Abuso edilizio: il matrimonio può valere la condanna?

Ai fini di un giudizio di responsabilità certa, la mera esistenza di un rapporto di coniugio a fronte della titolarità dell’area edificata in capo ad uno solo dei coniugi è una circostanza di per sé neutra che può fondare una decisione di condanna solo laddove sia congruamente correlata ad altri elementi significativi.

Lo ha chiarito la Suprema Corte con sentenza n. 17736/19 depositata il 29 aprile. Il caso. La Corte d’Appello confermava la condanna all’arresto e all’ammenda a carico dell’imputato per aver realizzato, in qualità di committente ed esecutore dei lavori, in assenza di permesso di costruire, un fabbricato a piano terra sull’area di esclusiva proprietà della moglie. L’imputato ricorre per cassazione lamentando, fra l’altro, l’assenza di elementi in grado di provare la qualità del committente esecutore e/o direttore dei lavori in capo all’imputato, emergendo solo quella di coniuge della proprietaria, circostanze insufficiente a fondare l’affermata responsabilità penale. Rapporto di coniugio. La Cassazione, pur premettendo che la valutazione degli elementi indiziari da cui deriva la responsabilità del committente per l’abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità, afferma che il Giudice di secondo grado ha preso in considerazione un complesso di elementi non congruamente convergenti verso un giudizio certo di responsabilità. Infatti, secondo la Corte, la mera esistenza di un rapporto di coniugio a fronte della titolarità dell’area edificata in capo ad uno solo dei coniugi appare una circostanza di per sé neutra ai fini di un giudizio di responsabilità certa, la quale può invece fondare una decisione di condanna solo ove congruamente correlata ad altri elementi significativi . Pertanto, occorre configurare la responsabilità del coniuge che non sia comproprietario dell’opera abusiva, quale committente delle opere, sulla base di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti, che denotino una sua compartecipazione, almeno morale, all’esecuzione dell’opera abusiva , non bastando a tal fine il solo rapporto di coniugio con il proprietario esclusivo e neppure la circostanza di risiedere stabilmente nel luogo dove si è edificato. Sulla base di tali affermazioni, la Suprema Corte ritiene il ricorso fondato e annulla la sentenza con rinvio per nuovo giudizio alla Corte territoriale.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 marzo – 29 aprile 2019, n. 17736 Presidente Rosi – Relatore Noviello Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 11/05/2018 la Corte di Appello di Bari confermava la sentenza del 27/10/2016 con cui il tribunale di Foggia aveva condannato P.P. alla pena di mesi quattro di arresto ed Euro 7000,00 di ammenda in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b , per avere realizzato, quale committente ed esecutore dei lavori, in assenza di permesso di costruire un fabbricato a piano terra con tetto a spiovente e tettoie, su area di esclusiva proprietà della moglie. 2- P.P. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore deducendo un unico motivo di ricorso. Rappresenta la mancata verifica da parte dei giudici di merito, prima di procedere all’irrogazione delle pene, dell’intervenuto completamento del procedimento amministrativo di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45, nonché l’assenza di elementi in grado di provare la qualità di committente esecutore e/o direttore dei lavori in capo all’imputato, emergendo solo quella di coniuge della proprietaria. Circostanza quest’ultima insufficiente a fondare l’affermata responsabilità penale. Rappresenta altresì l’intervenuta prescrizione, tra le more della lettura del dispositivo e del deposito della sentenza impugnata, siccome decorrente, in applicazione del principio del favor rei, dal giugno 2013. 2 Va premesso che in tema di reati edilizi la responsabilità del committente per l’abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, in quanto comporta un giudizio di merito non contrastante né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza Sez. 3, n. 15926 del 24/02/2009 Rv. 243467 - 01 Damiano . Nel caso in esame tuttavia il giudice di secondo grado ha valorizzato un complesso di elementi tra loro non congruamente convergenti verso un giudizio certo di responsabilità il rapporto di coniugio con la proprietaria dell’immobile, la diretta funzionalità dell’immobile alle esigenze familiari, la presenza dei coniugi nell’immobile ultimato al momento dell’accesso della polizia giudiziaria, la chiamata dell’imputato da parte della moglie proprietaria affinché egli interloquisse in ordine all’abuso con gli operatori sopraggiunti, la mancata esibizione di qualsiasi titolo abilitativo da parte del ricorrente a fronte della puntuale richiesta della p.g. Tali elementi secondo la corte sarebbero rivelatori di una sicura comunanza di interessi dei coniugi in ordine alla realizzazione dell’abuso e quindi lascerebbero desumere con ragionevole certezza la partecipazione del ricorrente a tutte le deliberazioni di rilevanza familiare quale - in particolare - quella relativa alla realizzazione dell’opera edilizia, tanto più in assenza di ogni deduzione prospettata in senso contrario durante i processi di merito. Si tratta di argomentazioni che non appaiono logiche, né giuridicamente corrette. La mera esistenza di un rapporto di coniugio a fronte della titolarità dell’area edificata in capo ad uno solo di essi, come nel caso di specie si riscontra in capo alla moglie del ricorrente, appare una circostanza di per sé neutra ai fini di un giudizio di responsabilità certa, la quale può invece fondare una decisione di condanna solo ove congruamente correlata ad altri elementi significativi tuttavia non integra un dato in tal senso funzionale la mera presenza nell’opera abusiva dell’intero nucleo familiare, trattandosi in tale ultimo caso di una mera conseguenza di un abuso realizzato a fini familiari, anche essa non in grado di per sé di qualificare in modo peculiare, ed in particolare in senso accusatorio, il ruolo del coniuge che non sia comproprietario, segnando il superamento di una ipotesi al più di mera connivenza per configurarne la personale, esclusiva committenza ed esecuzione dei lavori. Del tutto inconferente appare anche la circostanza della chiamata del ricorrente da parte della moglie al momento dell’accesso della p.g., siccome illustrata dalla corte in maniera a dir poco lapidaria e come tale capace di assumere il carattere di un accadimento suscettibile di plurime e contrastanti letture e quindi privo di specifico significato, tantomeno accusatorio. Si tratta dunque di confermare la necessità di configurare la responsabilità del coniuge che non sia comproprietario dell’opera abusiva, quale committente delle opere, sulla base di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti, che denotino, unitariamente intesi, una sua compartecipazione, almeno morale, all’esecuzione dell’opera abusiva e tra i quali il solo rapporto di coniugio con il proprietario esclusivo e la circostanza di risiedere stabilmente nel luogo dove si è edificato possono costituire validi indizi solo ove corroborati da ulteriori elementi specificativi e qualificanti, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove almeno di una compartecipazione, all’esecuzione delle opere. 3. Ritenuto quindi fondato il ricorso, consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Bari. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Bari.