La norma giudicata incostituzionale non soffre il giudicato

Anche quando la censura costituzionale riguarda il solo trattamento sanzionatorio – come nei casi di abusi edilizi minori” ex d.lgs. n. 42/2004 derubricati da delitti a contravvenzioni dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 56/16 -, il consolidamento del giudicato formale non impedisce al giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. di operare sull’accertamento penale, con esiti demolitori della condanna già comminata.

Così la Cassazione, Terza Sez. Penale, sentenza n. 55015/18, depositata il 10 dicembre. Il caso in materia di abusi edilizi. La sentenza della Corte Costituzionale n. 56/16 ha operato sull’art. 181, comma 1- bis , d.lgs. n. 42/2004 ed ha derubricato da delitto a contravvenzione – con ogni relato effetto in punto di più breve prescrizione del reato - l’intervento edilizio abusivo di aumento dei manufatti sotto il 30% della volumetria originaria, permanente la natura delittuosa delle condotte di ampliamento dei manufatti oltre 750 metri cubi e di quelle di nuova costruzione oltre i 1000 metri cubi. Pur operante la novità giurisprudenziale, la Corte d’Appello in funzione di giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., aveva ritenuto di non poter intervenire sul giudicato già maturato avente ad oggetto l’accertamento di un abuso edilizio ora sanzionabile ai sensi della più mite punizione contravvenzionale. Il Procuratore generale ricorreva per Cassazione, ottenendo ragione. In caso di illegittimità costituzionale opera la bonifica” di ogni effetti penale seguente alla norma dichiarata incostituzionale, salva la sola pena già eseguita. L’art. 30 l. n. 30/1953 esplicitamente prescrive la demolizione di ogni effetto penale seguente alla pena dichiarata incostituzionale, salvi gli effetti irreversibili – id est la pena già scontata -. La prescrizione concerne non solo l’illegittimità dichiarata del precetto penale ma anche la censura costituzionale di ogni altro elemento costitutivo della fattispecie, compreso il trattamento sanzionatorio, ed incide ex tunc sulla genetica e sulla validità originaria della norma. Non c’è giudicato che tenga, prevale il principio di legalità penale - ex art. 25 e 27 della Costituzione nonché ex art. 7 della CEDU - sulla definitività dell’accertamento penale, cui non va riconosciuta dignità di principio immutabile ed immanente all’ordinamento penale. Gli altri fenomeni successori della legge penale l’”abolitio criminis” ex artt. 2 c.p. e 673 c.p.p. e la sopravvenienza della legge penale più favorevole, ex art. 2, comma 2, c.p Altro è l’abrogazione della norma penale – che opera su un piano distinto che l’illegittimità costituzionale - ovvero la sua modifica in senso più favorevole al reo, ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p. Nel primo caso cessa la sentenza e i suoi effetti penali – cedevole anche in questo caso il giudicato formale già maturato -, nel secondo caso – sopravvenienza della lex mitior - il giudicato impedisce l’applicazione dell’istituto. Il caso. Erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto di rubricare il caso in oggetto – derubricabile da delitto a contravvenzione - a sopravvenienza della legge più mite – operante dunque la preclusione del giudicato già consolidato - anziché, più propriamente, collocare l’intervento riparatore della Corte nell’alveo dell’art. 30 l. n. 30 cit., indifferente al già maturato giudicato. La Cassazione ha annullato con rinvio, i quali giudici, pur riconosciuto il giudicato già perfezionato sul fatto, accerteranno la natura contravvenzionale dell’illecito e la decorsa prescrizione del reato.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 luglio – 10 dicembre 2018, numero 55015 Presidente Sarno – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Napoli ricorre per cassazione impugnando l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale la predetta Corte di appello, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato la richiesta avanzata dallo stesso Procuratore Generale di revocare la condanna definitiva e l’ordine di demolizione nonché di ripristino dello stato dei luoghi di cui alla sentenza del tribunale ordinario di Napoli del 19 giugno 2009, riformata con sentenza del 27 novembre 2013 della corte di appello e irrevocabile il 24 aprile 2015. 2. Per l’annullamento dell’impugnata ordinanza il ricorrente articola un unico, complesso, motivo di gravame, qui enunciato, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione. Con esso il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli articoli 673, comma 1, e 676, comma 1, del codice di procedura penale in relazione all’articolo 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, numero 87 e dell’articolo 2, comma 4, del codice penale articolo 606, comma 1, lettera b , del codice di procedura penale . Sostiene che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale numero 56 del 2016, la dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, numero 42 impone l’applicazione dell’articolo 30, comma 4, della legge numero 87 del 1958 e non invece l’articolo 2, comma 4, del codice penale, con la conseguenza che la riduzione del precedente delitto a contravvenzione comporta la necessità di dichiarare, ora per allora, l’estinzione per prescrizione del reato contravvenzionale, qualora essa sia maturata prima della definitività della sentenza in esecuzione. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, dopo aver premesso che sussiste l’interesse all’impugnazione, trattandosi di far conseguire effetti favorevoli al condannato e di non eseguire una sentenza contraria ai principi dell’ordinamento giuridico, ha ricordato la lezione interpretativa fornita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza Gatto in forza della quale, se in epoca successiva alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna interviene la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale che, pur diversa da quella incriminatrice, è comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione è tenuto a rideterminare la pena in favore del condannato anche se il provvedimento correttivo da adottare non è a contenuto predeterminato Sez. U, numero 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697 . Sulla base di tale premessa, ha anche ricordato che la giurisprudenza di legittimità, a proposito della questione che qui interessa, ha già affermato che, in tema di esecuzione, il giudice, adito con istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna a seguito della sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. numero 42 del 2004, deve dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della predetta sentenza, riqualificato come contravvenzione, ai sensi del comma primo della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti Sez. 3, numero 52438 del 11/07/2017, Scamardella, Rv. 271879 Sez. 3, numero 38691 del 11/07/2017, Giordano, Rv. 271301 . Ha concluso, pertanto, per l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. La Corte di appello di Napoli ha rigettato l’istanza premettendo che, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, di cui alla sentenza numero 56 del 2016, permane la natura di delitto, collegata alla fattispecie di cui all’articolo 181, comma 1-bis, del decreto legislativo numero 42 del 2004, soltanto per le condotte ricadenti nelle ipotesi di aumento dei manufatti superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria e di ampliamento dei manufatti superiore a 750 m3 nonché nei casi di nuova costruzione con una volumetria superiore ai 1000 m3, ed ha ricordato che la declaratoria di parziale incostituzionalità è stata pronunciata per la irragionevolezza sanzionatoria del comma 1-bis dell’articolo 181 del citato decreto legislativo, con la conseguenza che il precetto è stato limitato al cosiddetto delitto paesaggistico per i soli interventi volumetrici di particolare consistenza. Siccome le decisioni della Corte costituzionale hanno effetto ex tunc, cancellando dall’ordinamento le norme che risultano in contrasto con i principi costituzionali e siccome tale principio vale soltanto per le norme incriminatrici, il giudice dell’esecuzione, esclusivamente in tali casi, sarebbe tenuto a revocare la sentenza di condanna o il decreto penale di condanna, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato. E siccome, nel caso in esame, la decisione della Consulta ha investito la sanzione non anche il precetto della norma penale, la Corte di appello di Napoli ha ritenuto che non si verte in un caso di abolitio criminis ma solo di un mutamento della natura della norma che ha inciso esclusivamente sul trattamento sanzionatorio, con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non avrebbe alcun margine per revocare la sentenza di condanna definitiva e di provvedere alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Sostenendo di non ignorare i contrari principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice dell’esecuzione ha giustificato il proprio orientamento evidenziando che, nel caso di specie, non si tratta di mitigare il trattamento sanzionatorio in conseguenza della pronuncia di incostituzionalità di una norma, bensì di applicare l’istituto della prescrizione ora per allora , tenendo conto del sopravvenuto mutamento di una fattispecie incriminatrice che non è stata abrogata ma che non ha più natura di delitto, bensì di contravvenzione, con la conseguenza che, nel caso in esame, non potrebbe trovare applicazione dell’articolo 30 della legge numero 87 del 1953 e tanto meno l’articolo 673 del codice di procedura penale, la quale ultima, facendo riferimento agli effetti penali della condanna, esclude che in tale nozione possa rientrare l’istituto della prescrizione del reato. Dovendosi perciò applicare l’articolo 2, comma 4, del codice penale, la Corte di appello ha rigettato la richiesta. 3. L’opzione interpretativa prescelta dalla Corte d’appello non è fondata. 3.1. Preliminarmente, è il caso di riportare, nei punti essenziali, il contenuto dell’indirizzo di legittimità disatteso dalla pronuncia impugnata ed al quale occorre dare continuità. È stato infatti affermato Sez. 3, numero 52438 del 11/07/2017 cit., in motiv. Sez. 3, numero 38691 del 11/07/2017, cit., in motiv. come una concezione, così come quella pronosticata, nel caso di specie, dalla Corte partenopea, che si atteggi cioè ad essere del tutto insensibile rispetto alle vicende giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza penale nelle ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale ex art. 30 legge numero 87 del 1958 che abbia inciso sulla struttura del reato e, di conseguenza, sulla punibilità mediante il mutamento di species dell’illecito, debba ormai ritenersi ampiamente superata dalla recente elaborazione giurisprudenziale sia interna che sovranazionale. A questo proposito è stato richiamato il principio di diritto anticipato in nuce dalle Sezioni Unite Nicolini Sez. U, numero 7682 del 21/06/1986, Nicolini, in motiv. , secondo il quale, in ambito penale, la forza della cosa giudicata deriva soprattutto dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, il quale soltanto assume nel vigente diritto processuale penale la portata e la valenza di principio generale, mentre nessun appiglio consente di ravvisare nell’ordinamento l’immodificabilità in assoluto delle sanzioni stabilite con la sentenza di condanna passata in giudicato, con la conseguenza che, sulla base di tali premesse, le Sezioni unite Gatto hanno affermato che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale che, pur diversa da quella incriminatrice, è comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione è tenuto a rideterminare la pena in favore del condannato anche se il provvedimento correttivo da adottare non è a contenuto predeterminato Sez. U, numero 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697 . È stato poi ricordato che - nell’ottica di un superamento del binomio giudicato-abolitio criminis e di estensione dei principi anche alle ipotesi di rapporti tra il giudicato e norma incriminatrice che, ancorché non abrogata, sia stata modificata in favore del reo - si è pronunciata anche la Corte Costituzionale la quale con argomentazioni ancor più diffuse, nel dichiarare con la sentenza numero 210 del 2013 l’illegittimità costituzionale del D.L. 24 novembre 2000, numero 341, art. 7, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. gennaio 2001, numero 19, numero 4, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 7 CEDU, è arrivata ad affermare che è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato l’ordinamento nazionale, infatti, recita la Consulta, conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo . Sulla scorta di tali premesse e della successiva elaborazione giurisprudenziale per tutte, Sez. U, numero 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207 scaturita in conseguenza della sentenza numero 34 del 2014 della Corte costituzionale, la Corte di legittimità è pervenuta alla conclusione che l’omesso rilievo della prescrizione maturata illo tempore e non valutata dal giudice di merito, ostandovi la natura delittuosa del reato originariamente contestato, si tradurrebbe in una manifesta violazione dei diritti del condannato, che si troverebbe perciò esposto ad espiare una pena illegittima, venendo elusa, nel suo significato più sostanziale, la disposizione di cui all’articolo 30 della L. numero 87 del 1953 - che impone la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza di condanna pronunciata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale - e, con essa, venendo elusi i principi fondamentali della legalità penale articoli 25 e 27 Cost. nonché art. 7 Cedu posti a fondamento dei diritti della persona. Se è vero infatti che, secondo quanto sottolineato dalla dottrina, il valore del giudicato ed il fascio di interessi ad esso sotteso ben può essere considerato recessivo rispetto all’esigenza di far cessare una pena rivelatasi ex post come illegittima, allo stesso modo il giudice dell’esecuzione deve autoinvestirsi del potere-dovere di rideterminare la pena diventata illegale per effetto della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, con la conseguenza che deve del pari essere ritenuta ammissibile la dichiarazione in sede esecutiva della già intervenuta prescrizione del reato, a dispetto del giudicato formale, alla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, posto che anche in tal caso si tratta di eliminare gli effetti di una pena illegale in applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo e ciò in linea con quanto affermato dalle Sezioni unite Ercolano secondo le quali la conformità a legge della pena deve essere costantemente garantita dalla sua irrogazione alla sua esecuzione Sez. U. numero 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651 . A questo punto, è necessario, quanto ovvio, precisare che il codice penale del 1930 non conosceva la regula iuris declinata dall’articolo 30 della legge numero 87 del 1953 sicché un’interpretazione normativa bloccata sulla impostazione tradizionale e fondata sulla modificabilità del giudicato in conseguenza della sola nozione tradizionale di abolitio criminis renderebbe miope lo sforzo esegetico dell’interprete, oltre che rendere l’esito disallineato rispetto alla normativa costituzionale e convenzionale attenta alla tutela dei diritti della persona, inevitabilmente compromessi da una interpretazione restia a considerare che, per effetto del principio di retroattività in melius, il condannato non era ab origine meritevole di alcuna sanzione, sia pure per effetto di una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Del resto, è stato espressamente affermato che l’articolo 30, comma quarto, della legge numero 87 del 1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, non è stato implicitamente abrogato dall’articolo 673 cod. proc. penumero , posto che quest’ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l’ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità di una previsione incriminatrice Sez. U, numero 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, cit., Rv. 258650 . Da ciò si trae argomento per ritenere che la predetta disposizione codicistica non esaurisce tutti i casi in cui può trovare applicazione il principio di retroattività delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma penale, cosicché è invece nell’alveo della L. numero 87 del 1953, art. 30, comma 4, che va individuata la soluzione del problema, dovendo il giudice dell’esecuzione essere investito del compito di adeguare la sentenza irrevocabile alle sopravvenienze derivanti dal mutato assetto normativo per effetto della dichiarazione di parziale incostituzionalità della norma incriminatrice. In altri termini, fatti salvi i rapporti esauriti, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata in applicazione di una norma penale dichiarata incostituzionale costituisce l’unico epilogo conforme ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall’articolo 27 della Costituzione, che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello /.1 della sua esecuzione , con la conseguenza che nulla osta, in applicazione della medesima, alla revoca della sentenza passata in giudicato ove si accerti ex post l’intervenuta causa estintiva del reato. In tale caso, infatti, non è possibile ritenere che - non trattandosi di abrogazione di norma incriminatrice, ma soltanto di parziale incostituzionalità per irragionevolezza sanzionatoria - la pronuncia di incostituzionalità, essendo successiva alla sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell’imputato, non spiega alcun effetto, perché, al contrario, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale, comportando effetti ex tunc, inficia ab origine la disposizione impugnata, cosicché l’effetto che ne consegue è quello di incidere sul giudicato sostanziale precludendo ai giudici l’applicazione delle norme di legge dichiarate illegittime, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia. L’aspetto decisivo, che segna infatti il limite non discutibile di insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata, è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacché l’articolo 30 della legge numero 87 del 1953 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perché già consumati , come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena. L’esecuzione della pena, infatti, implica l’esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena stessa. Perciò, sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, il rapporto esecutivo, per definizione, non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi. Il senso di quest’affermazione è reso ancora più chiaro, come in precedenza anticipato, sol che si distingua il fenomeno disciplinato dal codice penale del 1930 dell’abrogazione di una incriminazione da quello della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice fenomeno aggiuntivo e non disciplinato dal codice penale , dovendosi evitare la sovrapposizione e la confusione dei due diversi istituti dell’abrogazione, da un lato, e dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge, dall’altro, trattandosi di istituti che, invece, non sono identici tra loro perché si muovono su piani diversi con effetti diversi e con competenze diverse, tanto che si è ritenuto ammissibile il controllo di costituzionalità anche di una norma già abrogata, ove ne permangano gli effetti Sez. U, numero 17179 del 27/02/2002, Conti, in motiv. . Su questa scia, la giurisprudenza di legittimità ha successivamente ribadito e ulteriormente precisato che l’abrogazione di una disposizione o di una norma ricade nella normalità dell’evoluzione di qualunque ordinamento. Il diacronico succedersi di leggi, che in tutto o in parte disciplinano innovativamente ampliando, riducendo o comunque modificando i loro ambiti - materie già regolate da leggi precedenti, è fenomeno che involge la fisiologica vita dell’ordinamento giuridico e le relative problematiche rinvengono soluzione ove lo stesso legislatore non detti criteri volti a comporre l’interscambio temporale o successorio di norme attraverso processi interpretativi, talora complessi, ispirati dai principi di diritto intertemporale di cui ciascun ordinamento è dotato . La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma investe, invece, un evento che pertiene alla patologia ordinamentale. La norma illegittima è espunta dall’ordinamento perché infirmata da una invalidità originaria che ne ha condizionato l’applicazione, e che giustifica rendendola, anzi, indispensabile la proiezione sui rapporti giuridici pregressi, che da tale incostituzionale norma siano stati disciplinati retroattività , della pronuncia di incostituzionalità, certificante - per dir così - la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente nata morta Sez. 6, numero 9270 del 16/02/2007, Berlusconi, in motiv. . Quindi, siccome i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo ius superveniens , inficiano fin dall’origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata Sez. U, numero 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit., in motiv. , con la conseguenza che, mentre l’applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova, di regola, un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione retroattiva , sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica, come si è visto, la definitiva uscita dall’ordinamento giuridico di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve, dunque, considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna pronunciata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati Sez. 6, numero 9270 del 16/02/2007, Berlusconi, cit., in motiv. . Ciò conferma che l’articolo 30, comma 4, della legge numero 87 del 1953 ha, in materia penale, una portata più ampia, rispetto ad altri ambiti ordinamentali per i quali il principio è ugualmente valido, posto che, come recita la disposizione in parola, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali . A questo proposito, la dottrina ha sostenuto come la disposizione de qua spinga al massimo grado l’incidenza retroattiva delle decisioni di incostituzionalità nella materia penale, quando sia stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione di leggi poi dichiarate incostituzionali, sul condivisibile rilievo che tali sentenze, quantunque irrevocabili, cessano di avere esecuzione e di produrre qualsiasi effetto penale, cosicché il massimo livello di retroattività è stato costruito in funzione della maggiore tutela da attribuire al diritto di libertà personale, intaccato dall’applicazione di sanzioni gravi come quelle penali, essendo inaccettabile come e più che nell’abrogazione che tanto la struttura dell’incriminazione, quanto le conseguenze che da essa derivano, possano continuare a produrre un qualsiasi effetto, una volta riconosciuta l’incostituzionalità del loro fondamento normativo, sicché l’annullamento, da parte della Corte costituzionale, di una norma geneticamente invalida, in quanto contrastante con il parametro di legalità costituzionale, determina la sua rimozione dall’ordinamento giuridico con effetti ex tunc, con la conseguenza che la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, insensibile ed impermeabile persino al giudicato, impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli della res iudicata non divenuti nel frattempo irreversibili. In definitiva, il giudice dell’esecuzione, quando ritualmente investito, deve realizzare - nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l’esclusione di questi - una doverosa bonifica della sentenza irrevocabile, privandola degli elementi inquinanti , oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono essere eliminati ab origine perché tamquam non fuissent nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato il giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale Sez. 3, numero 38691 del 11/07/2017, cit., in motiv. . Quanto allo strumento con il quale intervenire, per risolvere i problemi posti dalle declaratorie di incostituzionalità - che attengono al mutato trattamento sanzionatorio ma che si possono estendere, come nel caso in esame, alla sussistenza di cause estintive del reato, che il giudice della cognizione avrebbe avuto l’obbligo di dichiarare in presenza della norma costituzionalmente compatibile - si deve fare ricorso all’articolo 30, comma 4, della legge numero 87 del 1953, di maggiore ampiezza, sotto la prospettiva che qui interessa, rispetto alla norma codicistica di cui all’articolo 673 del codice di procedura penale. Né, in siffatti casi, il giudice dell’esecuzione si imbatte nello sbarramento previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 673 e 676 del codice di procedura penale, in quanto, siccome la causa estintiva non era stata dichiarata dal giudice della cognizione per effetto dell’applicazione della norma ratione temporis vigente ma poi dichiarata invalida perché incostituzionale, l’intervenuta declaratoria di incostituzionalità, rimossa con efficacia ex tunc la disposizione inquinante , impone al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della pena, se al momento del giudizio non era maturata alcuna causa estintiva o, nel caso contrario, di dichiararla, ora per allora, rimanendo assorbita la questione del trattamento sanzionatorio dalla rimozione del giudicato di condanna e dei suoi effetti, come esige l’articolo 30, comma 4, della legge. numero 87 del 1953. Sulla base delle precedenti considerazioni, la Corte, nelle richiamate sentenze gemelle Sez. 3, numero 52438 del 11/07/2017, cit. Sez. 3, numero 38691 del 11/07/2017, cit. , ha concluso che l’approdo interpretativo, così delineato, appare l’unico conforme al quadro costituzionale di riferimento e, in particolare, ai principi fissati dall’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost. trattandosi di interpretazione in bonam partem delle ricadute della pronuncia di parziale incostituzionalità del d.lgs. numero 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis sui processi definiti con sentenza irrevocabile. La Corte di appello, patrocinando invece una interpretazione fondata esclusivamente sui rapporti tra giudicato penale e successione delle leggi penali nel tempo ancorata ai soli criteri cristallizzati nel codice penale, senza valutare appieno la forza espansiva dell’articolo 30 della legge numero 87 del 1953, non si è affatto misurata con l’indirizzo giurisprudenziale che ha contrastato, incorrendo pertanto nei vizi denunciati dal Procuratore ricorrente. 3.2. Va poi aggiunto che la sentenza della Corte costituzionale ha inciso profondamente sulla struttura del reato paesaggistico non potendosi, sul piano degli effetti, ridurre la pronuncia ad una constatazione secondo cui, sia pure in termini di configurazione del fatto di reato, la stessa si sia risolta, in ultima analisi, nel determinare una continuità di tipo di illecito prima, in taluni casi, delitto e, ora, contravvenzione , così da evocare, tout court, l’applicabilità dell’articolo 2, comma 4, del codice penale. Al riguardo, va chiarito che la ristrutturazione della fattispecie ha comportato una serie, non secondaria, di conseguenze, perché dalla trasformazione di talune fattispecie, in precedenza sussunte nel comma 1-bis dell’articolo 181 d.lgs. numero 42 del 2004 ed ora scorporate perché fatte rientrare nell’ambito dell’illecito contravvenzionale di cui al primo comma della predetta disposizione, non deriva soltanto una modifica del trattamento sanzionatorio ma deriva la diversa modulazione cronologica, appunto, del tempo necessario a prescrivere nonché la possibilità - in presenza di abusi non comportanti aumenti di volume, ai sensi dell’articolo 181-ter, d.lgs. numero 42 del 2004, o in caso di rimessione in pristino di opere abusive, ex articolo 181-quinquies, d.lgs. numero 42 del 2004 - di invocare la non applicazione, per l’autore della violazione e a condizioni esatte, delle sanzioni penali o l’estinzione del reato, effetti, questi ultimi, preclusi proprio dalla precedente configurazione delittuosa, quantunque, in ipotesi, sussistenti. In questo quadro, l’articolo 30, quarto comma, della legge numero 87 del 1953 si atteggia come criterio autonomo di flessibilità del giudicato che si aggiunge a quelli declinati, tra gli altri, dall’articolo 2, commi 2 e 3, del codice penale, tutti ispirati dalla medesima ratio essendi di consentire la recessività del giudicato per assicurare la preminenza dei diritti fondamentali della persona rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità sottese alla intangibilità di una sentenza irrevocabile di condanna, non potendo uno Stato di diritto tollerare l’esecuzione di pene illegali. Questo principio è stato già espresso dalla giurisprudenza di legittimità quando, opportunamente distinguendo i diversi fenomeni successori, ha affermato che il nostro ordinamento non ignora ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, sul cui valore costituzionale prevalgono altri valori, ai quali il legislatore assicura un primato. In caso di abolitio criminis, infatti, è prevista la revoca della sentenza di condanna art. 673 cod. proc. penumero e ne cessano la esecuzione e gli effetti penali art. 2, comma secondo, cod. penumero . Analoga previsione è contenuta nello stesso art. 673 cod. proc. penumero per l’ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Altra ipotesi di cedevolezza del giudicato è quella prevista dall’art. 30, comma quarto, legge 11 marzo 1953, numero 87, secondo cui cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale. L’art. 2, comma terzo, cod. penumero inserito dall’art. 14 della legge 24 febbraio 2006, numero 85 statuisce, inoltre, che la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore prevede esclusivamente quest’ultima, regola questa che deroga alla previsione di cui al successivo comma quarto dello stesso articolo, che individua nel giudicato il limite all’operatività della lex mitior. All’ipotesi introdotta dall’art. 14 della legge numero 85 del 2006 può essere accostato, in via analogica, il novum dettato dalla Corte EDU in tema di legalità convenzionale della pena, pur considerati i diversi effetti prodotti nell’ordinamento da una lex supervenies più favorevole rispetto a quelli derivanti da una sentenza di Strasburgo, alla quale consegue la declaratoria d’incostituzionalità della relativa normativa interna in entrambi i casi comunque è l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più alta valenza fondativa dello statuto della pena, la cui legittimità deve essere assicurata anche in executivis, fase in cui la sanzione concretamente assolve la sua funzione rieducativa, in una dimensione ovviamente dinamica e, quindi, in termini di attualità Sez. U, numero 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, cit., par. 7.3. in motiv. . Nel caso di specie l’illegalità della pena, in quanto fondata su una norma dichiarata incostituzionale, intacca di per sé il giudicato, recessivo pertanto rispetto ai preminenti diritti di libertà della persona, siccome investe aspetti che attengono all’an ed al quantum della sanzione. La materia fuoriesce, per ciò stesso, dall’orbita di cui all’articolo 2, comma 4, del codice penale nella quale la Corte d’appello ha sussunto la vicenda processuale sottoposta alla sua cognizione in fase esecutiva, ed esige che la pena sia rideterminata nell’entità e nella specie, in considerazione della rimodulazione del fatto di reato da delitto in contravvenzione, ma comporta pure il riconoscimento, ora per allora, della causa estintiva, qualora già intervenuta in pendenza del giudizio di merito, perché tale epilogo rappresenta la conseguenza, anch’essa necessitata, della efficacia invalidante ex tunc della sentenza della Corte costituzionale dichiarativa dell’incostituzionalità della norma e, implicando operazioni di mero calcolo circa la consumazione o meno del tempo necessario a prescrivere, non impatta neppure con le valutazioni eseguite, a suo tempo, nel processo di cognizione, risolvendosi sostanzialmente nell’emanazione di un provvedimento correttivo che, nel caso della declaratoria di prescrizione del reato, sarebbe nella sostanza anche a contenuto predeterminato. 4. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Napoli che valuterà se si verta in un caso di reato contravvenzionale in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 181, comma 1-bis, d.lgs. numero 42 del 2004 per effetto della sentenza della Corte costituzionale numero 56 del 2016 e, in caso positivo, se sia maturata la prescrizione del reato contravvenzionale nel corso del giudizio di cognizione, attenendosi al seguente principio di diritto in tema di esecuzione, il giudice, adito con istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna a seguito della sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. numero 42 del 2004, deve dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della predetta sentenza, riqualificato come contravvenzione, ai sensi del comma primo della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti . P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Napoli.