Utilizza i propri gatti per infastidire la vicina di casa: condannata per stalking

Nessun dubbio sulla responsabilità per i comportamenti molesti tenuti nei confronti della vicina di casa. La donna sotto processo ha agito consapevolmente, secondo i Giudici, cioè ben sapendo di arrecare fastidio alla dirimpettaia.

Ha volutamente lasciato i propri gatti liberi di scorrazzare fuori dall’appartamento e di fare i loro bisogni dovunque, consapevole di arrecare così fastidio, ogni santo giorno, alla vicina di casa. Condotta, questa, non solo censurabile, ma anche rilevabile penalmente, e sufficiente, secondo i giudici, per una condanna per il reato di stalking Cassazione, sentenza n. 25097/19, sez. V Penale, depositata oggi . Molestia. Contesto della stranissima vicenda è la provincia di Trento. Scenario è, più precisamente, una villetta bifamiliare. Lì sono tesissimi i rapporti tra le due vicine di casa, due signore hanno l’uscio di casa uno di fronte l’altro ma mal si sopportano. A testimoniarlo anche, secondo i Giudici, il comportamento tenuto da Tonia – nome di fantasia – che volutamente trascura la custodia dei propri gatti, lasciandoli liberi di scorrazzare nell’immobile e di fare i loro bisogni ovunque, anche nelle vicinanze dell’appartamento della dirimpettaia – Serena, altro nome di fantasia –. Questa situazione, protrattasi per lungo tempo, spinge alla fine Serena a denunciare la vicina di casa, e quest’ultima si ritrova condannata per atti persecutori . Le valutazioni compiute dai giudici d’Appello vengono ora ritenute corrette dai magistrati della Cassazione. Impossibile, in sostanza, contrariamente a quanto sostenuto dal legale di Tonia, parlare di mera incuria colposa nel governo degli animali . Ciò perché, osservano i giudici, si è appurato che la donna, nonostante le ripetute lamentele di Serena, ha volontariamente continuato a liberare i gatti nelle parti comuni dell’edificio, nella evidente consapevolezza delle conseguenze sul piano igienico che ciò comportava e della molestia che in tal modo arrecava alla propria vicina di casa . In sostanza, il comportamento tenuto da Tonia è certamente riconducibile a quello identificato dal Codice Penale come stalking.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 marzo – 5 giugno 2019, n. 25097 Presidente Vessicchelli – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Trento ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di To. Al. per il reato di atti persecutori commesso ai danni di Speranza Lorena. 2. Avverso la sentenza ricorre l'imputata articolando cinque motivi. Con il primo ed il secondo deduce violazione di legge e vizi della motivazione in merito alla configurabilità del reato. In proposito viene evidenziato come dalle risultanze processuali emerga che gli episodi relativi alle deiezioni dei gatti della To. siano stati occasionali e comunque dovuti ad incuria nella loro custodia, difettando dunque tanto il requisito dell'abitualità della condotta, quanto il dolo richiesto per la sussistenza del reato. Quanto invece all'esposizione all'interno del condominio di scritte e cartelli riportanti minacce ed insulti nei confronti della persona offesa alcuna prova sarebbe emersa in merito alla loro attribuibilità all'imputata. Analoghi vizi vengono denunziati con il terzo motivo, con il quale si lamenta il difetto di una tempestiva querela, posto che non ricorrono le condizioni per la procedibilità d'ufficio del reato, mentre con il quarto ed il quinto la ricorrente lamenta difetto di motivazione in merito alla commisurazione del danno liquidato in favore della Speranza e della pena irrogata all'imputata. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e per certi versi inammissibile. 2. Contrariamente a quanto eccepito dalla ricorrente, i giudici del merito non hanno sostanzialmente addebitato alla To. una mera incuria colposa nel governo dei propri animali, evidenziando invece come, nonostante le ripetute lamentele, ella abbia volontariamente continuato a liberarli nelle parti comuni dell'edificio abitato anche dalla persona offesa, nell'evidente consapevolezza delle conseguenze sul piano igienico che ciò comportava e della molestia che in tal modo arrecava alla propria vicina. Comportamento questo certamente riconducibile a quello tipizzato dall'art. 612-bis c.p., tanto più che lo stesso non può essere considerato disgiuntamente dagli ulteriori atti contestati, soprattutto ai fini della prova dell'elemento soggettivo del reato e dell'abitualità della condotta, requisiti entrambi motivatamente ritenuti sussistenti dalla Corte territoriale. Quanto alla asserita occasionalità degli episodi imputati, il ricorso si rivela invece generico, non essendosi confrontato con l'articolata motivazione della sentenza, la quale, oltre che su quanto affermato dalla persona offesa, ha fondato le proprie conclusioni basandosi anche sulle dichiarazioni dei numerosi testi - compresi gli agenti della polizia municipale allertati dalla persona offesa - che avevano avuto modo a vario titolo di frequentare l'edificio e che tutti unanimemente hanno riferito circa la presenza di escrementi animali ovvero dei persistente olezzo delle loro deiezioni. In tal senso è poi inconferente che la figlia della persona offesa non convivesse con la medesima, atteso che espressamente la sua testimonianza, per come valorizzata in sentenza, fa riferimento alle occasioni in cui la stessa si recava a far visita alla madre. Per quanto riguarda, poi, l'attribuibilità all'imputata delle scritte e dei cartelli contenenti insulti e minacce, questa è stata logicamente desunta dal giudice dell'appello dal contesto della vicenda, ma, soprattutto, dal fatto che l'edificio teatro dei fatti era una villetta bifamiliare, le cui parti comuni servivano esclusivamente, oltre che l'abitazione della vittima, quella dell'imputata, ritenendo dunque escluso che altri potessero essere stato protagonista di tali comportamenti o avere interesse a porli in essere. Quanto infine all'evento del reato, generica e manifestamente infondata è l'obiezione circa l'inconferenza della certificazione rilasciata dalla psicologa che ha visitato la persona offesa, posto che la ricorrente non evidenzia i motivi di tale assertiva affermazione, peraltro sorvolando sul fatto che lo stato di prostrazione e di ansia in cui versava la vittima è stato provato in sentenza anche facendo riferimento al contenuto delle dichiarazioni di alcuni dei testimoni, rimaste dunque incontestate. 3. Manifestamente infondato è poi il terzo motivo, posto che agli atti è presenta valida querela proposta dalla persona offesa il 26 novembre 2013 e successivamente integrata il 14 maggio 2014. Del tutto generiche sono infine le doglianze avanzate con il quarto ed il quinto motivo in merito alla determinazione del risarcimento, effettuato in via equitativa, ed alla commisurazione della pena, profili sui quali la sentenza impugnata ha adeguatamente giustificato la conferma delle statuizioni adottate in primo grado con motivazione solo assertivamente confutata. 4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 2.000, oltre accessori di legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 2.000, oltre accessori di legge.