La lesione del diritto reale come elemento essenziale dell’appropriazione indebita

Essenza del reato di appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p., è la lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 6958/19, depositata il 13 febbraio. Il caso. L’imputato ricorre per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che lo condannava per appropriazione indebita aggravata per essersi impossessato di una ingente somma di denaro come provento della vendita di alcuni quadri. Per il ricorrente la Corte territoriale non ha considerato la deduzione difensiva in cui si sosteneva la natura civilistica della controversia o la derubricazione del reato in insolvenza fraudolenta. Appropriazione indebita. Come già più volte sottolineato dal Supremo Collegio, l’elemento essenziale del reato di appropriazione indebita è la lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui. Conseguentemente, nel caso in cui l’agente dia alla cosa o al denaro una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede oppure alla scadenza o a richiesta non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita. Pertanto, alla luce di tale principio, nel caso di specie è appurato che ricorra l’ipotesi di appropriazione indebita ecco perché gli Ermellini rigettano il ricorso dichiarandolo inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 ottobre 2018 – 13 febbraio 2019, n. 6958 Presidente Diotallevi – Relatore Verga Motivi della decisione Ricorre per Cassazione M.F.E. avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova che l’8.11.2017 ha confermato la sentenza del Tribunale che l’aveva condannato per appropriazione indebita aggravata per essersi impossessato della somma di Euro 23.500,00, provento della vendita dei quadri ricevuti da P.V. in conto vendita quale titolare della ditta Ermione srl. Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non ha considerato le deduzioni difensive nelle quali si sosteneva la natura civilistica della controversia o eventualmente la derubricazione del fatto nel reato di insolvenza fraudolenta. Il ricorso è infondato. Deve preliminarmente evidenziarsi che risulta agli atti la querela. Ciò premesso deve rilevarsi che il ricorrente censura l’apparato motivazionale della sentenza della Corte d’Appello lamentando un’assenza di motivazione in ordine alle specifiche censure mosse alla sentenza di primo grado. Questa Corte, nel precisare i limiti di legittimità della motivazione per relationem della sentenza di appello, ha avuto modo di affermare che l’integrazione della motivazione tra le conformi sentenze di primo e secondo grado è possibile soltanto se nella sentenza d’appello sia riscontrabile un nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il giudice del secondo grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure dell’appellante, ha fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice. Più specificamente, l’ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall’appellante, sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione. Cass. N. 6221 del 2006 Rv. 233082, N. 38824 del 2008 Rv. 241062, N. 12148 del 2009 Rv. 242811 Cass. Sez. 6, 20-42005 n. 4221 . Nel caso in esame, il giudice d’appello, seppure con una motivazione stringata ha risposto alle doglianze avanzate dall’appellante, richiamando la completa motivazione del giudice di primo grado solo con riguardo alle questioni di fatto già adeguatamente esaminate dal Tribunale Dalle decisioni di merito risulta in fatto che P.V. conobbe l’attuale imputato ad una mostra d’arte e fra i due nacque una frequentazione accomunata dalla passione per l’arte. Nel corso di detta frequentazione P. consegnò al M. , in conto vendita, diversi dipinti anche di valore rilevante. Il 20.2.2011 il ricorrente, confermata la vendita dei quadri, sottoscrisse riconoscimento di debito di Euro 25.000,00 prevedendo la restituzione in forma rateizzata. In realtà furono restituiti solo Euro 7.500,00 Euro 2000,00 in contanti e il resto con un quadro del valore dichiarato di Euro 5.500,00 . Il M. giustificò la mancata restituzione adducendo a contingenti difficoltà economiche. Tale comportamento, come indicato nella sentenza impugnata, è ammesso dallo stesso imputato nel corso delle dichiarazioni spontanee rese all’udienza dell’1.10.2012. È indubbio pertanto che il ricorrente non ha restituito l’intero ricavato della vendita dei quadri a lui affidati al fine di porli in vendita per conto del P. . Come indicato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 1327 del 27/10/2004, Li Calzi, Rv. 229634, l’essenza ed il fondamento del reato di appropriazione indebita consiste nella lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui in altri termini, nell’appropriazione indebita il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore, ma si tratta sempre di denaro o di cose di proprietà diretta od indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel patrimonio dell’agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza, di sua proprietà, in deroga - come espressamente previsto dall’art. 646 c.p. ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili. Di conseguenza, ove l’agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita. Detti principi sono stati successivamente confermati da Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, Rv. 250974, che ha, altresì, precisato come non sia decisiva, per considerare integrato il reato di appropriazione indebita, la circostanza che la condotta attenga a beni fungibili, quali il denaro, o infungibili. In sostanza, secondo Sez. U, Orlando, è la stessa formulazione normativa che, riferendosi al denaro o ad altra cosa mobile altrui quale oggetto della condotta di appropriazione, che impone all’interprete di considerare il denaro, al quale l’agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile. In tale prospettiva, allora, solo se l’inadempiente ha ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione appropriazione e sottrazione espropriazione del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, indipendentemente dalla circostanza che il bene sia infungibile, appropriazione indebita, rilevante ai sensi dell’art. 646 c.p Al contrario, invece, non potrà ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio, non conferite e vincolate a tale scopo. Alla luce di detti principi è indubbia la sussistenza del reato nell’ipotesi di specie. Il M. che aveva ricevuto i quadri per venderli per conto del P. si è impossessato del ricavato della vendita incassandolo per far fronte alle sue successive contingenti esigenze personali. Alla data attuale il reato, stante la contestata e ritenuta recidiva, non è prescritto. Il ricorso deve pertanto essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.