Condannato il padre che non versa il mantenimento ai figli ma si limita a fare la spesa alimentare

In tema di assistenza familiare, la minore età dei figli, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa” una condizione soggettiva del loro stato di bisogno, che obbliga entrambi i genitori a contribuire al loro mantenimento.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 8047/19, depositata il 22 febbraio. Il caso. La Corte d’Appello assolveva l’imputato del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. limitatamente ad alcune condotte da lui sostenute nei confronti dei figli minori perché il fatto non sussiste, confermando nel resto la decisione di primo grado. Avverso la sentenza di secondo grado il difensore dell’imputato propone ricorso per cassazione deducendo che il suo inadempimento si era protratto solo per poco tempo ed inoltre aveva comunque fatto mensilmente la spesa alimentare, così contribuendo al mantenimento dei figli. Omessa assistenza familiare. Come più volte sottolineato dalla Suprema Corte, in tema di violazione dell’obbligo di assistenza familiare, quando la condotta viene contestata con l’individuazione della sola data di inizio, il termine di prescrizione decorre dalla data della sentenza di condanna di primo grado, dato che si tratta di un reato permanente, e non dalla data di emissione del decreto di citazione in giudizio, qualora emerga nel giudizio che la condotta omissiva si è protratta anche dopo l’esercizio dell’azione penale. Ebbene nel caso in esame la sentenza di primo grado era stata emessa il 16 gennaio 2017 e la permanenza del reato è stata accertata fino a tale data, il termine di prescrizione non era decorso alla data di emissione della sentenza di appello. Per tali ragioni, il motivo di ricorso è infondato. Il contributo richiesto ad entrambi i genitori. Per quanto riguarda invece il fatto che il genitore abbia contribuito per alcuni mesi alla spesa alimentare, questo non lo esonera dal versare l’assegno di mantenimento ai figli minori. Al riguardo, gli Ermellini ribadiscono che la minore età dei figli rappresenta di per sé una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga tutti e due i genitori a contribuire al loro mantenimento. E poiché il padre non aveva provveduto a ciò, la Suprema Corte ritiene il reato sussistente e respinge il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 31 gennaio – 22 febbraio 2019, n. 8047 Presidente Paoloni - Relatore Criscuolo Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 16 gennaio 2017 nei confronti di T.L. , ha assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, limitatamente alle condotte poste in essere nei confronti del figlio J.C. , a far data dal 26 giugno 2012, perché il fatto non sussiste e ha ridotto la pena inflitta a mesi 4 di reclusione ed Euro 400 di multa nonché l’entità della provvisionale in suo favore ad Euro 5 mila, confermando nel resto la sentenza appellata. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore del L. , che ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi 2.1 violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b per mancata applicazione degli artt. 157 e 158 cod. proc. e mancata dichiarazione di prescrizione del reato, richiesta in udienza dal difensore. Si deduce che il reato è contestato come commesso in data 1 dicembre 2010 e permanente sino al 4 maggio 2011, cosicché alla data della pronuncia della sentenza di appello era maturato il termine di prescrizione di sei anni previsto dalla nuova disciplina della prescrizione 2.2 violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c , per assenza di motivazione sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione, in quanto la Corte di appello ha del tutto omesso di pronunciare sul punto 2.3 violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e per vizio di motivazione e contraddittorietà tra l’indicazione della data di commissione del reato, contenuta nel capo di imputazione, e quella ritenuta in motivazione. Si deduce che l’imputato è stato condannato per un fatto commesso dall’1 dicembre 2010 al 4 maggio 2011, ma nella motivazione manca l’indicazione dei mesi in cui l’omissione sarebbe avvenuta, atteso che la Corte di appello afferma che per alcuni mesi subito dopo la separazione, avvenuta nel novembre 2010, l’imputato avrebbe contribuito al mantenimento dei figli, acquistando loro i viveri, con conseguente incompatibilità logica e temporale tra i due assunti, specie considerando l’affermazione della moglie, secondo la quale l’imputato faceva ogni mese la spesa ha fatto quasi 4 mesi . Vi è contraddizione anche nella valutazione della prova testimoniale e di quella documentale, in quanto si afferma che l’imputato non ha mai adempiuto gli obblighi stabiliti dal decreto del Tribunale per i minorenni di Palermo in data 28 aprile 2014, a differenza di quanto affermato dalla parte lesa manifestamente illogica è l’assoluzione parziale per un periodo di tempo non contestato nell’imputazione ovvero per le condotte nei confronti del figlio, divenuto maggiorenne nel giugno 2012, trattandosi di epoca successiva a quella di cessazione della condotta 2.4 erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 51 c.p., in quanto l’imputato ha fornito ai figli viveri per un valore di 100 Euro mensili, acquistando generi consoni alla propria religione pertanto, non può non ritenersi sussistente nella fattispecie la scriminante culturale, avendo l’imputato provveduto all’educazione alimentare dei figli secondo i dettami della sua religione 2.5 violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 546 c.p.p., u.c., per mancata valutazione delle prove contrarie, in quanto la Corte di appello ha tenuto conto solo delle prove a carico, trascurando che dagli atti non risulta che la persona offesa avesse richiesto delle somme di danaro all’imputato, il quale ha dichiarato di essersi accordato con la ex moglie sulle modalità di adempimento degli obblighi assistenziali, provvedendo alla spesa. Non risulta, inoltre, alcuna valutazione degli elementi indicati nell’atto di appello, idonei a determinare una diminuzione della pena. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza. 2. Manifestamente infondato è il primo motivo relativo alla mancata dichiarazione di prescrizione del reato, in quanto fondato su un assunto erroneo. Il ricorrente individua la cessazione della permanenza alla data del 4 maggio 2011 e non alla data di emissione della sentenza di primo grado, ma, oltre a non argomentare sul punto, non tiene conto né dei periodi di sospensione del termine di prescrizione verificatisi nel corso del giudizio di primo grado, indicati nella sentenza di primo grado, né degli elementi di segno diverso, contenuti in quella impugnata. La sentenza espressamente richiama il provvedimento, emesso il 28 aprile 2014 dal Tribunale per i minorenni di Palermo, acquisito all’udienza del 23 settembre 2014, dal quale risulta che, oltre ad essere stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale per le condotte maltrattanti poste in essere nei confronti dei figli minori, l’imputato non aveva mai provveduto al loro mantenimento, rimesso esclusivamente alla madre, che non aveva mai ricevuto denaro dal padre dei tre minori. In tal modo i giudici di appello hanno dato atto della protrazione della condotta, accertata anche in sede civile, e risultante dalle dichiarazioni della persona offesa, che va ben oltre la data individuata dal ricorrente come quella di cessazione della permanenza. La decisione è corretta e conforme all’orientamento di questa Corte, secondo il quale in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, quando la condotta è contestata con l’individuazione della sola data d’inizio, il termine di prescrizione, trattandosi di reato permanente, decorre dalla data della sentenza di condanna di primo grado e non da quella di emissione del decreto di citazione, qualora sia emerso, nel corso del giudizio, che la condotta omissiva si è protratta anche dopo l’esercizio dell’azione penale Sez. 6, n. 16561 del 15/03/2016, Rv. 266927 Sez. 6, n. 33220 del 22/07/2015, Rv. 264429 , come avvenuto nella fattispecie. Considerato che la sentenza di primo grado è stata emessa il 16 gennaio 2017 e la permanenza del reato è stata accertata sino a tale data, il termine di prescrizione non era decorso alla data di emissione della sentenza di appello. 3. Per tale ragione deve ritenersi del tutto infondato il secondo motivo, con il quale si deduce la mancanza di motivazione sul punto, atteso che la mancata risposta ad un motivo ab origine inammissibile non integra il vizio denunciato. 4. Analogamente è manifestamente infondato il terzo motivo con il quale si censura la decisione e se ne sottolinea la contraddittorietà. All’evidenza la censura si fonda sull’erronea individuazione dell’epoca di commissione del reato, che il ricorrente circoscrive a soli quattro mesi anziché al ben più ampio arco temporale di protrazione della condotta e da tale premessa erronea fa discendere l’insussistenza del reato, in quanto la stessa persona offesa avrebbe ammesso che per i primi quattro mesi, dopo la separazione di fatto, l’imputato aveva provveduto a fare la spesa per un valore di circa 100 Euro mensili e fornire beni alimentari ai figli, senza poi corrispondere più nulla, pur continuando a lavorare presso una palestra. Come evidenziato in sentenza, la persona offesa, lavorando saltuariamente, non era stata in grado di provvedere ai bisogni dei tre figli minori, tanto da dover ricorrere all’aiuto di enti assistenziali, come confermato dalla responsabile del centro di accoglienza e dal provvedimento del Tribunale per i minorenni, indicato in precedenza, acquisito agli atti ed in relazione al quale l’imputato aveva potuto controdedurre e difendersi. Pertanto, facendo corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, i giudici hanno ritenuto che la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga entrambi i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando loro i mezzi di sussistenza Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871 e ritenuto provato lo stato di bisogno dell’ex coniuge, rinvenendone la conferma proprio nella necessità della stessa di ricorrere a lavori saltuari ed all’aiuto di terzi per provvedere alle esigenze dei figli. Conseguentemente, in modo del tutto coerente, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, i giudici hanno ritenuto sussistente il reato contestato nei confronti del figlio maggiore sino al compimento della maggiore età dello stesso. 5. Inammissibile è il motivo relativo alla mancata applicazione della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., non dedotto in appello e, pertanto, non deducibile per la prima volta in questa sede, ma anche manifestamente infondato, atteso che alcun rilievo è stato attribuito al tipo di alimenti acquistati dal ricorrente in ossequio alla sua confessione religiosa, bensì alla circostanza che tale contributo minimo fosse durato solo per i primi mesi successivi alla separazione. 6. Inammissibile per genericità è infine, l’ultimo motivo con il quale si sostiene la mancata valutazione di elementi favorevoli all’imputato, indicati nell’atto di appello, ma non specificati nel ricorso. Peraltro, la tesi difensiva risulta già valutata e disattesa con motivazione congrua dai giudici di appello sia con riguardo alla mancanza di atti di messa in mora o di richieste da parte della persona offesa che alle disagiate condizioni economiche dell’imputato, essendo emerso che alle esigenze dei figli provvedeva esclusivamente la madre e che l’imputato aveva provveduto solo a volte ad acquistare prodotti alimentari per i figli, senza occuparsi di altre loro esigenze o bisogni essenziali, anche per cure mediche. All’inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in Euro duemila, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa, sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite, ammesse al patrocinio a spese dello stato, nella misura che sarà separatamente liquidata D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 83, comma 2, disponendone il pagamento in favore dello stato. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende. Condanna inoltre il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili T.J.C. e T.V.L. ammesse al patrocinio a spese dello stato, nella misura che sarà separatamente liquidata, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello stato.