Misure cautelari personali nel caso in cui l’indagato sia privo di fissa dimora

La Corte di Cassazione pone a confronto il limite edittale contenuto nel comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. con quello oggetto dell’art. 280, comma 2, c.p.p., dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in relazione a quest’ultima disposizione nei confronti dell’art. 3 della Costituzione.

Questo il contenuto della decisione della Suprema Corte n. 31204/19, depositata il 16 luglio. La vicenda. Il Tribunale di Firenze confermava l’ordinanza emanata dallo stesso in composizione monocratica, convalidando l’arresto dei due imputati ritenuti responsabili per i reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, e confermando l’applicazione della misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Contro la suddetta ordinanza, propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, lamentando la violazione dell’art. 280, comma 2, c.p.p., non avendo il Giudice rispettato il criterio di razionalità imposto dall’art. 3 Cost. poiché egli non ha distinto i casi in cui sia praticabile in luogo della custodia cautelare in carcere la misura degli arresti domiciliari dai casi in cui essa non sia applicabile verso soggetti privi di fissa dimora, come nel caso di specie. Tra gli altri motivi di ricorso, il Procuratore solleva altresì una questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione in relazione all’art. 3 Cost., laddove introduce un’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti con e senza fissa dimora, riservando solo ai primi la misura degli arresti domiciliari. Custodia cautelare e limiti edittali. La Suprema Corte rigetta il ricorso. Quanto alla giurisprudenza richiamata dal ricorrente ai fini dell’accoglimento dell’interpretazione secondo cui, nel caso in cui manchi un luogo ove eseguire gli arresti domiciliari, la custodia cautelare potrebbe applicarsi al di là dei limiti edittali ex art. 280 c.p.p. sempre che le altre misure siano inidonee a soddisfare le esigenze cautelari , gli Ermellini osservano che essa trova fondamento nel tenore letterale del comma 2- bis e del comma 3 dell’art. 275 c.p.p Tale norma, infatti, contiene due disposizioni che si pongono in una relazione di regola-eccezione, prevedendo, da un lato, che la misura della custodia cautelare in carcere non possa applicarsi qualora il giudice ritenga che la pena detentiva da irrogare non sarà superiore ai tre anni, mentre il successivo comma 3 prevede che la custodia cautelare in carcere possa essere disposta solo qualora le altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. Ciò posto, la Corte osserva come la suddetta giurisprudenza non si riferisca al limite contenuto nell’art. 280 c.p.p., con la conseguenza che, in caso di indisponibilità di un domicilio, potrà superarsi il limite di tre anni fissato dal comma 2- bis dell’art. 275 e non anche il limite dei cinque anni fissato dall’art. 280, considerando che quest’ultimo è posto in via generale e astratta mentre il primo deve essere valutato caso per caso, attraverso una prognosi della pena detentiva che sarà irrogata. Da quanto appena esposto, la Corte elabora il principio di diritto in base al quale la disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 275, comma 2- bis , c.p.p. non può essere interpretata nel senso di permettere l’applicazione della custodia cautelare in carcere, derogando al disposto dell’art. 280, comma 2, c.p.p. – che la consente solo per i reati per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni – qualora gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, comma 1, c.p.p. . Questione di legittimità costituzionale. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente e riguardante la violazione dell’art. 3 Cost. da parte dell’art. 280, comma 2, c.p.p. viene dichiarata infondata, stante il carattere eccezionale dell’ultimo periodo dell’art. 275, comma 2- bis , c.p.p., e disomogeneo rispetto all’art. 280, visto che consente l’applicazione della custodia cautelare a soggetti privi di domicilio in deroga al limite dei tre anni previsto dal precedente periodo, e concerne un limite da valutarsi comunque in concreto, non avendo nulla a che vedere con il limite posto dall’art. 280. Da ciò deriva l’impossibilità di utilizzare l’art. 275, comma 2- bis come tertium comparationis nell’ambito di un giudizio di ragionevolezza vertente sull’art. 280, non potendosi operare un paragone con discipline derogatorie a carattere eccezionale ovvero disomogenee nella struttura. Dunque è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 280, comma 2, c.p.p., in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente la custodia cautelare per i reati per i quali sia prevista la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, qualora gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, comma 1, c.p.p. . Alla luce di quanto esposto, gli Ermellini rigettano il ricorso del Procuratore della Repubblica.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 14 marzo – 16 luglio 2019, n. 31204 Presidente Ramacci – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 5 novembre 2018, il Tribunale di Firenze ha confermato l’ordinanza del Tribunale di Firenze, in composizione monocratica, del 12 settembre 2018, di convalida di arresto e di applicazione della misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti di Z.N. e B.L. , rigettando l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze in punto di scelta della misura cautelare. In particolare, gli indagati erano stati arrestati in quanto colti in flagranza di reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 110, art. 81, comma 2, e art. 73, comma 5, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, sia in concorso tra loro che separatamente, spacciato e detenuto a fini di spaccio sostanze stupefacenti di diversa natura. In particolare, l’ordinanza del 12 settembre 2018 era stata impugnata dal pubblico ministero, sul rilievo che la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria fosse inidonea a prevenire la reiterazione dei reati, per l’ampia possibilità di movimento che essa consentiva. Non essendo ritenuta praticabile la misura degli arresti domiciliari, dal momento che gli imputati erano senza fissa dimora, il pubblico ministero aveva richiesto l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o, in subordine, la misura del divieto di dimora nel territorio del circondario di Firenze, luogo della commissione dei fatti. Il Tribunale ha rigettato l’appello del pubblico ministero, in quanto i reati di cui si tratta, espressamente qualificati nella stessa domanda cautelare come ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in considerazione dei limiti edittali, non consentono l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, neppure nel caso in cui sia stato operato l’arresto in flagranza, tenuto conto del richiamo contenuto nell’art. 391 c.p.p., comma 5, ai soli casi di arresto facoltativo in flagranza di cui all’art. 381, comma 2. Lo stesso Tribunale ha ritenuto non praticabile, nella specie, la misura degli arresti domiciliari, trattandosi di soggetti senza fissa dimora, e ha ritenuto non confacente al caso di specie la misura del divieto di dimora nel territorio del circondario di Firenze, richiesta in subordine dalla Procura, in quanto, a causa dell’indole degli imputati, lo spostamento di territorio non precluderebbe in alcun modo la realizzazione di una nuova rete di spaccio e di contatti nel mondo del narcotraffico. 2. - Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze. 2.1. - Con un primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 280 c.p.p., comma 2, come modificato dal D.L. n. 78 del 2013, art. 1 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 94 del 2013. Secondo le prospettazioni dell’accusa, l’interpretazione data dal giudice alla disposizione normativa di cui all’art. 280 c.p.p., comma 2, non rispetta il criterio di razionalità di cui all’art. 3 Cost., perché non distingue i casi ove sia praticabile - in alternativa alla custodia cautelare in carcere - la misura degli arresti domiciliari dai casi dove questa non sia concretamente applicabile, come, nella fattispecie in esame, nei confronti di soggetti senza fissa dimora. A parere del ricorrente - che richiama giurisprudenza di legittimità a conforto della sua ricostruzione - sarebbe errato l’automatismo interpretativo per cui si esclude a priori - per i soggetti privi di un idoneo domicilio - l’applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere per i reati per i quali sia prevista la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, alla luce anche del fatto che esistono precedenti giurisprudenziali specifici di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere anche nel caso in cui il giudice abbia irrogato una pena detentiva inferiore a tre anni, qualora ogni altra misura si riveli inadeguata e gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza del luogo di esecuzione. In conclusione, l’interpretazione secondo cui, ove manchi il luogo di esecuzione, deve applicarsi una misura cautelare più blanda di quella che si applicherebbe a un soggetto dotato di domicilio determina una palese violazione dell’art. 3 Cost., oltre ad una rinuncia alla tutela sociale della collettività in relazione ai reati commessi dai senza fissa dimora . 2.2. - Con un secondo motivo di ricorso, il ricorrente propone questione di legittimità costituzionale dell’art. 280 c.p.p., comma 2, per violazione dell’art. 3 Cost., nella misura in cui introduce una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti senza fissa dimora e soggetti che invece dispongono di un domicilio, dal momento che nei confronti di questi ultimi è applicabile, se del caso, la misura degli arresti domiciliari, mentre nei riguardi dei primi è applicabile solo una misura di carattere non custodiale stante la mancanza di un luogo idoneo all’esecuzione e ciò sarebbe totalmente irragionevole. Secondo il pubblico ministero, sebbene il sistema giuridico sia orientato nel senso di applicare una misura cautelare che sia confacente al caso di specie e applicare la misura custodiale in carcere solo ove ogni altra misura sia inadeguata, va considerato che il sistema delle misure cautelari non ha natura punitiva ma special-preventiva, e ciò implica la necessità di sceglierne una che impedisca la reiterazione dei reati ciò che non avviene nel caso di specie, ove la scelta dell’obbligo di presentazione presso la polizia giudiziaria lascia agli imputati la possibilità di commettere altri reati di spaccio, qualora lo volessero, pur rispettando la prescrizione imposta. Si sostiene, infine, che le presunzioni assolute, quale quella dell’applicabilità della custodia cautelare solo ove sia stato commesso un delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit, e che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa Corte Cost. n. 139/2010 . Considerato in diritto 3. - Il ricorso è infondato. 3.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si lamenta l’erronea interpretazione dell’art. 280 c.p.p., comma 2, come modificato dal D.L. n. 78 del 2013, art. 1 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 94 del 2013 - è infondato. 3.1.1. - Deve premettersi che ad entrambi gli imputati è stata contestata la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, la quale, però, non assume rilevanza per la determinazione della pena agli affetti dei limiti fissati per la custodia cautelare. Infatti, secondo l’art. 278 c.p.p., agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva, e delle circostanze del reato . Del resto, l’irrilevanza della recidiva ai fini dell’applicazione delle misure cautelari è espressamente confermata dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, ai fini della verifica dei limiti edittali stabiliti per l’arresto in flagranza, e, più in generale, della determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure cautelari, non si deve tener conto della recidiva reiterata. Vedi Corte Cost., sentenza n. 223 del 2006 Cass., sez. II, n. 29142 del 2008, e sez. VI, n. 21546 del 2009, non massimate Sez. U., n. 17386 del 24/02/2011 . Nel caso di specie, dunque, la pena alla quale deve farsi riferimento ai fini delle misure cautelari personali è quella di quattro anni di reclusione, fissata quale massimo edittale dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, divenuto fattispecie autonoma di reato nella sua formulazione più recente, introdotta dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 24-ter, lett. a , convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79. 3.1.2. - Fatta questa premessa, deve essere esaminata la giurisprudenza di legittimità citata dal ricorrente a sostegno dell’interpretazione secondo cui, nel caso della mancanza di un luogo dove eseguire gli arresti domiciliari, la custodia cautelare potrebbe essere applicata anche al di là dei limiti edittali di cui all’art. 280 c.p.p., qualora ogni altra misura risultasse inidonea a soddisfare le esigenze cautelari. Si è, in particolare, affermato che Il divieto, ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 2 bis, di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso in cui il giudice abbia irrogato una pena detentiva inferiore a tre anni, non impedisce di adottare la più grave misura cautelare qualora ogni altra misura si riveli inadeguata e gli arresti domiciliari non possono essere disposti per mancanza del luogo di esecuzione ex plurimis, Sez. 5, n. 7742 del 04/02/2015 Sez. 4 n. 43631 del 18/09/2015 , orientamento corroborato dalla pronuncia secondo cui I limiti di applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere previsti dall’art. 275 c.p.p., comma 2 bis, secondo periodo, testo introdotto dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 117 possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma 3, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva ex plurimis, Sez. 2, n. 46874 del 14/07/2016 Sez. 3, n. 32702 del 27/02/2015 . Si tratta di un’interpretazione che trova fondamento nel tenore testuale delle due disposizioni in questione, le quali sono espressamente poste in una relazione di regola-eccezione dall’ultima parte del citato comma 2-bis. Esso infatti prevede, per la parte che qui rileva, che, Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità dell’art. 276, comma 1-ter, e art. 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli artt. 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis c.p., nonché alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, comma 1, del presente codice mentre il successivo comma 3, primo periodo, prevede che La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate . A ben vedere, però, la giurisprudenza in questione non si riferisce al limite stabilito dall’art. 280, il quale fissa le condizioni generali di applicabilità delle misure coercitive, disponendo che, 1. Salvo quanto disposto dai commi 2 e 3 del presente articolo e dall’art. 391, le misure previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. 2. La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui alla L. 2 maggio 1974, n. 195, art. 7, e successive modificazioni . E la disposizione di cui al comma 2 è stata così modificata dal D.L. n. 78 del 2013, art. 1 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 94 del 2013, il quale ha sostituito con il limite di cinque anni il precedente limite di quattro anni, intervenendo nello stesso senso anche sull’art. 274, comma 1, lett. c . La deroga consentita dalla richiamata giurisprudenza, sulla scia del tenore letterale delle disposizioni anche successivo alla modifica del 2013, riguarda, infatti, solo i rapporti fa l’art. 275 c.p.p., comma 2-bis e il comma 3 con la conseguenza che, in caso di indisponibilità di un domicilio, si può superare solo il limite dei tre anni fissato dal richiamato comma 2-bis e non anche al limite di cinque anni fissato, in via generale, dall’art. 280. E ciò, sia perché l’art. 275 non contiene una disposizione di chiusura che consenta una deroga all’art. 280, neanche nella sua attuale formulazione, sia perché i limiti di pena contemplati dalle due disposizioni hanno una struttura diversa quello dell’art. 275, comma 2-bis, è un limite da valutarsi in concreto, caso per caso, attraverso una prognosi della pena detentiva che sarà irrogata quello dell’art. 280 ha, invece, carattere astratto, essendo ancorato al solo dato sanzionatorio edittale. Ne consegue che l’interpretazione proposta dal pubblico ministero con il primo motivo di ricorso - alternativa rispetto a quella fatta propria dal Tribunale - deve essere ritenuta impraticabile. 3.2. - Si pone, dunque, il problema della compatibilità con la Costituzione dell’interpretazione del limite di cinque anni per la custodia cautelare fissato dall’art. 280 c.p.p., comma 2, come insuperabile compatibilità messa in dubbio dal ricorrente con il secondo motivo di doglianza, con cui si propone questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, per violazione dell’art. 3 Cost., nella misura in cui introduce, con la modifica ad opera del D.L. n. 78 del 2013, una disparità di trattamento ritenuta ingiustificata - tra soggetti senza fissa dimora e soggetti che invece dispongono di un domicilio, dal momento che nei confronti di questi ultimi è applicabile, se del caso, la misura degli arresti domiciliari, mentre nei riguardi dei primi è applicabile solo una misura di carattere non custodiale, stante la mancanza di un luogo idoneo all’esecuzione. Inoltre, il pubblico ministero lamenta che l’applicabilità della custodia cautelare solo ove sia stato commesso un delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni rappresenta una presunzione assoluta e viola, perciò, il principio di eguaglianza, in quanto arbitraria e irrazionale, ovvero non rispondente a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit . La questione è manifestamente infondata. Come già evidenziato, la disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 275, comma 2-bis, ha carattere eccezionale ed è disomogenea rispetto a quella dell’art. 280. Deve infatti ribadirsi, sotto il primo profilo, che essa consente di applicare la custodia cautelare a soggetti privi di domicilio, derogando al limite di tre anni fissato in generale nel precedente periodo dello stesso comma. Quanto, poi, al secondo profilo, essa si riferisce a un limite da valutarsi in concreto, caso per caso, attraverso una prognosi della pena detentiva che sarà irrogata e, perciò, non ha nulla a che vedere con il limite di dell’art. 280, comma 2, che - come quello del precedente comma 1 dello stesso articolo - ha carattere astratto, essendo riferito al solo dato edittale, e prescindendo da una prognosi del trattamento sanzionatorio. Non è dunque possibile utilizzare l’art. 275, comma 2-bis, quale tertium comparationis in un giudizio di ragionevolezza avente ad oggetto l’art. 280, perché, sul piano costituzionale, non si può operare un paragone con discipline derogatorie a carattere eccezionale o disomogenee quanto alla struttura ex plurimis, C. Cost., ord. n. 344 del 2008, ord. n. 178 del 2006 . Manifestamente insussistente è anche la pretesa incostituzionalità della presunzione assoluta contenuta nell’art. 280, comma 2, a norma del quale la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Il pubblico ministero cita, sul punto, le sentenze C. Cost. nn. 57 del 2013, 110 del 2012, 331, 231, 164 del 2011, 265 del 2010, sostenendo che tale presunzione sarebbe arbitraria perché violerebbe dati di esperienza generalizzati. A ben vedere, però, la giurisprudenza costituzionale richiamata si riferisce, non a un limite quantitativo generale e astratto, quale quello fissato dall’art. 280, comma 2, ma alla fattispecie, del tutto diversa, della doppia presunzione, in malam partem per alcuni reati, che trova il suo modello e la sua disciplina generale nell’art. 275, comma 3, secondo cui è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure . E anche la sentenza n. 139 del 2010, parimenti richiamata dal ricorrente, si riferisce ad una presunzione assoluta, quella fissata dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, comma 4-bis, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia , nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria. Confrontando le presunzioni assolute effettivamente fissate da tali disposizioni con la previsione dell’art. 280, comma 2, emerge con chiarezza che quest’ultima non ha affatto il carattere di presunzione assoluta, perché non sostituisce un giudizio di fatto che il giudice dovrebbe normalmente operare, limitandosi a fissare in via generale un limite quantitativo che nulla a che vedere con la valutazione di una situazione concreta. Da quanto precede consegue che l’incoerenza segnalata dal pubblico ministero assume, al più, i connotati di un inconveniente di fatto, che si verifica qualora - come nel caso del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, - la pena edittale massima sia abbastanza elevata quattro anni ma non tanto da raggiungere il limite di cinque anni fissato dall’art. 280 c.p.p., comma 2, e non può evidentemente comportare un’incostituzionalità del sistema dei limiti elaborato dal legislatore per garantire la minima compressione della libertà personale, contemperandola con le esigenze cautelari. 3.3. - Deve, per completezza, evidenziarsi che sarebbe possibile, in astratto, individuare quale oggetto di una diversa questione di illegittimità costituzionale, rilevante nel caso di specie, il sistema rappresentato dall’art. 391, comma 5, e art. 381, commi 1 e 2, in relazione alla previsione dell’art. 280 c.p.p La prima di tali disposizioni, infatti, nel disciplinare la convalida dell’arresto o del fermo, prevede che, Se ricorrono le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 e taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274, il giudice dispone l’applicazione di una misura coercitiva a norma dell’art. 291. Quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza, l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 274, comma 1, lett. c , e art. 280 . Per quanto qui rileva, essa fissa, dunque, un’eccezione espressa all’applicazione dei limiti - quantitativi di pena stabiliti dall’art. 280, senza estenderla a tutti i casi di arresto facoltativo in flagranza, ma limitandola ai soli reati elencati nel comma 2 dell’art. 381. In tale eccezione non sono dunque ricompresi i reati del comma 1 dell’art. 381, ovvero la categoria generale dei delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero dei delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, categoria nella quale rientra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, contestato nel presente procedimento. Il mancato richiamo del comma 1 dell’art. 381 da parte dell’art. 391 c.p.p., comma 5, potrebbe configurare, dunque, una violazione del principio di uguaglianza, per disparità di trattamento. Anche tale questione è, però, manifestamente infondata, perché le categorie di reati contemplati dai commi 1 e 2 dell’art. 381 c.p.p. sono disomogenee. Il comma 1 è infatti costruito con riferimento a limiti quantitativi generali di pena, mentre il comma 2 comprende, a prescindere dalle pene edittali, una serie di reati per i quali, per l’allarme sociale che destano, il legislatore ha ritenuto comunque di consentire l’arresto facoltativo in flagranza. E proprio la particolare conformazione di tale seconda categoria, alla quale appartengono reati di diversa gravità - alcuni dei quali, come quello previsto dall’art. 646 c.p. rientrerebbero anche nella categoria del precedente comma 1 - ha indotto lo stesso legislatore a consentire, solo per questa, il superamento dei limiti fissati dall’art. 280, ai fini dell’applicazione delle misure cautelari. A ciò può aggiungersi che il richiamo dell’art. 391, comma 5, all’art. 381, comma 2, nel consentire l’applicazione della misura custodiale carceraria al di fuori dei limiti generali, potrebbe porre a sua volta problemi di legittimità costituzionale, essendo riferita anche a fattispecie punite con pene relativamente poco elevate e, dunque, non ritenute dal legislatore particolarmente gravi. 4. - Il complesso delle argomentazioni che precedono consente di formulare i seguenti principi di diritto, rilevanti nel caso di specie 1 la disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 275 c.p.p., comma 2-bis, non può essere interpretata nel senso di permettere l’applicazione della custodia cautelare, derogando al disposto dell’art. 280 c.p.p., comma 2, - che la consente solo per i reati per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni - qualora gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284 c.p.p., comma 1 2 è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 280 c.p.p., comma 2, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente la custodia cautelare per i reati per i quali sia prevista la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, qualora gli. arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284 c.p.p., comma 1 3 è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 391 c.p.p., comma 5, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente la custodia cautelare per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, non permettendo di derogare ai limiti di pena fissati dall’art. 280 per i reati di cui all’art. 381 c.p.p., comma 1, ma solo per quelli di cui al successivo comma 2 dello stesso articolo. 5. - Il ricorso del pubblico ministero deve essere, dunque, rigettato. P.Q.M. Rigetta il ricorso del pubblico ministero.