L’idoneità dell’azione ai fini della sussistenza del tentato omicidio

Confermata definitivamente la condanna per un uomo che ha colpito la moglie con 18 coltellate che le hanno cagionato lesioni al volto, al collo e all’ipocondrio. Inutile il fatto di essersi poi recato spontaneamente presso gli uffici della polizia per autodenunciarsi sussiste il dolo generico riconducibile alla cosciente volontà di porre in essere una condotta idonea a provocare la morte della persona.

Lo ha ribadito la I sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 16116/19, depositata il 12 aprile. La vicenda. Un imputato veniva condannato in primo ed in secondo grado per il tentato omicidio della moglie e per il reato di porto fuori dalla propria abitazione, senza giustificato motivo, di un coltello. Dalla ricostruzione dei fatti era emerso che l’uomo, al culmine di una lite per la divisione delle proprietà familiare tra i figli, aveva colpito l’anziana moglie con 18 coltellate che avevano raggiunto diverse parti del corpo cagionando lesioni guarite in 40 giorni. Avverso la sentenza della Corte d’Appello la difesa ha proposto ricorso in Cassazione per mancata riqualificazione del fatto nel reato di lesioni, posta la lieve tenuità delle lesioni e l’assenza dell’elemento psicologico del tentativo di omicidio. Tentato omicidio. Il Collegio coglie l’occasione per richiamare alcuni principi sulla definizione di tentativo di omicidio. Tale ipotesi delittuosa richiede la concorrente presenza degli elementi dell’intenzione e dell’idoneità degli atti, profilo quest’ultimo che prevale rispetto all’intenzione del soggetto agente solo in parte manifestata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva, come la natura del mezzo usato, le parti del corpo attinte e la gravità delle lesioni inferte . Ed infatti nell’omicidio tentato non è necessaria la specifica finalità di uccidere, ovvero il solo intenzionale, essendo invece sufficiente il dolo diretto e generico rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta che, in base a regole di comune esperienza, è idonea a provocare la morte della persona. La prova del dolo in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente . Assume dunque valore determinante l’idoneità dell’azione in concreto, posto che sussiste l’ipotesi delittuosa in parola laddove sia accertato che l’azione nel suo complesso era comunque idonea a causare la morte della vittima, evento poi non verificatosi per cause esterne alla volontà dell’agente. In conclusione, essendosi la Corte d’Appello conformata a tali principi, il ricorso viene dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 29 gennaio – 12 aprile 2019, n. 16116 Presidente Mazzei – Relatore Fiordalisi Ritenuto in fatto 1. S.S. ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta del 23 novembre 2017, che ha confermato la condanna a sei anni di reclusione inflitta dal Gip del Tribunale di Enna con giudizio abbreviato per il delitto di tentato omicidio artt. 56 e 575 c.p. della moglie L.V. , di 74 anni, e per il reato di porto fuori della propria abitazione, senza giustificato motivo, di un coltello con lama lunga 8 cm. e manico lungo 10 cm. Fatti avvenuti a omissis . L’imputato veniva altresì condannato al pagamento della somma di Euro 15.000 in favore della costituita parte civile, a titolo di condanna provvisionale per il risarcimento del danno conseguente al reato. Gli undici colpi di coltello inferti avevano provocato 18 ferite al collo, alla mammella sinistra, all’ipocondrio sinistro, alla coscia e al tendine della mano sinistra con lesioni guarite in 40 giorni. Secondo la sentenza impugnata, il delitto era maturato al culmine di una contesa tra l’imputato e la moglie. Costei aveva dichiarato che il contrasto con il marito era dovuto alla divisione delle proprietà familiari tra i figli, dei quali il marito voleva privilegiare il figlio A. . Proprio quel giorno, quest’ultimo, incontrandola nella casa di campagna in contrada [] le aveva intimato di andar subito via dall’abitazione in cui si trovava, altrimenti avrebbe bruciato la casa, informando il padre. Sopraggiunto l’imputato per svolgere dei lavori di campagna, ne era scaturito l’ennesimo litigio, durante il quale il marito aveva reiteratamente colpito la moglie con un coltello al collo e su tutto il corpo. La Corte territoriale, a pagina 2 della sentenza impugnata, sulla base delle dichiarazioni della donna ha ricostruito la sequenza degli atti compiuti dall’imputato il quale, brandendo nella mano destra un coltello, con l’altra spingeva la moglie, facendola cadere a terra e la colpiva con un coltello su tutto il lato sinistro del corpo, dagli arti inferiori in su, tentando di tagliarle la gola e gridandole che voleva ucciderla. La donna, nello sforzo di difendersi, cercava inutilmente di disarmarlo, tagliandosi le mani, quindi si accasciava, creando l’apparenza di un corpo esanime, tanto da indurre l’imputato, stanco, a lavarsi dalle macchie di sangue nella vicina vasca. Subito dopo, l’imputato si recava presso gli uffici di polizia, autodenunciandosi. La donna, rimasta sola, si rialzava a stento e riusciva a raggiungere la strada principale, per chiedere aiuto ai passanti. 2.1. Denuncia il ricorrente vizio di motivazione, per mancata riqualificazione del reato commesso in quello di lesioni, in quanto i colpi inferti alla vittima erano di lieve intensità e avevano interessato i piani cutanei superficiali i giudici di merito non avrebbero tenuto in adeguata considerazione le risultanze del consulente del pubblico ministero, il quale a pagina 40 della sua relazione aveva rilevato che le coltellate erano state inferte con azione da punta e taglio e non come fendente sarebbe mancato quindi l’elemento psicologico del tentativo di omicidio, perché, se avesse voluto, l’imputato avrebbe inferto colpi più in profondità, per cagionare la morte della moglie egli, invece, aveva desistito volontariamente, arrestando la carica offensiva all’evento prodotto d’altronde il medico legale aveva escluso che la donna avesse corso pericolo di vita. 2.2. Come secondo motivo, il ricorrente deduce vizio di motivazione sulla determinazione della condanna provvisionale a titolo di risarcimento del danno. Secondo la Corte territoriale, l’imputato aveva sicuramente provocato un danno quantomeno morale alla costituita parte civile, per cui non sussisteva alcun obbligo motivazionale del giudice di primo grado, nella liquidazione di una somma di importo modesto a titolo di provvisionale. Tale ragionamento, secondo il ricorrente, è apodittico, atteso che la provvisionale, se oggettivamente considerata, risulta certamente eccessiva e sproporzionata rispetto alla capacità economico patrimoniale dell’imputato, che vive di una modesta pensione e non è titolare di beni coi quali possa farvi fronte. 2.3. Sul trattamento sanzionatorio, infine, lamenta il ricorrente sia la mancata riduzione della pena nella sua massima estensione per le attenuanti generiche e ai sensi dell’art. 56 c.p., sia l’eccessivo aumento di pena per la continuazione col reato di porto ingiustificato del coltello fuori della propria abitazione. Considerato in diritto 1. Il ricorso appare manifestamente infondato e, come tale, deve essere dichiarato inammissibile. 2.1. Il primo motivo è incentrato su un’errata concezione del tentativo di delitto. Nel delitto di tentato omicidio, pur avendo valenza concorrente i due profili dell’intenzione e dell’idoneità degli atti, quest’ultimo prevale rispetto a un’intenzione del soggetto agente solo in parte manifestata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva, come la natura del mezzo usato, le parti del corpo attinte e la gravità delle lesioni inferte Sez. 1, n. 24808 del 16/06/2010, Lazzaro, Rv. 247806 . La specifica finalità di uccidere non è necessaria nel delitto di omicidio tentato, nel senso che il tentativo di omicidio non deve necessariamente essere sorretto dal dolo intenzionale, essendo sufficiente il dolo diretto e generico, rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta che, in base a regole di comune esperienza, è idonea a provocare - con alto grado di probabilità - la morte della persona verso cui si dirige l’azione. Sez. 6, n. 6880 del 15/4/1998, Pilato, Rv. 211082 Sez. 1, n. 12954 del 29/1/2008, Li e altri, Rv. 240273 . Quanto alla idoneità degli elementi da cui è stata tratta la prova della volontà omicida, va qui ribadito il costante orientamento di legittimità, secondo cui, in tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne consegue che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’ animus necandi , assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso Sez. 1, n. 35006 del 18/4/2013, Polisi, Rv. 257208 Sez. 1, n. 32851 del 10/06/013, Ciancio Cateno, Rv. 256991 . Pertanto, anche la mancata inflizione da parte dell’imputato di colpi di coltello con maggiore forza o con modalità funzionali a provocare lesioni più profonde alla vittima non esclude la configurabilità del dolo omicida, ove sia stato accertato, come nel caso di specie, che, l’azione nel suo complesso era comunque idonea a causare la morte della vittima, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, che ha visto la moglie ormai esanime ed è andato, di conseguenza, negli uffici di polizia ad autodenunciarsi, dopo essersi lavato le mani insanguinate, senza nemmeno tentare di soccorrerla. Infatti, i giudici di merito hanno valorizzato in tal senso, a pag. 5 della sentenza impugnata, le modalità della condotta dell’imputato e, soprattutto, il numero elevato dei colpi inferti col coltello sul corpo della vittima 11 , le zone del corpo attinte tra le quali sono di particolare rilievo il collo, la mammella sinistra e l’ipocondrio sinistro, sotto i quali vi sono vasi e organi vitali , le lesioni provocate, tra le quali un versamento pleurico, che hanno creato una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto . Il giudizio espresso appare di conseguenza plausibile e non è affetto dai vizi denunciati, perché sorretto da dati oggettivi e valutazioni di comune esperienza. In definitiva, ritiene il Collegio che, in modo ineccepibile, la Corte territoriale abbia analizzato ogni aspetto della struttura oggettiva del reato concretamente contestato ed il profilo soggettivo ad esso inerente. In tema di delitti contro la persona, infatti, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dell’atto lesivo. In questo senso, si è già più volte espressa la giurisprudenza di legittimità tra le altre Sez. 1, n. 51056 del 27/11/2013, Tripodi, Rv. 257881 . La complessiva valutazione degli elementi esposti dai giudici nella sentenza impugnata è tale da supportare in modo congruo e logico sia il giudizio di univocità ed idoneità degli atti in ordine all’evento morte, sia il dolo diretto della fattispecie tentata del delitto di omicidio, senza necessità di confutare in modo specifico la considerazione svolta nei motivi di appello sui tempi limitati di guarigione della vittima, risultanti dai referti medici. D’altronde, tutte le altre questioni sollevate dal ricorrente sul piano probatorio trovano implicita risposta nella motivazione della sentenza impugnata e in quella di primo grado ivi richiamata, stante la regola della concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, enunciata dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e , che rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando il giudice abbia dato conto nella motivazione della sentenza soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese, perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate Sez. 4, n. 36757 del 4/06/2004, Perino, Rv. 229688 . 2.2. Va dichiarata l’inammissibilità della doglianza relativa all’entità della condanna a titolo di provvisionale, perché l’assegnazione alla parte civile di una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile con ricorso per cassazione, stante il fatto che, per sua natura, essa è insuscettibile di passare in giudicato ed è destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento tra le tante Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Patricola, Rv. 261054 . 2.3. Anche i motivi sul trattamento sanzionatorio sono manifestamente infondati, atteso che il giudice di appello ha messo in evidenza che la misura della pena irrogata dal giudice di primo grado era già alquanto contenuta, in proporzione alla gravità dei fatti posti in essere ed era già stata ridotta per la concessione delle attenuanti generiche, valutando positivamente il comportamento processuale dell’imputato ottantatreenne al momento del fatto, il quale, subito dopo l’azione omicida, si era costituito alle autorità. 3. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una sanzione pecuniaria, che pare congruo determinare in Euro 3000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p 4. Il ricorrente va infine condannato al pagamento delle spese della parte civile che la Corte liquida, in ragione dell’attività espletata nel presente grado, nella misura di 3.600 Euro a titolo di onorario, ridotta di un terzo 2400 Euro , ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 106 bis, con distrazione in favore dello Stato, essendo stata ammessa L.V. al gratuito patrocinio. Il rimborso delle spese di albergo, viaggio e taxi richiesto nella nota spese della parte civile non può essere liquidato, in quanto tali esborsi non sono documentati. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese del presente grado del giudizio a favore della parte civile, L.V. , che liquida nella complessiva somma di Euro 2400 duemilaquattrocento , oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, CPA ed IVA, come per legge, disponendone il pagamento a favore dello Stato.