Sulla ripartizione dell’onere della prova nella bancarotta per distrazione

La prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti, in quanto le condotte di cui all’art. 216 l. fall., hanno diretto riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel contesto della garanzia che su di lui grava in vista della conservazione delle ragioni creditorie. È in funzione di siffatta garanzia che si spiega l’onore dimostrativo posto a carico del fallito, nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura.

Secondo gli Ermellini sentenza n. 15280/19, depositata l’8 aprile è solo apparente l’inversione dell’onere della prova insita nell’attribuire al fallito il dovere di dimostrare quale destinazione abbiano avuto beni entrati a fare parte del patrimonio dell’impresa e non rinvenuti al momento della dichiarazione di fallimento. Alla base della bancarotta per distrazione. Osservano gli Ermellini come, nel caso di specie, alla base della contestata condotta distrattiva vi sia il mancato rinvenimento da parte della Curatela fallimentare di beni e cespiti che, dalle scritture contabili dell’impresa, seppur incomplete, erano, senza ombra di dubbio, entrati a fare parte del patrimonio sociale. La conclusione che ne viene tratta dalla Suprema Corte di Cassazione, sotto il profilo giuridico, è in linea con l’argomentazione spesa dai giudici di merito l’accertamento della previa disponibilità, da parte dell’imputato, di beni non rinvenuti nel patrimonio dell’impresa al momento della dichiarazione di fallimento è alla base della contestazione della bancarotta per distrazione. La prova della condotta distrattiva, osservano infatti gli Ermellini, secondo costante giurisprudenza di legittimità, ben può rinvenirsi nella mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore stesso, della destinazione dei beni non rinvenuti nella massa fallimentare. L’onore della prova a carico del legale rappresentante si fonda sulla posizione di garanzia dal medesimo rivestita in relazione ai creditori sociali ed alla tutela delle loro ragioni. Stante tale posizione di garanzia, l’amministratore della società deve fornire la prova sulla concreta destinazione avuta dai beni sociali e del loro ricavato, potendosi, in difetto, desumere ragionevolmente che dette risorse siano state sottratte alla garanzia dei creditori. La ratio dell’onere probatorio. Un’inversione solo apparente? Secondo la Cassazione, dalla posizione di garanzia nei confronti dei creditori, che l’ordinamento giuridico pone in capo all’imprenditore, consegue la responsabilità del medesimo per la puntuale conservazione delle risorse e dei beni sociali. Ogni perdita o diminuzione del patrimonio non giustificata dal perseguimento degli scopi sociali, riduce la garanzia per i creditori con conseguente integrazione, in caso di fallimento, dell’evento giuridico proprio del delitto di bancarotta. La legge fallimentare, prosegue l’argomentare della Corte, pone l’accento, da un lato, sull’apporto conoscitivo proveniente dall’imprenditore fallito e, dall’altro lato, sull’obbligo allo stesso imposto di collaborare con gli organi della procedura. Infatti, alla responsabilità dell’imprenditore di conservare le garanzie patrimoniali verso i creditori si accompagna quello di verità, penalmente sanzionato, previsto dall’art. 87 comma 3, l. fall., a carico dell’imprenditore, interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa. Per tali motivi, l’inversione dell’onore della prova – di regola posta a carico della pubblica accusa – è solo apparente alla luce dei precisi obblighi di fonte normativa che gravano sull’imprenditore ed in conseguenza dei quali, di fronte al mancato rinvenimento di beni aziendali e di prova della loro destinazione sulla base delle scritture contabili, l’imprenditore è onerato di rendicontare e dimostrare la loro sorte, dovendo in difetto accollarsi la responsabilità della loro distrazione. Oneri penalmente sanzionati. Pur a fronte di tali pregevoli argomentazioni in diritto svolte dalla Corte, resta l’osservazione di una sostanziale inversione dell’onore della prova rispetto ai consueti canoni, che pare aggravata dalla consolidata giurisprudenza che, non riconoscendo al fallimento la natura di evento in senso naturalistico, non richiede che lo stesso sia legato da nesso causale alla condotta distrattiva, né che sia oggetto di dolo del soggetto agente, con la conseguente, ed invero non infrequente, possibilità che le condotte distrattive risalgano a molti anni prima del fallimento. In tali casi l’imprenditore fallito si trova costretto ad assolvere ad un onere probatorio, penalmente sanzionato, sul quale il decorso del tempo incide inevitabilmente in modo assai gravoso e senza, peraltro, che tale aspetto possa trovare un qualche correttivo con la disciplina della prescrizione, atteso che, come noto, il dies a quo del decorso del termine prescrizionale è rappresentato dalla sentenza di fallimento e non dal momento in cui la condotta distrattiva è stata posta in essere. Aspetti che, valutati unitariamente, paiono mettere quanto meno in tensione il valore costituzionale di una responsabilità penale che deve sempre essere ancorata ad un principio di colpevolezza.

Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 11 marzo – 8 aprile 2019, n. 15280 Presidente Miccoli – Relatore Tudino Ritenuto in fatto 1.Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Brescia ha, in parziale riforma della decisione del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale in sede del 3 novembre 2011, con la quale è stata affermata la responsabilità penale di A.G. in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale per distrazione in relazione alle vicende di AL.BA costruzioni s.r.l., assolto l’imputato dalla condotta sub 1 distrazione di somme non contabilizzate per gli anni 2005 e 2006 , rideterminando la pena. 2. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia ha proposto ricorso l’imputato, per mezzo del difensore, Avv. E. P., articolando due motivi. 2.1. Con il primo motivo, deduce violazione della legge penale e correlato vizio di motivazione in riferimento all’affermazione di responsabilità - quanto al punto 8 dell’imputazione, relativo alla registrazione per cassa, e non secondo il criterio di competenza, di una fattura relativa all’anno 2004, per essere il reato di cui all’art. 224 L. Fall. estinto per prescrizione - quanto al punto 2 , riferito alla distrazione di somme portate da assegni emessi in favore dell’imputato, per non avere la corte territoriale valutato come non possa escludersi trattarsi di rimborsi di finanziamenti anticipati dall’A. per coevi pagamenti inerenti l’attività della società dal medesimo amministrata di fatto - quanto ai punti 3 e 4 , per avere i giudici di merito ritenuto provata, secondo presunzioni, la distrazione delle somme per cassa alla sola stregua della natura fittizia delle fatture a cui i prelievi si riferiscono, non potendo, invece, da tale circostanza, nè dal silenzio dell’imputato, evincersi l’esistenza delle somme e la loro deviazione dagli scopi sociali - quanto al punto 5 , riferito alla distrazione di somme relative al pagamento di fornitori insinuatisi al passivo, per avere la corte ritenuto contraddittoriamente da un lato inattendibile la contabilità, tanto da configurare la più grave fattispecie di bancarotta documentale in luogo del reato di cui agli artt. 224 e 217 L. Fall. e, dall’altro, provata l’esistenza della medesima provvista, in assenza di elementi indiziari - quanto ai punti 7 e 6 , per contraddittorietà della motivazione riguardo la bancarotta documentale, in presenza dell’intera documentazione contabile, rinvenuta dagli organi della curatela ed utilizzata al fine della dimostrazione delle distrazioni riferibili agli ultimi due anni di attività. 2.2. Con il secondo motivo, deduce analoga censura in relazione all’applicazione dell’art. 81 c.p., avendone erroneamente la corte territoriale statuito l’esclusione pur in presenza di un programma generico di attività delinquenziale e dell’unicità dello scopo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato solo in parte. 2. Coglie nel segno la censura articolata al primo punto del primo motivo, in riferimento alla prescrizione del reato di cui all’art. 224 L. Fall., maturata in epoca antecedente alla sentenza impugnata. 2.1. Tenuto conto degli atti interruttivi, il reato contestato al n. 8 dell’imputazione si è estinto l’8 febbraio 2016. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente alle relative statuizioni. 2.2. Non sussistono, invece, le condizioni per emettere una pronuncia liberatoria. Costituisce, invero, ius receptum nell’orientamento di legittimità che la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l’assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell’imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445, Sez. 4, n. 23680 del 07/05/2013, Rizzo, Rv. 256202 Sez. 1, n. 43853 del 24/09/2013, Giuffrida, Rv. 258441 . Siffatto orientamento si pone in linea di continuità con i principi già definitivamente affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, che hanno ribadito come in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice sia legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2 soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione”, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Rv. 244274, Tettamanti . In questa stessa sentenza si è anche stabilito che in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. Sez. U, ibidem, Rv. 244275 . Nel caso in esame, l’infondatezza delle censure difensive esclude ex se l’applicabilità di una più ampia formula liberatoria, in presenza di una motivazione del tutto corretta in diritto e non illogicamente articolata nelle sue cadenze argomentative. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente alle relative statuizioni, mentre la corte territoriale dovrà procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, eliminando la relativa porzione di pena. 3.Sono infondate le ulteriori censure contenute nel primo motivo. 3.1. È inammissibilmente formulato l’argomento d’impugnazione relativo al punto n. 2 dell’imputazione, sub specie di vizio della motivazione, che si limita ad ipotizzare, in senso meramente ottativo, una eventuale ed imprecisata causale restitutoria dei prelievi pari ad Euro 73.000,00, effettuati dall’imputato mediante incasso di assegni in favore del medesimo emessi, di cui non risulta giustificazione alcuna. Al riguardo, la corte territoriale ha ampiamente argomentato, facendo corretta applicazione del principio per cui integra l’ipotesi del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, l’amministratore che disponga a suo favore il rimborso dei finanziamenti effettuati nei confronti della società, considerato che la qualità di creditore non si può scindere da quella di amministratore, in quanto tale, vincolato alla società dall’obbligo della fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali anche nei confronti dei terzi Sez. 5, n. 2273 del 06/12/2004 - dep.2005, Martella, Rv. 231289 . 3.2. Nelle conformi sentenze di merito risultando, altresì, ampiamente ripercorse, con specifici riferimenti diacronici alla procedura fallimentare, le operazioni di prelievo per cassa punti 3 e 4 , formalmente destinate al pagamento di fatture, i cui indici di fittizietà risultano analiticamente esposti nella pronuncia di primo grado e ulteriormente specificati nella sentenza impugnata, e di fornitori punto 5 , rimasti, invece, insoddisfatti condotte non solo di per sé pregiudizievoli degli interessi dei creditori in quanto idonee ad esporre a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni, ma poste in essere nell’evidente intento di giustificare artificiosamente pagamenti invece non dovuti e, comunque, rimasti inevasi, con conseguente evidenza di specifici indici di consapevolezza del predetto periculum e, dunque, di fraudolenza Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763 . Ed alle razionali argomentazioni dei giudici di merito, ancorate alle emergenze testimoniali e documentali, il ricorrente oppone generiche censure, che finiscono per negare la disponibilità delle stesse somme risultate distratte, senza affrontare argomentativamente e contrastare la puntuale analisi svolta foll. 13-14 sentenza impugnata , che dà conto di un mero espediente contabile a copertura di indebiti prelevamenti. 3.3. Premesso che la responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione richiede l’accertamento della previa disponibilità, da parte dell’imputato, dei beni non rinvenuti in seno all’impresa Sez. 5, n. 7588 del 26/01/2011, Buttitta, Rv. 249715 , va ribadito che la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti Sez. 5, n. 22894 del 17/04/2013, Zanettin, Rv. 255385 , in quanto le condotte descritte all’art. 216, comma 1, n. 1 L. Fall., hanno anche diretto riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel contesto della garanzia che su di lui grava in vista della conservazione delle ragioni creditorie. È in funzione di siffatta garanzia che si spiega l’onere dimostrativo posto a carico del fallito, nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura. Trattasi, invero, di sollecitazione al diretto interessato perché fornisca la dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, risposta che presumibilmente soltanto egli, che è oltre che il responsabile l’artefice della gestione, può rendere Sez. 5, n. 7588 del 2011 cit., in motivazione . In altri termini, a fronte del sicuro ingresso nel patrimonio dell’imprenditore di componenti attive e dell’assoluta impossibilità di ricostruire la destinazione delle stesse, del tutto ragionevolmente si può desumere che queste ultime siano state sottratte alla garanzia dei creditori, nella piena consapevolezza della concreta pericolosità di tali condotte in vista del soddisfacimento delle loro pretese. 3.4. Deve infatti ribadirsi come la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita possa essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore sia egli di fatto o di diritto , della destinazione dei suddetti beni Sez. 5, n. 8260/16 del 22 settembre 2015, Aucello, Rv. 267710 Sez. 5, n. 19896 del 7 marzo 2014, Ranon, Rv. 259848 Sez. 5, n. 11095 del 13 febbraio 2014, Ghirardelli, Rv. 262740 Sez. 5, n. 22894 del 17 aprile 2013, Zanettin, RV. 255385 Sez. 5, n. 7048/09 del 27 novembre 2008, Bianchini, Rv. 243295 Sez. 5, n. 3400/05 del 15 dicembre 2004, Sabino, Rv. 231411 , principio che la costante elaborazione giurisprudenziale di legittimità ancora alla peculiarità della normativa concorsuale. In tal senso va quindi ribadito che l’imprenditore è posto dall’ordinamento in una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, con conseguente responsabilità del gestore per la conservazione delle risorse e dei beni sociali, in ragione dell’integrità della garanzia stessa. La perdita ingiustificata del patrimonio o l’elisione della sua consistenza danneggia le aspettative della massa creditoria ed integra l’evento giuridico sotteso dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta. Nello statuto dei reati fallimentari, l’apporto conoscitivo proveniente dall’imputato si declina peculiarmente, ponendo a carico dello stesso uno specifico onere di collaborazione con gli organi della curatela e di giustificazione riguardo l’adempimento degli obblighi che gravano sull’imprenditore. La responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 L. Fall. sul fallito interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa giustificano, dunque, una inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita solo apparente, che ripete il suo fondamento dal complesso degli obblighi di fonte normativa che gravano sull’imprenditore, e che non consentono, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, di ritenere sufficienti generiche asserzioni, soprattutto ove non riscontrate dall’esistenza di idonea documentazione contabile. 3.4. Nel quadro così delineato, il ricorrente pretende di ravvisare - in presenza di una assoluta mancanza di giustificazione proveniente dall’imputato - un insanabile profilo di contraddittorietà, in punto di dimostrazione della disponibilità delle risorse non rinvenute, con la contestuale contestazione di bancarotta documentale, omettendo di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata che, con articolata e razionale cadenza argomentativa foll. 17-18 , evidenzia puntualmente le fonti documentali che, in un più ampio contesto di fraudolenta cessazione delle annotazioni, dimostrano l’esistenza dei cespiti e delle risorse non rinvenute dagli organi della curatela. Sono, pertanto, complessivamente infondate le censure articolate in punto di responsabilità. 4. Il secondo motivo di ricorso è del tutto generico. Il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti oggetto del presente procedimento ed il reato di ricettazione di cui alla sentenza del Gip del Tribunale di Brescia del 27 gennaio 2007, irrevocabile, omettendo - a fronte dell’ampia disamina svolta dalla corte territoriale al riguardo ff. 18-19 - anche solo di dedurre gli indicatori di una unitaria riconducibilità ideativa, invece erroneamente apprezzati dal giudice d’appello, ponendo in tal guisa la doglianza nell’alveo dell’inammissibilità Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016 - dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822 . Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, inammissibile. 5. La sentenza impugnata deve essere, invece, annullata con rinvio in riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie, applicate all’imputato. 5.1. Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa e siffatta declaratoria avente efficacia ex tunc ai sensi della L. Cost. n. 87 del 1953, art. 30 - trova applicazione nell’ambito del presente procedimento in quanto, sebbene questione non investita dal ricorso, la durata delle sanzioni accessorie come determinata nella sentenza impugnata si qualifica in termini di sopravvenuta illegalità della pena, apprezzabile ex officio in sede di legittimità S.U. n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207 . 5.2. Nella sentenza additiva richiamata, la Consulta ha esplicitamente escluso l’applicabilità dello strumento di commisurazione cor relativa declinato dall’art. 37 c.p. che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne determina la durata nella stessa misura della pena principale, ritenendo il relativo meccanismo non adeguato ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione in considerazione della specifica e non sovrapponibile funzione del diverso ordine di pene sia in relazione al diverso carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, che della diversa finalità. 5.3. Siffatta interpretazione non è stata ritenuta vincolante in una prima applicazione giurisprudenziale Sez. 5, 7 dicembre 2018 in procomma 23648/2016, Piermartiri, informazione provvisoria n. 16/2018 , mentre altro orientamento Sez. 5, 13 dicembre 2018 in procomma 3703/2018, Retrosi Sez. 5, n. 5882 del 6 febbraio 2019, Rv. 274413 si è determinato nel senso di dover rimettere al giudice del merito la determinazione discrezionale dell’entità delle pene accessorie ex art. 216 u.c 5.4. Alla stregua di siffatto contrasto, manifestatosi nell’immediatezza della pronuncia della Consulta, è stata rimessa alle Sezioni Unite Sez. 5, L. Fall., Piermartiri che ha ritenuto la questione se le pena accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dalla L. Fall., art. 216, u.c., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 5/12/2018 della Corte costituzionale con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima fino a dieci anni debbano considerarsi pena con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 c.p. che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta , con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti ovvero se, per effetto, della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola, la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p. . 5.5. Dalla relativa informazione provvisoria, risulta che, con sentenza del 28 febbraio 2019, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito come le pene accessorie previste dall’art. 216 L. Fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. . Di guisa che, in applicazione dell’enunciato principio di diritto, che assegna alla discrezionalità del giudice del merito la verifica dei parametri di commisurazione della pena accessoria, in quanto sanzione predeterminata, in riferimento al carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona libertà di iniziativa economica ed alla finalità non solo rieducativa della medesima, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della durata delle sanzioni accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., irrogate all’imputato nella misura di dieci anni, con rinvio al giudice di merito per nuovo esame sul punto. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta di cui alla L. Fall., art. 224, come contestata al punto n. 8 dell’imputazione, perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla altresì la sentenza impugnata quanto alla determinazione del trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia per nuovo esame. Rigetta nel resto il ricorso.