comunque egli non era a conoscenza della condizione di insolvenza in cui versava l’impresa, contraddetta dai suoi bilanci. 2.3. Con il terzo motivo lamenta, quanto ai delitti di truffa a lui contestati, violazione dell’art. 640 c.p. e manifesta illogicità della motivazione. La Guardia di finanza non aveva sequestrato alcun documento relativo alla erogazione del finanziamento tramite il mutuo senior che il B. avrebbe dovuto conseguire e peraltro mai avrebbe potuto, non essendo credibile che il B. , di età avanzata e pesantemente esposto verso le banche, potesse ottenere ulteriore credito. La Corte di appello aveva invece creduto ai testi che avevano affermato di essere stati raggirati dal R. , osservando che essi potevano essere stati indotti a chiedere i finanziamenti e a mettere le somme così ottenute a disposizione del B. solo perché indotti a credere in una temporanea difficoltà dell’imprenditore che si sarebbe presto risolta con l’erogazione del mutuo. In realtà i testi erano tutti a perfetta conoscenza delle disperate condizioni in cui versava il B. e si erano indotti ad aiutarlo perché a lui legati da vincoli familiari P. o perché speravano di subentrare nella titolarità dell’impresa G. . Inoltre, anche se il mutuo fosse stato erogato, il relativo importo sarebbe stato integralmente assorbito dai ben maggiori crediti che la banca vantava verso l’imprenditore, cosicché non era sostenibile che essi confidassero nell’erogazione del mutuo per poter rientrare nella disponibilità delle somme date in prestito al B. . 2.4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione di legge sostenendo, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza La Marca Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 27090201 e dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016, che la condotta descritta al capo A dell’imputazione assorbe il reato di truffa ai danni della banca contestato al capo F , essendo identiche le due condotte e ricorrendo, quindi, un’ipotesi di concorso apparente di norme penali. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti. 2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono inammissibili. La Corte di appello ha fornito ampia ed adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali, pur a fronte dei rilievi contenuti nell’atto di appello, ha ritenuto attendibili le dichiarazioni accusatorie del B. , evidenziando che esse sono solo uno degli elementi che hanno condotto all’affermazione della sua penale responsabilità. Anche in ordine alle deposizioni degli altri testimoni la Corte di appello ha illustrato le ragioni per le quali anch’esse risultano attendibili e riscontrate, fornendo una motivazione esente da illogicità o contraddittorietà evidenti. Le censure del ricorrente risultano attinenti esclusivamente al merito, in quanto dirette a sovrapporre all’interpretazione delle risultanze probatorie operata dal giudice una diversa valutazione dello stesso materiale probatorio per arrivare ad una decisione diversa, e come tali si pongono all’esterno dei limiti del sindacato di legittimità. La decisione del giudice di merito non può essere invalidata da ricostruzioni alternative che si risolvano in una mirata rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482 Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148 Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507 . Quanto al valore dei beni oggetto del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la Corte di appello ha illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto dimostrato il valore di Euro 20.000,00 delle prestazioni rese dalla OMISSIS in favore del R. in assenza di corrispettivo e provato che il R. fosse stato destinatario di somme prelevate dai conti correnti intestati alla ditta fallita. Anche in relazione a tali aspetti, la motivazione della sentenza di appello non presenta illogicità o contraddizioni evidenti e comunque i giudici di secondo grado hanno avuto cura di precisare che la sussistenza del reato è indipendente dal valore dei beni oggetto di distrazione e che il R. ben sapeva che l’impresa versava in condizioni di insolvenza. 3. Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Anche in questo caso il ricorrente si duole della ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito e chiede a questa Corte una non consentita rivalutazione del materiale istruttorio. 4. È invece fondato il quarto motivo. Prima che la L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 32, comma 1, modificasse il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 218, non era possibile il concorso formale tra il delitto di ricorso abusivo al credito e quello di truffa, atteso che il citato art. 218 conteneva una clausola di riserva che rendeva applicabile il delitto fallimentare solo in via sussidiaria, nel caso in cui il fatto non costituisse un delitto più grave. Poiché il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di anni due di reclusione, mentre il massimo edittale della truffa era pari ad anni tre di reclusione, nel caso in cui il fatto fosse ricaduto sotto la previsione di entrambe le norme incriminatrici, doveva ritenersi configurabile il solo delitto di truffa Sez. 2, n. 5562 del 13/02/1986, Maniglia, Rv. 17312401 . La L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 32, comma 1, ha modificato il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 218, eliminando la clausola di sussidiarietà, cosicché sorge il problema di verificare se sia configurabile il concorso formale dei reati e, in caso negativo, come debba essere risolto. L’assunzione di ulteriore debito da parte di chi esercita un’attività d’impresa e già versi in condizioni finanziarie e patrimoniali tali da rendere improbabile il suo futuro adempimento è condotta che reca danno non solo al patrimonio del soggetto che concede il nuovo credito e che dovrà sopportare il danno derivante dell’eventuale inadempimento - come avviene nel caso della truffa -, ma anche agli interessi di coloro che sono divenuti creditori in virtù di un titolo anteriore poiché essi, in caso di insolvenza, concorreranno con il nuovo creditore e ciascuno di essi parteciperà in misura inferiore al riparto dell’attivo fallimentare. Tale differenza giustifica la punibilità di ufficio del delitto di ricorso abusivo al credito. Il delitto, tuttavia, sussiste solo nel caso in cui l’imprenditore, nel ricorrere o nel continuare a ricorrere al credito, abbia fatto ricorso ad un comportamento decettivo, dissimulando il proprio stato di dissesto o di insolvenza non è necessario, invece, che egli, allo scopo di convincere il futuro creditore, non si sia limitato a nascondere le sue condizioni, mantenendo l’altro contraente nella sua originaria condizione di ignoranza, ma abbia fatto ricorso a veri e propri artifizi o raggiri allo scopo di indurre in errore l’altro contraente, che invece sono essenziali per la sussistenza del delitto di truffa. In entrambi i casi, tuttavia, vi è un comportamento truffaldino. Nel ricorso abusivo al credito l’imprenditore approfitta della condizione di ignoranza in cui il creditore si trova, astenendosi dal comunicargli le cattive condizioni patrimoniali o finanziarie in cui egli si trova. La sua condotta è simile a quella dell’insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 c.p. che pure rientra tra i delitti contro il patrimonio commessi mediante frode. Gli elementi che, invece, caratterizzano il ricorso abusivo al credito sono la natura propria del delitto di cui al citato art. 218 - che può essere commesso solo dall’imprenditore e dagli altri soggetti previsti da detta disposizione e non da chiunque, come invece previsto dall’art. 640 c.p. - e la necessità, per la configurabilità del delitto fallimentare, dell’intervento della pronuncia di fallimento. Difatti secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte di Cassazione è ormai pacifico che il delitto di ricorso abusivo al credito, anche dopo la sua modifica per effetto della L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 32, comma 1, è punibile solo laddove intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento vedi Sez. 5, n. 44857 del 23/09/2014, Graziani, Rv. 26131201 . Del resto proprio la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento rende concreto ed attuale il danno cagionato, per effetto della concessione di nuovo credito, a coloro nei cui confronti l’imprenditore già era debitore, come si è già esposto sopra. Sulla base di quanto sopra esposto, non vi è dubbio che tra le due norme sussista un rapporto di specialità che, ai sensi dell’art. 15 c.p., consente di individuare nell’art. 218 L. Fall. la disposizione prevalente. Difatti, il delitto di ricorso abusivo al credito ha un’oggettività giuridica più ampia di quello di truffa, atteso che il disvalore di questo delitto viene assorbito in quello del reato fallimentare che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell’interesse pubblico dell’economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito distruggendo risorse economiche che potrebbero essere impiegate più proficuamente proprio per tale ragione, il delitto di cui al citato art. 218 si caratterizza per più elementi specializzanti rispetto alla truffa, ossia per la particolare qualità che deve rivestire il soggetto attivo e la necessità che alla condotta segua la sentenza dichiarativa di fallimento, necessaria affinché il danno non resti limitato al soggetto che ha concesso nuovo credito. 5. Nel caso di specie non vi è dubbio che la condotta che integra il delitto di cui al capo F sia la medesima contestata al capo A , cosicché, in applicazione dei principi sopra esposti, il reato di cui al capo F deve ritenersi assorbito in quello contestato al capo A . Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nella parte in cui condanna il ricorrente per il delitto di truffa ai danni della banca capo F , assorbito nel delitto di cui all’art. 218 L. Fall., e la pena deve essere rideterminata escludendo l’aumento di pena per la continuazione con detto reato, in anno uno, mesi dieci e giorni venti di reclusione. 6. Deve pure essere rilevata l’illegalità delle pene accessorie la cui durata è stata determinata, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella misura fissa di anni dieci. Difatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato, con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la illegittimità del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella parte in cui determina nella misura fissa di anni dieci la durata della pena accessoria da essa prevista. L’illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso è inammissibile Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017 - dep. 2018, C, Rv. 27209001, che ha eliminato la pena accessoria di cui all’art. 609-nonies c.p., comma 2, illegalmente applicata poiché il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori . Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, la pena accessoria inflitta con la sentenza impugnata in questa sede è divenuta illegale, cosicché la sentenza impugnata in questa sede deve, in tale parte, essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze. Peraltro, a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale, le Sezioni Unite hanno recentemente affermato, con sentenza adottata all’udienza del 28 febbraio 2019, che la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri fissati dall’art. 133 c.p. e non in misura pari a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 c.p P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata quanto al capo F dell’imputazione ritenuto assorbito dal delitto di cui al capo A e per l’effetto elimina la relativa pena di giorni quaranta di reclusione. Annulla la medesima sentenza limitatamente alle pene accessorie previste dall’art. 216 L. Fall., u.c., con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.