La minaccia di un male certo e concreto, tale da coartare la volontà del soggetto passivo, equivale a una condotta estorsiva

Respinti i ricorsi di due imputati che lamentavano l’erronea qualificazione dei fatti da parte del Giudice di secondo grado. A tal proposito, la Suprema Corte richiama la distinzione tra il delitto di truffa e quello di estorsione.

Questa la decisione della Corte di Cassazione n. 26102/19, depositata il 13 giugno. La vicenda. La Corte d’Appello di Torino condannava gli imputati per il reato di estorsione, per avere gli stessi costretto le persone offese a dare del denaro ai fini dell’acquisto di sostanze stupefacenti. Avverso tale decisione, propongono ricorso per cassazione gli imputati, deducendo, tra i motivi di ricorso, l’erronea qualificazione giuridica dei fatti, i quali dovevano essere meglio sussunti nel reato di truffa, anziché di estorsione. Estorsione e truffa. La Suprema Corte dichiara inammissibili i ricorsi, richiamando la distinzione operata dalla giurisprudenza tra il delitto di truffa e quello di estorsione. Il primo, infatti, è integrato dalla condotta di colui che prospetti un male possibile ed eventuale, in ogni caso non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non sia coartata, ma si determini alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente . Il delitto di estorsione, invece, si configura allorché il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato . Nel caso concreto, gli Ermellini ravvisano la correttezza della decisione della Corte d’Appello nell’aver qualificato i fatti come estorsione, tenendo conto che il comportamento degli imputati si era concretizzato nella minaccia di un male certo e reale, consistente, tra l’altro, nel coinvolgimento dei genitori della persona offesa, in modo da coartare la sua volontà. Anche per questo motivo, la Corte di Cassazione respinge i ricorsi degli imputati e li condanna al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento della somma di euro 2000 ciascuno alla Cassa delle Ammende.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 5 febbraio – 13 giugno 2019, n. 26102 Presidente Prestipino – Relatore Verga Motivi della decisione Ricorrono per Cassazione, con distinti ricorsi, R.F. e R.M. avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino che il 18.12.2017 che, per quanto riguarda le statuizioni penali, ha confermato la sentenza del GIP del Tribunale di Vercelli che il 2.4.2015 li aveva condannati per distinti reati di estorsione il primo in danno del solo Ri.Al. sino al dicembre 2011, il secondo in danno di Ri. e B.V. dal gennaio 2012. R.F. deduce 1. vizio di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità. Contesta il giudizio di attendibilità di Ri.Al. , la cui falsità risulterebbe dal racconto, poi ritrattato reso ai c.c. il 4.9.2012, dove ricostruiva la vicenda in modo del tutto diverso. Evidenzia che in più occasioni gli aveva dato denaro per l’acquisto di hashish e quindi avrebbe dovuto essere sentito come imputato di reato connesso e comunque le sue dichiarazioni, stante la particolarità della posizione dovevano essere riscontrate. Sostiene che la Corte d’Appello è incorso in un vero travisamento del fatto laddove ha respinto le censure difensive relative all’inattendibilità del Ri. fondate sulla collocazione temporale dei fatti narrati l’arresto del R. risale a settembre e non a febbraio e comunque ritiene illogica la sentenza in punto coartazione stante la spontaneità delle consegne di denaro. 2. Erronea qualificazione giuridica dei fatti che dovevano essere meglio sussunti nel paradigma della truffa. Anche R.M. contesta la qualificazione giuridica dei fatti come estorsione anziché truffa. Con riguardo alla doglianza avanzata da R. e diretta ad invalidare il valore probatorio delle dichiarazioni rese da Ri.Al. deve rilevarsi che se è vero che in tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, è pur vero che il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità cfr. Cass. Sez. Un n. 15208 del 25/02/2010 Ud. dep. 21/04/2010 Rv. 246584 . Nel caso in esame i giudici di merito hanno dato conto con motivazione specifica, logica e coerente della manifesta infondatezza della prospettazione difensiva, affermando che la persona offesa che ha reso alla polizia giudiziaria versioni contrastanti sui fatti non può per ciò solo essere considerata indagata di favoreggiamento personale da intendersi collegato a quello per cui si procede. Ciò premesso deve rilevarsi che il primo motivo del ricorso R.F. è palesemente inammissibile, in quanto il ricorrente, reiterando doglianze già espresse in appello, si è limitato a censurare profili di carattere meramente valutativo del compendio probatorio, rinnovando contestazioni in punto di ricostruzione del fatto e delle dichiarazioni raccolte, del tutto sovrapponibili a quelle ampiamente scandagliate dai giudici dell’appello. Per un verso, dunque, mira a sollecitare un non consentito riesame del merito, mentre, sotto altro profilo, non proponendosi una effettiva ed autonoma critica impugnatoria rispetto alla motivazione esibita dai giudici a quibus, il motivo finisce per risultare del tutto aspecifico. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata nell’affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c , alla inammissibilità della impugnazione Cass., Sez. 1, 30 settembre 2004, Burzotta Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2002, Notaristefano Cass., Sez. 4, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4, 29 marzo 2000, Barone Cass., Sez. 4, 18 settembre 1997, Ahmetovic . A proposito, poi, della qualificazione giuridica del fatto, motivo comune ad entrambi i ricorrenti deve rilevarsi che secondo l’orientamento della giurisprudenza integra il delitto di truffa la condotta di colui che prospetti un male possibile ed eventuale, in ogni caso non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non sia coartata, ma si determini alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato Cass. II, n. 21537/2008 Cass. II, n. 35346/2010 Cass. II, n. 27363/2012 Cass. n. 28390/2013 Cass. n. 7662/2015 . Nel caso in esame i fatti sono stati correttamente inquadrati nella contestata estorsione in quanto la condotta degli imputati non si era concretata nella ventilazione di un male immaginario, bensì nella minaccia di un male concreto divulgazione dell’uso di sostanze stupefacenti, conseguenze giudiziarie che da questa sarebbero derivate, coinvolgimento della madre della persona offesa che aveva coartato la volontà del soggetto passivo. Alla stregua delle considerazioni espresse i ricorsi sono inammissibili e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno da versare alla Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000,00 ciascuno alla Cassa delle Ammende. Motivazione semplificata.