Nessuna via di scampo per le psicologhe “furbette” del cartellino

Laddove il lavoratore dopo aver attestato la sua presenza nel luogo di lavoro se ne allontani per sbrigare affari propri, il danno che scaturisce da tale condotta è in re ipsa , in quanto l’assenza dal luogo di lavoro, nell’orario attestato, impedisce al datore di lavoro di affidargli eventuali incarichi aziendali, e al lavoratore di svolgere le prestazioni indispensabili ed urgenti che si sono rese necessarie.

Lo hanno chiarito i Giudici di legittimità con sentenza n. 15046/19 depositata il 5 aprile. Furbette” del cartellino? La Corte d’Appello di Torino confermava la sentenza con cui le due imputate venivano condannate per truffa in danno del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare, alle due psicologhe veniva contestato l’allontanamento dal luogo di lavoro, avvenuto in diverse occasioni, dopo aver timbrato il cartellino che attestava la loro presenza nella struttura. Danno in re ipsa. Proposto ricorso per cassazione da parte di entrambe, la Corte decide per l’inammissibilità degli stessi affermando che, in punto di responsabilità, la motivazione fornita dai Giudici d’Appello deve intendersi logica ed essenziale. Infatti, la truffa deve ritenersi concreta dal momento in cui il datore di lavoro è stato tratto in inganno tramite l’attestazione della loro presenza ed ha corrisposto loro la retribuzione non dovuta. Inoltre, prosegue la Corte, il danno è in re ipsa , in quanto l’assenza dal luogo di lavoro, nell’orario attestato, ha impedito al datore di lavoro di affidargli eventuali incarichi aziendali e a loro di svolgere le prestazioni indispensabili ed urgenti che si fossero rese necessarie. Nella fattispecie, secondo la Cassazione, il Giudice di merito non doveva dare alcuna prova concreta, anche per il fatto che è proprio il contenuto dell’accordo collettivo che depone per la responsabilità delle imputate, dal momento che la corresponsione della retribuzione è avvenuta senza che avessero assicurato la disponibilità dedotta in contratto . Pertanto, la Suprema Corte dichiara i ricorsi inammissibili e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 4 febbraio – 5 aprile 2019, n. 15046 Presidente Sabeone – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La Corte d’appello di Torino ha confermato - salvo una riduzione di pena per A. - la sentenza di prima cura, che aveva condannato A.C. e L.I. per truffa in danno del Servizio Sanitario Nazionale art. 640 c.p., comma 1 e comma 2, n. 1 . Secondo quanto si legge in sentenza le due imputate, psicologhe in convenzione col SSN, si allontanarono in plurime occasioni dal luogo di lavoro, dopo aver attestato la loro presenza nella struttura ospedaliera in cui prestavano servizio. 2. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione le imputate, a mezzo del difensore, svolgendo un motivo comune ad entrambe ed altro motivo relativo, specificamente, alla posizione di A. . 2.1. Entrambe lamentano una mancanza di motivazione in ordine alla prova del danno per la P.A., atteso che la loro responsabilità è stata affermata sul presupposto - non dimostrato - che l’accordo stipulato con la ASL prevedesse una retribuzione oraria di circa Euro 23 , corrisposta sulla base dell’orario attestato dalla timbratura ai tornelli la sentenza, deducono, opera un generico rimando agli atti , senza specificare quali . Lamentano anche una contraddittorietà della motivazione, laddove la Corte d’appello ha accolto la tesi difensiva secondo cui, a termine dell’art. 30, comma 10, dell’accordo collettivo nazionale di categoria, qualora le professioniste avessero soddisfatto tutte le prenotazioni prima del termine stabilito dalla lettera di incarico, dovevano rimanere a disposizione fino alla scadenza dell’orario e utilizzare l’orario residuo per i compiti derivanti da eventuali incarichi aziendali, ovvero per prestazioni indispensabili ed urgenti ed ha poi ritenuto provato il danno, laddove è risultato provato agli atti che le due professioniste avevano soddisfatto tutte le prenotazioni e gli appuntamenti per loro fissati per converso, non è stato provato che incarichi aziendali fossero rimasti inevasi a causa della loro assenza dal luogo di lavoro. 2.2. A. , dal canto suo, lamenta anche che i giudici abbiano contraddittoriamente - irrogato una pena base notevolmente superiore al minimo edittale anni uno e mesi tre di reclusione ed Euro 300 di multa dopo aver dato atto della fondatezza della doglianza della difesa, che aveva invocato per una pena minima. Considerato in diritto I ricorsi sono manifestamente infondati. 1. In punto di responsabilità, la struttura della motivazione è logica ed essenziale. Le due imputate hanno attestato la loro presenza sul luogo di lavoro, mediante timbratura ai tornelli, in un arco temporale determinato sulla base di tale risultanza sono state retribuite. Invece, nell’orario dalle stesse attestato si trovavo altrove, a disbrigare affari propri. Tanto concreta una truffa, dal momento che il datore di lavoro è stato tratto inganno, con detto artificio, ed ha corrisposto una retribuzione non dovuta. Il danno è in re ipsa, dal momento che l’assenza dal luogo di lavoro, nell’orario attestato, ha impedito al datore di lavoro di affidare loro - dopo che avessero soddisfatto, eventualmente, le prenotazioni - eventuali incarichi aziendali , ed ha impedito loro di svolgere le prestazioni indispensabili ed urgenti che si fossero rese necessarie. Di tanto il giudice di merito non doveva dare alcuna prova concreta, essendo di comune esperienza che nelle strutture sanitarie le incombenze che gravano sugli operatori dipendenti o convenzionati sono variegate e molteplici e che solo la presenza sul posto è idonea a consentirne l’espletamento. È proprio il contenuto dell’accordo collettivo - richiamato dalle ricorrenti - che depone, quindi, per la loro responsabilità, dal momento che la corresponsione della retribuzione è avvenuta senza che avessero assicurato la disponibilità dedotta in contratto. 2. Il motivo - relativo alla pena - di A.C. è parimenti inammissibile per manifesta infondatezza, dal momento che è stata applicata alla stessa una pena base di poco superiore al minimo edittale, le sono state concesse le attenuanti generiche e l’attenuante del risarcimento del danno inoltre, nessun aumento è stato disposto, erroneamente, per la continuazione. Ne è scaturito un trattamento sanzionatorio assolutamente mite in relazione ai fatti che si sono dovuti sanzionare, per cui la pretesa di ulteriori miglioramenti - oltre a non essere argomentata - non trova fondamento nella necessità di adeguare la sanzione al reale disvalore del fatto. Non a caso, infatti, la ricorrente si è limitata a manipolare le parole del giudice di merito, il quale, parlando di accoglimento della richiesta difensiva, non ha voluto rappresentare la necessità di applicare il minimo edittale, ma solo di dover ridurre la sanzione irrogata dal primo giudice come, in effetti, ha fatto . 3. I ricorsi sono, pertanto, inammissibili. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna delle ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro duemila ciascuna, commisurata all’effettivo grado di colpa delle stesse ricorrenti nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuna della somma di Euro 2.000 a favore della Cassa delle ammende.