La circostanza aggravante della minorazione fisica, psichica o sensoriale della vittima ostituzionalmente legittima

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’aggravante ad effetto speciale della minorazione fisica, psichica o sensoriale della persona offesa per contrasto col principio di uguaglianza e con la finalità rieducativa della pena.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la sentenza n. 4060/19, depositata il 28 gennaio. La vicenda. La circostanza aggravante ad effetto speciale oggetto di censura nella presente sentenza è stata contestata al ricorrente, imputata per il delitto di omicidio doloso, per essere la vittima del reato un soggetto portatore di handicap ovvero persona offesa portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale . Quest’ultima è stata raggiunta da cinquanta coltellate inferte per mano dell’imputata, che era a conoscenza dell’invalidità totale della vittima – affetta da distrofia muscolare di Becher – con la quale aveva intrapreso una relazione sentimentale. La difesa riteneva che la norma palesemente contrastasse con il principio di costituzionale di uguaglianza, poiché ogni vita umana avrebbe un valore unico e, di conseguenza, deve essere negata qualunque tipo di distinzione che preveda l’aggravamento della pena per le sole condizioni della personale offesa ulteriormente, la norma violerebbe il finalismo rieducativo della pena, prescindendo l’operatività della circostanza dalla commissione del fatto di reato e dalla valutazione della condotta lesiva dell’autore. La compatibilità della norma con il principio di uguaglianza. La sentenza approda, in relazione al primo principio che si assume violato, ad un’interpretazione invero consolidata nel nostro ordinamento il principio di uguaglianza, sostanziandosi nel diritto al pari trattamento dell’individuo, non vieta in assoluto discipline differenziate a tutela di specifiche categorie di individui, ma soltanto discriminazioni irrazionali o irragionevoli. Secondo tale criterio, il legislatore ha razionalmente inteso rafforzare la tutela penale nei confronti dei soggetti diversamente abili, considerati particolarmente vulnerabili, attraverso la previsione di una circostanza aggravante a effetto speciale che tenga conto della maggiori difficoltà di difesa di cui sono dotati tali soggetti. Sarebbe quindi infondato il motivo sollevato dal ricorrente, secondo cui detta aggravante contrasterebbe col principio di uguaglianza per essere correlata alla sola condizione della persona offesa e, in particolare, alla presenza di una sua minorazione. La scelta di ulteriore criminalizzazione connessa alle condizione soggettive della vittima – e non già alla maggiore gravità del reato o alla maggiore colpevolezza dell’autore – tiene conto del maggiore disvalore sociale della condotta illecita, posta in essere a danno di individui la cui possibilità di difesa è certamente minore rispetto a soggetti non disabili. Nessuna violazione del suddetto principio, quindi, può derivare dall’aggravante in esame, che si pone sulla stessa linea, in un rapporto di specialità, con l’aggravante della minorata difesa, comportandone l’assorbimento qualora vengano entrambe contestate, come in effetti avvenuto nel caso di specie. L’assenza di contrasto con la finalità rieducativa della pena. Allo stesso modo non può rinvenirsi una violazione della finalità rieducativa della pena, individuata dal ricorrente nell’essere l’aggravante sganciata dalla commissione del reato e dalla valutazione della condotta ascritta all’autore. La Corte, nel ricordare che la natura delle circostanze aggravanti postula l’accessorietà ad un reato già compiuto e perfezionato, ribadisce che queste comportano un aumento della pena dinanzi a specifiche situazioni valutate dal legislatore come idonee a conferire un particolare disvalore. L’aggravante in oggetto, allora, è configurabile e applicabile nel caso di specie per il solo fatto che la vittima fosse affetta da handicap, circostanza conosciuta dall’autore dell’omicidio. Inoltre, l’aggravamento sanzionatorio è adeguabile al disvalore concreto del caso sub iudice attraverso specifici istituti che, anche a fini rieducativi, consentono il bilanciamento ovvero il contenimento massimo di pena. In conclusione, davvero non si intende come possa dubitarsi della legittimità di una norma la quale si pone come riflesso di una più ampia azione legislativa, tanto di diritto sostanziale quanto processuale, volta alla tutela di soggetti c.d. vulnerabili.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 7 febbraio 2018 – 28 gennaio 2019, n. 4060 Presidente Novik – Relatore Tardio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 22 dicembre 2015 il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Bergamo, all’esito del giudizio abbreviato, respinta, per la sua infondatezza, l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal Pubblico Ministero in relazione alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 36, dichiarava E.M.R. colpevole del reato di omicidio in danno di M.H. e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza e ritenuta in essa assorbita l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5, la condannava alla pena, ridotta per il rito, di anni quattordici di reclusione, oltre al risarcimento dei danni cagionati alle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio civile, assegnando a ciascuna di esse una provvisionale immediatamente esecutiva pari a Euro cinquantamila, la dichiarava interdetta in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante il periodo di espiazione della pena, e disponeva a suo carico la misura di sicurezza della espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata. 2. La Corte di assise di appello di Brescia con sentenza del 25 novembre 2016, a seguito di appello dell’imputata, confermava la sentenza di primo grado. 3. Secondo la imputazione contestata, E.M.R. aveva cagionato la morte di M.H. , con il quale alloggiava in una camera dell’albergo-ristorante , sito in omissis , colpendolo ripetute volte e in modo penetrante, mentre era disteso sul letto, con un coltello da cucina, all’altezza del collo e dell’addome, approfittando di circostanze di persona tali da ostacolare la pubblica e la privata difesa art. 61 c.p., n. 5 e agendo in danno di soggetto portatore di handicap ovvero di minorazione fisica, psichica o sensoriale. 4. Il Giudice di primo grado riteneva provata la responsabilità dell’imputata alla luce del quadro probatorio, giudicato univoco e logicamente convergente, tratto dagli acquisiti apporti dichiarativi, dai rilievi tecnici effettuati nella immediatezza dagli operanti, dal sopralluogo svolto all’interno della stanza dell’albergo e del relativo bagno, dal verbale di P.S. dell’ospedale di ove era stata ricoverata l’imputata subito dopo il fatto, dalla relazione medico-legale volta ad accertare le cause della morte di M.H. , dai tabulati telefonici relativi alle utenze in uso all’imputata e alla vittima, dalle dichiarazioni rese dalla imputata al Pubblico Ministero il 12 febbraio 2015. Il Giudice, in particolare, rappresentava a ragione dell’espresso giudizio che l’imputata era stata vista allontanarsi dal bar omissis in direzione dell’albergo dove H. aveva riservato una stanza la stessa in stato di agitazione aveva avvertito P.D. , cuoco dell’albergo, di quanto accaduto nella stanza dell’albergo all’arrivo dei Carabinieri era in stato di shock psicogeno post traumatico riscontrato sia al Pronto soccorso sia all’Ospedale di omissis , a conferma della presa di coscienza della gravità del fatto commesso era stata l’unica a essere entrata nella stanza dell’albergo ove vi era un coltello da cucina, consegnato alla vittima dal predetto P. la sera precedente l’imputata aveva gli abiti sporchi di sangue e una ferita da arma da taglio alla mano sinistra, con la quale aveva impugnato il coltello. Secondo il Giudice, che richiamava a risconto gli accertamenti tecnici, dai tabulati telefonici erano traibili contatti tra l’imputata e H. fin dall’aprile 2014 a conferma della relazione sentimentale in corso, e contatti tra gli stessi la sera del 31 dicembre 2015 quando la vittima chiamando l’imputata aveva agganciato le celle compatibili con il viaggio che quest’ultima aveva riferito di avere fatto da a per raggiungere H. . Confortavano il quadro probatorio anche le dichiarazioni rese da D.M. , nipote dell’imputata, che, identificato per avere richiesto un colloquio in carcere con la stessa, aveva parlato della relazione sentimentale tra la zia e una persona di origini marocchine, dalla quale la zia aveva ricevuto una promessa di matrimonio i contenuti del colloquio, avuto in carcere tra l’imputata e il nipote, intercettato, nel corso del quale la prima aveva confessato al secondo di avere ucciso H. che le aveva comunicato di non essere intenzionato a sposarla le dichiarazioni ampiamente confessorie rese dall’imputata al Pubblico Ministero, confermando la relazione sentimentale con la vittima. Il verosimile motivo dell’omicidio era individuato nella conseguita consapevolezza dell’imputata che la vittima, con la quale intratteneva una relazione sentimentale e sessuale, la considerava una prostituta e non era disposta a sposarla. Il Giudice, che respingeva l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal Pubblico Ministero con riguardo alla contestata aggravante di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 36, ritenendo che la rafforzata tutela riservata a categorie di soggetti considerati particolarmente vulnerabili non violasse i richiamati parametri costituzionali, di cui agli artt. 3 e 27 Cost., giudicava integrata in concreto la detta aggravante -che assorbiva per il principio di specialità la circostanza aggravante della minorata difesa, pure contestata avuto riguardo alla invalidità al cento per cento della vittima, che era risultata affetta da distrofia muscolare di Becher, non poteva deambulare autonomamente e si spostava a mezzo di carrozzella a rotelle. 5. La Corte di assise di appello, che ripercorreva sintetizzandole le emergenze probatorie e le ragioni di doglianza fatte oggetto dei motivi di appello, rilevava che era manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla difesa appellante, con riguardo alla circostanza aggravante a effetto speciale, introdotta dalla L. n. 104 del 1992, art. 36 con riguardo a determinate categorie di delitti, tra i quali l’omicidio, compiuti nei confronti di persona handicappata, rappresentandone il contenuto oggettivo, correlato alla condizione personale della persona offesa per rafforzare in modo razionale la tutela dei soggetti diversamente abili, considerati particolarmente vulnerabili per la maggiore difficoltà di difesa, e sottolineando che l’aggravamento sanzionatorio poteva essere temperato con il riconoscimento di attenuanti per la coerente valutazione delle circostanze apprezzabili nel caso concreto escludeva, pertanto, la contrarietà della previsione normativa al principio di uguaglianza e al principio rieducativo della pena confermava la piena sussistenza dell’aggravante rimarcando che della invalidità totale della vittima era a conoscenza l’imputata che da tempo aveva intrapreso una relazione con la stessa e ne aveva spinto la carrozzella fino alla stanza dell’albergo riteneva, quindi, che la detta aggravante fosse configurabile e applicabile ai sensi dell’art. 59 c.p., comma 2, per il solo fatto che la vittima era affetta da handicap giudicava fuorvianti le doglianze relative alla incompatibilità con il dolo d’impeto dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5, già ritenuta assorbita, con decisione del Giudice della udienza preliminare non impugnata, nell’aggravante di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 36, ed estese genericamente a detta aggravante, e ne apprezzava comunque la infondatezza, rilevando che la risoluzione improvvisa subito tradotta in azione poteva essere realizzata anche nei confronti di persona con handicap ovvero approfittando dello stato di minorata difesa della vittima evidenziava che ostava al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche la rilevantissima gravità del fatto omicidiario, il cui movente era rinvenuto nella rabbia/disillusione, insorta nell’imputata la mattina del primo gennaio 2015 quando nel corso di una discussione con H. aveva compreso che questi non l’avrebbe sposata, come confermato dalle dichiarazioni del nipote D.M. e dalla conversazione intercettata il 7 marzo 2015, e la cui esecuzione era avvenuta con cinquanta coltellate inferte in vita al collo e all’addome della vittima, dimostrative di rabbia ed efferatezza, oltre al comportamento successivo al fatto dell’imputata bere il sangue della vittima, coricarsi per qualche ora vicino al cadavere, esprimere l’errata consapevolezza di avere compiuto la vendetta divina . 6. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, per mezzo del suo difensore avv. Michele Coccia, l’imputata che ne chiede l’annullamento sulla base di tre motivi, facendone precedere la illustrazione da una breve premessa in fatto. 6.1. Con il primo motivo si ripropone, in via pregiudiziale, la questione di legittimità costituzionale, L. 11 marzo 1953, n. 87, ex art. 23, della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 36, e succ. mod., in relazione all’art. 3 Cost., comma 1, e art. 27 Cost., già avanzata dal Pubblico Ministero in sede di conclusioni all’udienza del 10 dicembre 2015 e sottoposta alla Corte di assise di appello. Secondo la ricorrente, la previsione di detta aggravante, che -per i delitti non colposi di cui ai titoli 12 e 13 del libro 2 del codice penale, e quindi per il delitto di cui all’art. 575 c.p., che è ricompreso nel titolo 12 comporta un aumento della pena da un terzo alla metà se la persona offesa sia portatrice di minorazione fisica, ovvero psichica o sensoriale, è in palese contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza per essere correlata alla sola condizione della persona offesa e, in particolare, alla presenza di una sua minorazione, mentre la vita rappresenta per tutti il valore unico si cui si fonda la personalità di ciascuno e l’essenza della società , ed è in contrasto con l’art. 27 Cost. per essere sganciata dalla connessione con la commissione del reato e con il suo autore e dalla valutazione della condotta ascritta in relazione al reato commesso, sì da non rendere giustificata la finalità rieducativa dell’aggravamento di pena. 6.2. Con il secondo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , vizio della motivazione in ordine alla dichiarazione di infondatezza della detta questione di legittimità costituzionale per essere inadeguata, e pertanto apparente, la motivazione che supporta le considerazioni svolte dalla sentenza impugnata nel richiamare il rafforzamento di tutela effettuato dalla L. n. 104 del 2009 rectius 1992 per le persone affette da handicap e nel rappresentare che tale tutela rafforzata non presenta alcuna riserva sotto il profilo della uguaglianza e della ragionevolezza e non contrasta con gli invocati parametri costituzionali. 6.3. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e , vizio della motivazione in ordine al mancato giudizio di bilanciamento, in termini di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, e in ordine alla incompatibilità tra l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5 e quella di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 36 e il dolo d’impeto, oltre alla violazione di legge e al vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e , in riferimento agli artt. 133 e 69 c.p. e all’art. 27 Cost., comma 3. 6.3.1. Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata che ha ritenuto la pena inflittale congrua e proporzionata alla sua personalità e alla notevole gravità del fatto, confermando il già espresso giudizio di bilanciamento tra le circostanze di segno opposto, è incorsa nei denunciati vizi, poiché, a fronte della eccepita incompatibilità delle circostanze aggravanti contestate con il dolo d’impeto, riconoscibile alla luce delle modalità dell’azione, ha affermato in termini apodittici e contraddittori che la risoluzione ad agire, sorta improvvisa e tradottasi immediatamente in azione, può essere realizzata nei confronti di persona affetta da handicap o approfittando coscientemente del suo stato di minorata difesa, mentre l’approfittamento cosciente di una condizione nella specie quella di inferiorità fisica della vittima richiede la sua rappresentazione e volizione per sfruttarla a proprio vantaggio. Dalla operata ricostruzione della condotta delittuosa, ad avviso della ricorrente, non è risultato che essa abbia sfruttato consapevolmente una situazione di vantaggio derivata dalla infermità della vittima, che non ha inciso in maniera autonoma sulla sua volontà avuto riguardo alla rabbia esplosiva in preda alla quale essa ha agito. 6.3.2. Quanto al trattamento sanzionatorio la sentenza non ha rapportato i criteri di cui all’art. 133 c.p. alla finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27 Cost. e riconosciuta parte integrale del processo di cognizione, e non riguardante unicamente il trattamento penitenziario afferente alla esecuzione della pena. Tale finalità, che si aggiunge a quella retributiva, implica, come mezzo al fine, la individualizzazione della sanzione, e quindi l’attenta disamina di tutte le modalità, oggettive e soggettive, della condotta, con esclusione del richiamo a elementi estranei alla condotta stessa o indipendenti dalla suitas del soggetto agente, in correlazione alla personalità della responsabilità penale. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato o inammissibile nelle proposte doglianze e deduzioni. 2. Sono destituite di fondamento le censure svolte con il primo e il secondo motivo, che attengono, sotto concorrenti profili, alla non disposta rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 36, alla stregua del cui comma 1 nel testo modificato dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, art. 17, e poi sostituito dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 3, comma 1 , quando i reati di cui all’art. 527 c.p., i delitti non colposi di cui ai titoli 12 e 13 del libro 2 del codice penale, nonché i reati di cui alla L. 20 febbraio 1958, n 75, sono commessi in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale, la pena è aumentata da un terzo alla metà , e alle ragioni della dichiarazione di manifesta infondatezza della questione. 2.1. Detta circostanza aggravante a effetto speciale è stata contestata alla ricorrente, imputata del delitto di omicidio ex art. 575 c.p., ricompreso nel titolo 12 del libro 2 del codice penale, per essere la vittima M.H. soggetto portatore di handicap ovvero persona offesa portatrice di minorazione fisica psichica o sensoriale , in aggiunta all’aggravante comune di cui all’art. 61 c.p., n. 5, a sua volta contestata per avere l’imputata approfittato di circostanze di persona, tali da ostacolare la pubblica e la privata difesa . La Corte di assise di appello, seguendo linee logiche e giuridiche concordanti con lo sviluppo decisionale della sentenza di primo grado, ha proceduto alla coerente lettura della indicata disposizione L. n. 104 del 1992, art. 36 nel contesto della relativa legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate e delle norme previste dalla stessa e tese a riconoscere, rafforzandone la tutela, i diritti della persona affetta da handicap, inteso come minorazione fisica, psichica o sensoriale, e ha espressamente annotato -posta la natura delle circostanze aggravanti quali elementi accessori di un reato già compiuto e perfezionato che comportano un aggravamento della pena in presenza di situazioni specifiche valutate dal legislatore idonee a conferire un particolare disvalore al fatto che, con la previsione della ridetta circostanza aggravante oggettiva attinente alla condizione personale della persona offesa, si è inteso razionalmente rafforzare la tutela penale di una individuata categoria di soggetti diversamente abili descritta all’art. 3 della medesima legge e in seguito ampliata , considerati particolarmente vulnerabili. 2.2. La Corte, correlandosi alle obiezioni e ai rilievi mossi dalla imputata appellante alle censurate risposte del Giudice di primo grado alla eccezione di illegittimità costituzionale del ridetto art. 36 sollevata per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. dal Pubblico Ministero in sede di conclusioni e rigettata per la sua manifesta infondatezza, ha rappresentato, ribadendo tale epilogo decisorio, che la già evidenziata tutela rafforzata, apprestata dalla disposizione contestata, non presentava alcuna riserva sotto i profili della uguaglianza/ragionevolezza, né sotto il profilo rieducativo della pena, atteso il razionale e condiviso maggiore disvalore della condotta illecita tenuta nei confronti del soggetto fisicamente o psichicamente disabile e avuto riguardo alle difficoltà di difesa del medesimo, sicuramente maggiori rispetto al soggetto non disabile. Né a tale riguardo la Corte ha prescisso dal ripercorrere, condividendo la conforme analisi svolta con la sentenza di primo grado, le specifiche circostanze, previste dal codice penale art. 61 n. 10, art. 61 n. 11-ter, art. 61 n. 11-quinquies , connotate dall’essere ciascuna causa di aggravamento sanzionatorio per la maggiore gravità del reato e per la maggiore colpevolezza del loro autore quando il reato è commesso nei confronti di persone esercenti una funzione pubblica o di vittime particolari studenti, minorenni, donne in gravidanza , bisognevoli di tutela rafforza per essere vulnerabili e meno capaci di difendersi, aggiungendo, a conforto della coerenza del quadro normativo e della congruenza della svolta lettura, che l’aggravamento sanzionatorio è adeguabile al disvalore concreto dei singoli casi attraverso il non vietato bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., ovvero attraverso l’attuazione del principio di cui all’art. 63 c.p., comma 4, o la previsione del limite massimo di pena previsto dall’art. 64 c.p., comma 2. 2.3. A tali valutazioni in diritto, coerenti con la ratio della sua previsione, la Corte di secondo grado ha aggiunto il dato fattuale, che attesta la piena sussistenza dell’aggravante, rappresentato dall’essere la vittima affetta da distrofia muscolare di Becher, con invalidità riconosciuta totale e con impossibilità di deambulare autonomamente, nota alla ricorrente, che, oltre a conoscere la vittima, con la quale aveva una relazione sentimentale e sessuale, l’aveva spinta, mentre era in carrozzella, nella stanza dell’albergo, ove si è consumato l’omicidio. Sono pertinenti, e confermano la correttezza ed esaustività dell’analisi, anche le considerazioni che la Corte ha logicamente esplicato rappresentando, in termini consequenziali, in correlazione al criterio di cui all’art. 59 c.p., comma 2, la configurabilità e applicabilità dell’aggravante in oggetto per il solo fatto che la vittima sia affetta da handicap, conosciuto dall’autore dell’omicidio, e, secondo la regola dettata dall’art. 15 c.p., il suo contenuto speciale rispetto alla pure contestata aggravante della minorata difesa, che ne ha comportato l’assorbimento, sì come già ritenuto con statuizione del primo Giudice non impugnata. 2.4. Si tratta di rilievi corretti, che senza vuoti argomentativi hanno apprezzato, in generale e in rapporto al caso concreto, la valenza delle deduzioni e obiezioni, che, sottoposte al giudizio di primo grado dalla pubblica accusa e devolute dalla difesa a quello di secondo grado, sono state escluse dandosi conto, in termini coerenti ed esaustivi, delle ragioni della conformità della disposizione normativa ai principi costituzionali evocati. Né introducono ragioni di riflessione le osservazioni espresse nel ricorso, riproponendo la già posta questione di legittimità costituzionale, poiché la presenza della minorazione della persona offesa, senza assumere il paventato valore di una differenziazione irragionevole e del tutto discriminatoria , anche in rapporto al bene primario della vita e alla sua tutela, e di scelta di ulteriore criminalizzazione correlata alle condizioni soggettive della vittima e non all’autore del reato, rappresenta una situazione specifica, che il legislatore, nel ridetto contesto della tutela rafforzata riservata ai soggetti affetti da handicap, ovvero diversamente abiliti, ha ritenuto tale da incidere sulla cornice edittale della pena in quanto espressiva del maggiore disvalore sociale della condotta illecita, e adattabile alla situazione concreta sub iudice attraverso specifici, e non esclusi, istituti che, anche a fini rieducativi, consentono il bilanciamento ovvero il contenimento del limite massimo di pena. 3. Non ha alcun pregio il terzo motivo, che attinge la sentenza, per violazione di legge e vizio di motivazione, nei punti relativi alla non esclusa incompatibilità tra l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5 e quella di cui alla L. n. 104 del 2009, art. 36, che l’ha assorbita, e il dolo d’impeto al non espresso giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p. in termini di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche su detta aggravante, e alla operata determinazione del trattamento sanzionatorio. 3.1. Quanto al primo profilo, la sentenza, che ha presupposto il non contestato ritenuto assorbimento nell’aggravante di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 36 di quella pure contestata della minorata difesa, in ragione della disabilità della vittima, per la non possibile doppia valutazione dello stesso elemento, ha dato conto delle regole di diritto, elaborate dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo alla indicata aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5, e segnatamente di quelle relative alla sua struttura e al profilo soggettivo, annotando con coerenti riferimenti che, ai fini della sua integrazione, è sufficiente la coscienza e volontà dell’agente di compiere l’azione in presenza di obiettive circostanze favorevoli o agevolatrici della condotta criminosa, mentre non è necessario che l’approfittamento di tali circostanze sia sorretto da dolo specifico, o, comunque, che la situazione determinata dalle stesse sia stata ad arte ricercata o indotta Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, Rossi, Rv. 259729, con richiami, ivi esposti, a precedenti giurisprudenziali . La Corte, rimarcando che nella specie vi è stato un chiaro approfittamento da parte della ricorrente -che ben conosceva la vittima e il suo stato fisico di circostanze di luogo, essendo stata luogo dell’omicidio una stanza di albergo chiusa, e di persona, essendo la vittima affetta da handicap invalidante al cento per cento e incapace di deambulare, e come tale particolarmente vulnerabile, ha ragionevolmente sottolineato tali evidenze in correlazione con il dolo di impeto, che ha caratterizzato l’azione e del quale ha condiviso la specifica analisi svolta dalla recente sentenza delle Sezioni Unite Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267628 . Correttamente rilevando che il dolo d’impeto designa un dato meramente cronologico consistente nella repentina esecuzione di un proposito criminoso improvvisamente insorto, la Corte ha evidenziato, in linea con il richiamato arresto che ha giudicato compatibile il dolo d’impeto con la circostanza aggravante della crudeltà di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 4, previa ampia disamina delle plurime fattispecie ritenute compatibili detta forma di dolo, sul rilievo che la risposta immediata, o quasi immediata, in cui esso si concreta non collide con una connessa e coeva ulteriore e contestuale intenzionalità, ovvero con un profilo di consapevolezza e previsione degli esiti della condotta voluta, in funzione del nesso causale che deve legare i due termini del fatto , che la deliberazione illecita può ben essere fulminea, estemporanea ma al contempo fredda e ordinata, e che, al contrario, un crimine lungamente preordinato può essere eseguito in una condizione psichica emotivamente perturbata dalla stessa drammaticità dell’atto, coerentemente escludendo che con la figura del dolo di impeto, e quindi con le componenti impulsive della condotta, fosse incompatibile l’aggravante della minorata difesa e tantomeno quella, ritenuta con valenza assorbente, prevista dall’art. 36. Le doglianze difensive, reiterative di deduzioni già giudicate soccombenti, sono prive di fondatezza nella sottovalutazione, genericamente opposta, dei riferimenti in diritto, operati in sentenza, alla decisione delle Sezioni Unite, oltre a essere prive di specifico confronto critico con le risposte ricevute e con gli argomenti spesi, congruenti in fatto e non manifestamente illogici. 3.2. Sono ai limiti dell’ammissibilità e quantomeno infondate le doglianze, di cui al secondo indicato profilo, relativo al contestato giudizio di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le ritenute aggravanti. La Corte di merito, confermando la valutazione del primo Giudice e ponendosi in continuità argomentativa con la decisione impugnata quanto all’analisi dei fatti e delle condotte, ha, invero, ritenuto che non emergevano ragioni per formulare il più favorevole invocato giudizio, ragionevolmente esplicitando le ragioni e i criteri di esercizio del proprio potere discrezionale, correlati, in positivo, alla considerazione del turbamento psicologico dimostrato dall’imputata e delle sue condizioni di marginalità sociale, giustificative della concessione delle attenuanti generiche, e, in negativo, alla considerazione della rilevantissima gravità del fatto omicidiario, del movente dell’azione criminosa rinvenuto segnatamente nella rabbia insorta nella imputata al mattino dello stesso giorno del fatto quando si era resa conto che la vittima non l’avrebbe sposata valendo in tal senso le sommarie informazioni testimoniali di D.M. e il contenuto della intercettazione del 7 marzo 2015, sintetizzati in sentenza , delle particolari circostanze dell’azione circa cinquanta coltellate penetranti al collo e all’addome della vittima dimostrative di rabbia intensa e di efferatezza, dell’atteggiamento di gratuita eccedenza rispetto alla normalità causale e del comportamento tenuto dopo il fatto aver bevuto il sangue della vittima, essersi coricata a riposare vicino al suo cadavere, l’avere espresso l’errata consapevolezza di avere compiuto la vendetta divina e della irrilevanza della confessione, necessitata dalle circostanze del fatto e dagli accertamenti svolti, giunta tardivamente e priva di segni di resipiscenza. Tale motivata soluzione della equivalenza tra elementi circostanziali di segno opposto resiste ai rilievi difensivi, esprimendo contrariamente agli stessi, in modo né assertivo né manifestamente illogico, l’esito del coerente esercizio da parte dei Giudici di merito del potere discrezionale, loro riservato dall’art. 69 c.p. e ragionevolmente esplicitato quanto ai criteri seguiti, di determinare il disvalore complessivo dell’azione delittuosa con i pertinenti elementi circostanziali, siano essi aggravanti o attenuanti, e di quantificare la pena nel modo più aderente al caso concreto, alla luce di consolidati principi di diritto tra le altre, Sez. 1, n. 3232 del 13/01/1994, Palmisano, Rv. 199100 Sez. 6, n. 6866 del 25/11/2009, dep. 2010, Alesci, Rv. 246134 Sez. 5, n. 5579 del 26/09/2013, dep. 2014, Sulo, Rv. 258874 . 3.3. Né, quanto al terzo profilo, la determinazione della pena in misura corrispondente al minimo edittale, poi ridotto di un terzo per effetto del rito scelto, peraltro ritenuta dalla Corte di merito congrua e proporzionata alla personalità dell’imputata e alla notevole gravità del fatto, richiedeva alcuna specifica motivazione tra le altre, Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo, Rv. 241189 Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, Pacchiarotti, Rv. 255825 . 6. Il ricorso deve essere, conclusivamente, rigettato. Segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.