Gli Ermellini tornano sull’espulsione dello straniero disposta dal magistrato di sorveglianza

Il divieto di rientro dello straniero nel territorio dello Stato in caso di espulsione disposta, ai sensi dell’art. 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998, a titolo di sanzione sostituita o alternativa alla detenzione deve ritenersi fissato per la durata di 10 anni dall’esecuzione del relativo provvedimento.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 26873/19, depositata il 18 giugno. Il caso. Il magistrato di sorveglianza preso atto che la pena residua che doveva espiare un cittadino straniero era inferiore ai 2 anni, disponeva l’espulsione dello stesso. Avverso tale provvedimento proponeva incidente di esecuzione lo stesso straniero sul presupposto che, non avendo il magistrato di sorveglianza determinato la durata dell’espulsione, l’originario divieto di rientro dovesse ritenersi fissato in 5 anni e, dal momento che il soggetto aveva fatto rientro in Italia nel sesto anno successivo all’espulsione, il reingresso avrebbe dovuto ritenersi legittimo, con conseguente divieto di ripristino dello stato di detenzione. La Corte d’Appello disponeva la revoca dell’ordine di carcerazione nei confronti dello straniero. Avverso tale decisione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ricorre per cassazione. Il divieto di rientro dello straniero . Secondo il ricorrente la previsione, da un lato, di un termine minimo di durata del divieto di reingresso del soggetto espulso per il caso in cui sia disposta dal giudice della cognizione e individuato in 5 anni e l’assenza, dall’altro lato, di una analoga disposizione per il caso in cui l’espulsione sia disposta dal magistrato di sorveglianza, porterebbe alla conclusione che, in questo secondo caso, il termine in questione coinciderebbe con quello di 10 anni stabilito per l’estinzione della pena, dall’art. 16, comma 8, d.lgs. n. 286/1998. Pertanto la S.C. afferma che il divieto di rientro dello straniero nel territorio dello Stato in caso di espulsione disposta a titolo di sanzione sostituita o alternativa alla detenzione deve ritenersi fissato per la durata di 10 anni dall’esecuzione del relativo provvedimento, poiché il limite dei 5 anni deve riferirsi all’espulsione ordinata in via amministrativa o all’espulsione disposta come sanzione alternativa alla detenzione. Da ciò l’annullamento dell’ordinanza impugnata con trasmissione degli atti al PM competente per l’esecuzione.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 7 marzo – 18 giugno 2019, n. 26873 Presidente Di Tommasi – Relatore Renoldi Ritenuto in fatto 1. Con provvedimento in data 21/9/2011, il Magistrato di sorveglianza di Catanzaro, preso atto che la pena residua che D.G. doveva espiare in virtù del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso in data 23/11/2007 dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia era inferiore ai 2 anni, ne aveva disposto l’espulsione ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 2, lett. b e art. 16, commi 5 e 6 espulsione eseguita, in data 31/1/2012, dalla Questura di Brindisi. In data 26/2/2018 i Carabinieri del Comando Stazione di Strada in Chianti avevano fermato D. nel territorio dello Stato e, per tale motivo, non essendo spirato il termine decennale di estinzione della pena previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 8, la Procura generale di Venezia, in data 27/2/2018, aveva emesso, nei confronti del predetto, ordine di esecuzione per l’espiazione della pena di 1 anno, 2 mesi e 4 giorni di reclusione. Avverso tale provvedimento aveva proposto incidente di esecuzione lo stesso D. , sul presupposto che, non avendo il Magistrato di sorveglianza determinato la durata dell’espulsione, l’originario divieto di rientro dovesse ritenersi fissato in cinque anni, analogamente a quanto previsto all’art. 16, comma 1 bis, del citato decreto legislativo. E dal momento che D. aveva fatto rientro nel territorio dello Stato nel sesto anno successivo all’espulsione, il reingresso avrebbe dovuto ritenersi legittimo, con conseguente divieto di ripristino dello stato di detenzione di cui ai sensi dell’ultima parte del citato comma 8. 2. Con ordinanza in data 18/4/2018, la Corte di appello di Venezia, in sede di giudizio di esecuzione, dispose nei confronti di D.G. , la revoca dell’ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale presso la Corte di appello di Venezia in data 27/2/2018 n. 425/2007 SIEP . Il Collegio, infatti, ritenne infondata la tesi difensiva secondo cui il termine massimo del divieto di reingresso fosse quello di cinque anni decorrenti dall’avvenuta espulsione in base all’art. 11 della c.d. Direttiva Rimpatri 2008/115/UE , in relazione al quale la sentenza 6/12/2012 della Prima Sezione della Corte di Giustizia di Lussemburgo causa C-430/11 aveva precisato come gli Stati nazionali non possano applicare una disciplina penale tale da compromettere l’applicazione delle procedure e delle norme comuni sancite dalla richiamata Direttiva. Ciò in quanto l’art. 2 della Direttiva prevede espressamente che tale disciplina non è necessariamente applicabile alle situazioni in cui l’espulsione sia prevista quale sanzione penale ovvero quale conseguenza di una violazione penale e in quanto nella causa C430/11 decisa dalla Corte di Giustizia, il soggetto era stato imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis, sicché i ragionamenti svolti dalla Corte di Giustizia non erano trasponibili automaticamente al diverso caso di uno straniero, illecitamente soggiornante in Italia, condannato per reato diverso dalla mera permanenza illegale. Nel caso di specie, fermo restando che la causa di estinzione della pena prevista dall’art. 16, comma 8, del citato decreto matura al decorrere del decimo anno dall’esecuzione dell’espulsione e a condizione che non sopraggiunga nel frattempo un rientro illegale, quello operato dal D. a circa sei anni di distanza dall’espulsione non poteva definirsi come reingresso illegale , posto che il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Catanzaro non aveva indicato la durata della misura e dovendo ritenersi, in assenza di una previsione specifica, che la misura fosse commisurata, nella durata, al minimo legale di cinque anni previsto dall’art. 16, comma 1 bis, decorsi i quali, dunque, egli avrebbe potuto tranquillamente rientrare in Italia. 3. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia, deducendo due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p 3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , la inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, commi 5, 6 e 8. Secondo il Procuratore generale impugnante, mentre il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, commi da 1 a 4, disciplinano l’espulsione del giudice della cognizione quale sanzione sostitutiva della detenzione, prevedendo il comma 1-bis - per i reati diversi da quelli di cui agli art. 10 bis, e art. 14, comma 5 ter e quater D.Lgs. cit. - un minimo di cinque anni ma non un massimo, che spetterebbe al giudice indicare, nel caso dell’art. 16, commi 5 e 6, relativo alla espulsione disposta dal magistrato di sorveglianza, la norma non prevede espressamente un periodo minimo di durata della misura, il quale, dunque, dovrebbe essere correlato al termine decennale di cui all’art. 16, comma 8, D.Lgs. citato, che prevede il ripristino dello stato detentivo in caso di illegittimo rientro nel territorio dello Stato, non comprendendosi, diversamente, perché il legislatore abbia comunque fissato in dieci anni il termine di estinzione della pena sostituita. 3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b , la inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 8, seconda parte. Il Giudice dell’esecuzione avrebbe omesso ogni accertamento teso a verificare la legittimità dell’ingresso nel territorio dello Stato da parte di D. , esistendo agli atti esclusivamente una sintetica annotazione della Stazione dei Carabinieri. L’assolvimento di tale onere sarebbe stato di estrema rilevanza, non essendo ancora decorso il decennio dall’esecuzione dell’espulsione e potendo la sua condotta illegittima giustificare, comunque, il ripristino dello stato di detenzione. 4. In data 17/1/2019, è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stato chiesto il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Secondo il ricorrente, la previsione, da un lato, di un termine minimo di durata del divieto di reingresso del soggetto espulso per il caso in cui essa sia disposta dal giudice della cognizione, individuato in cinque anni dal combinato disposto dei commi 1 e 4 del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, e l’assenza, dall’altro lato, di un’analoga disposizione per il caso, diverso, in cui l’espulsione sia disposta dal magistrato di sorveglianza ai sensi dello stesso art. 16, comma 5, condurrebbe a concludere che, in questo secondo caso, il termine in questione coinciderebbe con quello di 10 anni stabilito, dal comma 8, per la estinzione della pena. Rileva, in proposito, il Collegio, che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, al comma 1 bis, introdotto dalla L. 30 ottobre 2014, n. 161, art. 3, comma 1, lett. b , stabilisce che nei casi di cui al comma 1, la misura dell’espulsione può essere disposta per un periodo non inferiore a cinque anni . Nel caso, invece, contemplato dal comma 5, qui in rilievo, non è stabilito alcun termine. Nondimeno, se il termine di durata del divieto di reingresso fosse effettivamente pari a cinque anni, come sostenuto dalla Corte di appello, non si comprenderebbe per quale ragione l’effetto estintivo dell’espulsione si produca, ai sensi del citato comma 8, soltanto una volta che siano decorsi dieci anni dall’esecuzione della sanzione sostitutiva né soprattutto, il senso della successiva proposizione normativa, che prevede la revoca dell’espulsione nel caso in cui, prima del termine decennale, il soggetto trasgredisca il divieto di reingresso. Deve conseguentemente affermarsi, in conclusione, il principio secondo cui il divieto di rientro dello straniero nel territorio dello Stato in caso di espulsione disposta, ex art. 16, comma 5, del D.Lgs. citato, a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, deve ritenersi stabilito per la durata di dieci anni dall’esecuzione del relativo provvedimento, riferendosi il limite dei cinque anni alla espulsione ordinata in via amministrativa ovvero alla espulsione disposta come sanzione alternativa alla detenzione ai sensi del comma 1 dello stesso articolo cfr. Sez. 1, n. 13130 del 9/2/2017, Alali, Rv. 269674 . 3. Quanto alla ragionevolezza di un differente statuto dell’espulsione quale sanzione alternativa alla detenzione, rispetto all’espulsione quale sanzione sostitutiva della pena, essa deriva dalla differenza dei relativi presupposti mentre in quest’ultimo caso, l’espulsione viene disposta in luogo di sanzioni detentive di modesta entità, nel primo caso il limite dei due anni di pena può riguardare anche pene residue di ben maggiori periodi di detenzione, si da giustificare la previsione di un periodo molto più lungo in cui l’ordinamento vuole assicurare l’assenza del soggetto espulso da territorio dello Stato. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché l’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Pubblico ministero competente per l’esecuzione. P.Q.M. annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al P.M. competente per l’esecuzione.