Peculato d’uso: elementi differenziali rispetto alla fattispecie ordinaria di peculato

La natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, quando sia leso l’altro interesse protetto dalla norma ossia quello del buon andamento della pubblica amministrazione. Inoltre, in relazione all’ipotesi di peculato d’uso, richiedendo la fattispecie una distrazione momentanea e transitoria del bene dall’uso cui è destinato, è irrilevante la prova dell’interversione del possesso.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza n. 23172 depositata il 27 maggio 2019. La fattispecie di peculato. Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è chiamata a rispondere sulle doglianze difensive spiegate dal ricorrente avverso la contestata fattispecie di peculato d’uso. Com’è noto, il reato di peculato d’uso non costituisce un’attenuante del delitto di peculato, benché prevista nella medesima norma penale, ma configura un’autonoma fattispecie delittuosa. Entrambe le figure criminose possiedono natura plurioffensiva, essendo poste a tutela tanto del patrimonio della pubblica amministrazione quanto del corretto funzionamento degli uffici basato su un rapporto di fiducia e di lealtà con il personale dipendente. Tuttavia, la diversità delle fattispecie criminose giustifica una differenziazione in termini di tipicità del fatto e colpevolezza dell’agente. Nel peculato d’uso, difatti, è richiesto il dolo specifico, nel senso che l’appropriazione della cosa da parte dell’agente è finalizzata ad un uso momentaneo a cui consegue un’immediata restituzione del bene il dolo richiesto dal peculato ordinario, invece, è generico, e consiste nella coscienza e volontà dell’appropriazione. Ancora, come si vedrà nella motivazione della sentenza in commento, le due fattispecie criminose si distinguono sotto il profilo dell’elemento oggettivo. Nella prassi, la contestazione del delitto di peculato d’uso suole ricorrere nelle ipotesi di utilizzo del telefono di ufficio per fini personali o di uso di un’autovettura di servizio quest’ultima è la condotta contestata all’imputato, agente di polizia, nel processo de quo . Peculato d’uso le censure mosse dal ricorrente. Con ricorso in Cassazione ritualmente proposto, l’imputato lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla responsabilità per peculato d’uso. Nello specifico, la Corte territoriale avrebbe affermato la penale responsabilità dell’agente senza la prova di un’effettiva compromissione della destinazione d’uso e obliterando completamente la valutazione circa il danno patrimoniale subito dalla pubblica amministrazione. Inoltre, dalle prove raccolte durante l’istruttoria non emergerebbe neppure la configurazione - necessaria secondo la tesi difensiva - dell’estremo della volontà appropriativa. La Suprema Corte, dichiarando infondate le censure mosse avverso la sentenza d’appello, chiarisce i confini della fattispecie di peculato d’uso. L’uso dell’auto di servizio per fini personali la configurabilità del peculato d’uso secondo gli Ermellini. Il Collegio ritiene che ai fini della configurabilità del reato di peculato, l’uso dell’auto di servizio per fini privati è generalmente vietato, dovendo presumersi l’esclusiva destinazione ad un uso pubblico in assenza di provvedimenti che consentano puntuali e documentate deroghe a tale uso. Inoltre, deve ribadirsi l’irrilevanza della mancata prova del danno patrimoniale della P.A., avendo il reato di peculato natura plurioffensiva di conseguenza, la mancanza del danno conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse protetto dalla norma, consistente nel buon andamento della pubblica amministrazione. Pertanto, l’uso dell’auto di servizio per finalità personali, sottraendola alla sua destinazione d’uso, configura già di per sé un pregiudizio per l’amministrazione di riferimento. Infine, con riguardo alla volontà appropriativa, nella meno grave fattispecie di peculato d’uso non è richiesta, a differenza della fattispecie ordinaria, la prova dell’interversione del possesso, configurandosi il reato con la semplice distrazione momentanea e transitoria del bene dall’uso cui è destinato.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 4 aprile – 27 maggio 2019, n. 23172 Presidente Cervadoro – Relatore Recchione Ritenuto in fatto 1.La Corte di appello di Brescia confermava la condanna del ricorrente per i reati di peculato d’uso e truffa aggravata ai danni dello stato rideterminando la pena inflitta dal Tribunale in anni due, mesi tre giorni 5 di reclusione ed Euro 1000 di multa. Si contestava all’imputato, agente di polizia, di avere utilizzato l’auto di servizio per finalità personali e di avere, pertanto, truffato il Corpo di polizia locale di Brescia, lucrando indebitamente lo stipendio. 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva 2.1. violazione di legge per l’accertamento di responsabilità sarebbero stati illegittimamente utilizzati i dati rilevati attraverso il posizionamento di impianti GPS all’interno delle autovetture di servizio tali dati sarebbero inutilizzabili in quanto acquisiti, senza alcun provvedimento autorizzativo ed in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, e dell’art. 114 del Codice della privacy inoltre tali dati sarebbero stati elaborati con procedura irripetibile, senza l’attivazione delle garanzie previste dall’art. 360 c.p.p., dato che erano stati elaborati attraverso l’applicazione di Google maps 2.2. vizio di motivazione non sarebbero state considerate le allegazioni difensive dirette a giustificare le attività contestate segnatamente in relazione alla attività della sera del omissis si ribadiva che l’elevazione di una contravvenzione in una zona distante da quella dove pochi minuti prima era stata rilevata la presenza dell’auto in uso al ricorrente non consentirebbe di ritenere provata la responsabilità per il fatto contestato non sarebbe stato inoltre considerato che il omissis il M. avrebbe trascorso l’intero turno in compagnia del collega B. 2.3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla responsabilità per il peculato d’uso dalle prove raccolte non emergerebbe né la compromissione della destinazione istituzionale del bene, né la volontà appropriativa 2.4. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento di responsabilità per il reato di truffa mancherebbe la prova degli artifici e raggiri necessari per la configurazione del reato, dato che il ricorrente avrebbe sempre informato i superiori dell’uscita dal Comando con l’auto di servizio 2.5. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, dato che non poteva essere considerata ostativa la legittima attività difensiva svolta dall’imputato. 3. Con memoria depositata il 19 marzo 2019 il comune di Brescia, parte civile, rilevava come il diritto alla riservatezza fosse cedevole rispetto all’interesse pubblico all’accertamento dei reati e che, pertanto, le rilevazioni del GPS in ordine alla posizione della macchina in uso all’imputato fossero pienamente utilizzabili si rimarcava inoltre l’esistenza di tutti gli elementi necessari per la configurazione del peculato, tenuto conto del danno arrecato all’amministrazione dall’uso personale dell’autovettura destinata ad esigenze di servizio e, con riguardo alla truffa, della natura artificiosa del silenzio serbato in ordine alla reale destinazione delle uscite. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. 1.1. La parte del motivo che denuncia l’inutilizzabilità dei dati raccolti attraverso le rilevazioni dell’impianto GPS installato nell’auto di servizio in uso al ricorrente è infondata. In materia il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto ed a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare cosiddetto GPS costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile in alcun modo all’attività di intercettazione prevista dall’art. 266 c.p.p. e ss. essa non necessita, quindi, di alcuna autorizzazione preventiva da parte del giudice per le indagini preliminari poiché, costituendo mezzo atipico di ricerca della prova, rientra nella competenza della polizia giudiziaria Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013 - dep. 21/05/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542 Sez. 3, n. 32699 del 27/02/2015 - dep. 27/07/2015, Diano, Rv. 264519 . La rilevazione della posizione della persona pedinata attraverso il sistema di rilevamento satellitare non si traduce infatti nella captazione di comunicazioni o conversazioni, attività che, tenuto conto della garanzia costituzionale, può essere effettuata solo con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. Si tratta invece di un servizio di osservazione e controllo effettuato con strumenti tecnologici che non è regolata dal codice, ed è compreso pertanto tra i mezzi atipici di ricerca della prova a disposizione della polizia giudiziaria. 1.2. È infondata anche quella parte del primo motivo che denuncia l’inutilizzabilità dei dati rilevati con il Gps poiché gli stessi sarebbero stati raccolti in violazione sia dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, sia del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114. Sul punto la cassazione ha già deciso, con giurisprudenza che si condivide, che la violazione delle regole procedurali dello Statuto dei lavoratori non possono avere rilievo nell’attività di accertamento e repressione di fatti costituenti reato, in quanto tali garanzie riguardano soltanto i rapporti di diritto privato tra datore di lavoro e lavoratori Sez. 2, n. 33567 del 12/05/2016 - dep. 01/08/2016, Lentinu e altro, Rv. 267476 Sez. 6, n. 30177 del 04/06/2013 - dep. 12/07/2013, Chielli e altri, Rv. 256640 . L’interesse pubblico che sostiene la legittimità dell’accertamento penale, che trova copertura costituzionale nell’art. 112 della Carta fondamentale, incontra un limite solo nei divieti previsti dal codice di rito, mentre non ha alcun rilievo il fatto che l’elemento di prova sia stato raccolto in violazione di normativa amministrative di settore, o, come nel caso di specie in violazione dello Statuto dei lavoratori. L’interesse pubblico, di rilevanza costituzionale, che giustifica la scelta di ritenere obbligatorio l’esercizio dell’azione penale non trova alcun limite nella legislazione amministrativa la raccolta delle prove necessarie per l’accertamento dei reati è, infatti, regolata esclusivamente dal codice di rito. Invero il diritto alla riservatezza non costituisce un limite allo svolgimento delle indagini se non nei casi in cui o stesso si declini come diritto alla segretezza delle comunicazioni ed all’ inviolabilità del domicilio , ovvero quando il diritto in questione trova una specifica tutela costituzionale che impone che la sua compressione avvenga con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria artt. 14 e 15 Cost. . I diritti alla riservatezza diversi da quelli alla segretezza delle comunicazioni e dell’inviolabilità del domicilio hanno anch’essi un matrice costituzionale identificabile nell’art. 2 della Carta fondamentale e trovano importanti correlati sia nella tutela ad esso accordata dall’art. 8 della Convenzione Edu sia dagli artt. 7 ed 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, entrambi fonti di rango sovralegislativo. Anche in tali casi la tutela della riservatezza incontra il limite della tutela dell’ interesse pubblico , che come esplicitato dall’art. 8, comma 2, della Convenzione Edu si declina nella tutela della sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica, del benessere economico e nella necessità di prevenire i reati di proteggere la salute e la morale oltre che i diritti e la libertà delle altre persone. Il diritto alla riservatezza si configura pertanto, come un diritto cedevole rispetto alle attività finalizzate alla tutela di interesse collettivi e, segnatamente, dell’interesse alla prevenzione dei reati, che si esprime nell’obbligo dello Stato di agire per la identificazioni degli autori di quelli commessi art. 112 Cost. . Con specifico riguardo al caso in esame, il collegio rileva che il controllo degli spostamenti non si risolve né in una attività di captazione delle comunicazioni, né tantomeno di violazione del domicilio, ma piuttosto in una attività di controllo degli spostamenti da remoto si tratta di una attività che rientra tra le attività di raccolta della prova non regolamentate, ovvero atipiche, che non richiede autorizzazioni dell’autorità giudiziaria, dato che non si risolve né in una violazione del domicilio, né in una interferenza nel diritto alla segretezza delle comunicazioni. Si ritiene pertanto che la tutela amministrativa della riservatezza degli spostamenti garantita dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, non costituisca un limite alla attività investigativa finalizzata alla tutela dell’interesse pubblico alla prevenzione dei reati, ovvero di un interesse sovraindividuale, che trova copertura sia nell’art. 112 della Carta fondamentale, che nell’art. 2 della Carta di Roma in materia di videoriprese Sez. 5, n. 33560 del 28/05/2015 - dep. 29/07/2015, Leto, Rv. 264355 . 1.3. La doglianza che invoca il riconoscimento della natura irripetibile della geolocalizzazione effettuata attraverso il sistema google maps è manifestamente infondata in quanto l’inserimento del dato all’interno della mappa telematica, la sua localizzazione e la rilevazione di eventuali distanze da altri punti di interesse è operazione illimitatamente ripetibile, essendo il sistema di localizzazione pubblico fruibile in modo permanente ed illimitato. Le operazioni di rilevazione della distanze possono infatti essere controllate e ripetute senza limitazioni temporali sicché è legittima la localizzazione e la rilevazione delle distanze senza il ricorso alle garanzie previste dall’art. 360 c.p.p 2. Il secondo motivo di ricorso che deduce l’omessa valutazione delle allegazioni difensive proposte con la prima impugnazione è inammissibile in quanto si risolve nella richiesta di rivalutazione delle prove ovvero di una attività che non è compresa nel perimetro che circoscrive la competenza del giudice di legittimità. A ciò sì aggiunge che le doglianze proposte si presentano ripetitive rispetto a quelle avanzate con la prima impugnazione e non contestano in modo specifico gli argomenti offerti dalla sentenza impugnata. 2.1. Il collegio in materia di vizio di motivazione ribadisce che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima a sia effettiva , ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata b non sia manifestamente illogica , perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica c non sia internamente contraddittoria , ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute d non risulti logicamente incompatibile con altri atti del processo indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico Cass. sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516 segnatamente non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante , su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo per cui sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento Cass. sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965 . 2.2. Nel caso di specie, contrariamente a quanto dedotto, la Corte di appello, con giudizio di merito provo di vizi logici ed aderente alle emergenze processuali riteneva compatibile la attività di servizio elevazione di una contravvenzione con l’uso illegittimo dell’auto di servizio anche l’attività del 29 luglio veniva analizzata e ritenuta compatibile con lo svolgimento della attività di servizio in compagnia del B. fino alle 3 e 40 pag. 15 della sentenza impugnata . 3. È manifestamente infondato anche il motivo che contesta l’esistenza degli elementi che integrano il peculato d’uso. 3.1. Il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui ai fini della configurabilità del reato di peculato, l’uso dell’auto di servizio per fini privati è, in via generale, vietato dovendosi presumere la sua esclusiva destinazione ad uso pubblico in assenza di provvedimenti che consentano puntuali e documentate deroghe a tale impiego, la cui esistenza ed il cui contenuto devono essere specificamente provati. Sez. 3, n. 57517 del 27/09/2018 - dep. 19/12/2018, Romano, Rv. 274679 Sez. 6, n. 5206 del 15/12/2017 - dep. 02/02/2018, S e altro, Rv. 272178 . A ciò si aggiunge l’irrilevanza della mancata prova del danno si ribadisce infatti che la natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale, cioè quello del buon andamento della pubblica amministrazione Sez. 6, n. 29262 del 17/05/2018 - dep. 26/06/2018, C, Rv. 273445 . Nel caso di specie dalla conforme motivazione delle due sentenze di merito emergeva che il ricorrente aveva utilizzato in più di un’occasione l’auto per finalità personali, sottraendola alla sua destinazione con correlato implicito pregiudizio per l’amministrazione di riferimento pag. 12 e ss della sentenza impugnata . È manifestamente infondata anche la parte del motivo che denuncia la carenza di motivazione in ordine alla volontà appropriativa, tenuto conto del fatto che non si verte in un caso di peculato appropriativo , ma di peculato d’uso , ovvero di una distrazione momentanea e transitoria del bene dall’uso cui è destinato che non richiede la prova della interversione del possesso in termini Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016 - dep. 31/03/2016, Bertin, Rv. 266191 . 4. Il motivo che contesta la legittimità della condanna per il reato di truffa rilevando che mancava la prova degli artifici e raggiri è infondato. Invero la percezione indebita dello stipendio corrisposto anche in relazione ai periodi in cui il M. si dedicava ad attività personali durante l’orario di lavoro configura pienamente il reato contestato dalla motivazione delle due sentenze conformi di merito emerge infatti che il ricorrente non ha mai chiesto permessi e non ha mai avvertito l’amministrazione del fatto che si sarebbe dedicato ad attività estranee a quelle pertinenti la sua funzione, ponendo in essere un comportamento sicuramente artificioso pagg. 25 e 26 della sentenza del Tribunale, pag. 16 della sentenza impugnata . 5. Infine è manifestamente infondato il motivo che denuncia l’illegittimità de diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il collegio ribadisce che nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione Cass. Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 Rv. 248244 Cass. Sez. 1 sent. n. 3772 del 11.01.1994 dep. 31.3.1994, rv 196880 . La concessione delle attenuanti generiche richiede infatti l’apprezzamento di elementi positivi che orientino la discrezionalità affidata al giudice nella definizione del trattamento sanzionatorio verso la attribuzione di una sanzione meno afflittiva. Pertanto il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato. Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017 - dep. 30/08/2017, Starace, Rv. 270986 . Nel caso di specie, in coerenza con tali indicazioni, la Corte di merito rilevava l’assenza di elementi positivi idonei a giustificare la concessione del beneficio con motivazione che esprime una valutazione di merito esente da vizi logici e coerente con le emergenze processuali si rilevava infatti la inidoneità del comportamento processuale, ritenuto ordinario, a sostenere la concessione del beneficio invocato. 2. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. Si dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.