Alla Consulta il riconoscimento dei benefici penitenziari ai condannati per sequestro di persona attenuato dalla lieve entità

La Suprema Corte approfondisce una tematica sempre attuale il bilanciamento tra i diritti dei detenuti, anche in rapporto alla finalità rieducativa della pena, e l’esigenza di tutelare la collettività dalla potenziale recidiva di comportamenti di particolare offensività.

Più in dettaglio, la Corte di Cassazione con sentenza n. 51877/18, depositata il 16 novembre, affronta un’ipotesi di sequestro di persona atipicamente lieve, tale da aver meritato, in ossequio alla più recente esegesi, una significativa diminuzione della sanzione inflitta. Lo fa, in realtà, sollevando dubbi che sono deputati a sciogliere i Giudici costituzionali e rinviando la decisione, dunque, al momento in cui sarà possibile tener conto della corretta lettura della Carta fondamentale. Il caso. Il procedimento prende le mosse dalla condanna ad anni ventuno e mesi cinque di reclusione per sequestro di persona, riportata dal ricorrente. La sanzione irrogata in concreto proveniva, in realtà, dal cumulo tra diversi delitti, che spaziavano dall’estorsione alla cessione di stupefacenti aggravata, ed era stata ridotta ponderalmente in considerazione del periodo trascorso in custodia cautelare e dell’applicazione, nel 2006, dell’indulto. Nel riferito contesto, il Tribunale di Sorveglianza di Firenze aveva respinto il reclamo proposto avverso la decisione dell’Organo monocratico, che, in precedenza, aveva rigettato la richiesta di permesso premio avanzata dal soggetto, ristretto presso la locale Casa di Reclusione, valorizzando la preclusione generata dal titolo di reato, ostativo ex art. 4 bis, comma primo, l. n. 354/1975, malgrado in sentenza fosse stata riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di lieve entità vd. Corte costituzionale, sentenza n. 68 del 2012 il mancato decorso della metà della reclusione per gli altri reati, posto che in circostanze simili deve operarsi lo scioglimento del cumulo, per appurare che l’intera espiazione della pena inflitta liberi dall’impedimento. Ricorre per Cassazione il condannato, che dapprima lamenta l’effettiva completa espiazione della pena per spaccio di stupefacenti e, poi, segnala la violazione di legge determinata dall’incompatibilità tra l’attestazione del grave allarme sociale e la concessione dell’attenuante in discussione. Ritenendo tale discrasia irragionevole, denuncia, inoltre, l’illegittimità costituzionale della disposizione di legge speciale, nella parte in cui, trascurando l’impatto della speciale tenuità del fatto sullo stallo del trattamento penitenziario, stabilisce una disciplina illogica, quando comparata al riconoscimento di altre attenuanti invocando, quali norme parametro, gli artt. 3 e 27 Cost. . L’ordinanza. Gli Ermellini – su parere difforme del Procuratore generale, che aveva chiesto il rigetto del ricorso – sospendono il procedimento, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Preliminarmente, danno atto dell’ammissibilità dell’impugnazione, presentata direttamente dalla parte prima della modifica degli artt. 517 e 613 del codice di procedura penale. L’Estensore sviluppa in modo organico i diversi passaggi del ragionamento giudiziale, per supportare l’interrogativo posto al Giudice delle leggi, argomentando compiutamente la sussistenza dei diversi requisiti, a partire della rilevanza della quaestio . La rilevanza del tema ai fini del giudizio. Assume importanza, sotto questo profilo, l’esame della prima censura, che coglie nel segno. Ed invero il deducente, condannato per la forma più lieve del reato di cessione di sostanze psicotrope, all’atto della richiesta aveva già completamente scontato la quota parte della pena riconducibile a tale capo di imputazione. Per l’effetto, l’unico delitto incluso tra quelli ostativi a inibire in concreto l’accesso alla misura era proprio il sequestro di persona. La non manifesta infondatezza del dubbio. Più complessa è, invece, la ricostruzione del secondo presupposto essenziale per il coinvolgimento della Consulta. In motivazione si premette che la caratterizzazione dei cc.dd. delitti ostativi di prima fascia, secondo il dictum recente degli stessi Giudici costituzionali, quali indici dell’inserimento stabile del reo in una compagine criminosa di certo spessore, dalla quale distaccarsi per accedere alle misure premiali cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 149 del 2018 nel 1992, s’aggiunse a questo elemento la necessità della c.d. utile collaborazione dell’istante con gli inquirenti. Nel tempo, il succedersi di interventi di legislatore e Corti aveva innovato i referenti normativi coinvolti, dettando regole affatto comparabili per i diversi delitti, anche di seconda fascia cc.dd. reati sessuali , per i quali era stato previsto l’obbligo di osservazione della personalità per ameno un anno. Il minimo comune denominatore della legittimità di tali novelle era che si trattasse di crimini così peculiari da rendere impraticabili percorsi rieducativi, in assenza di interruzione del vincolo associativo o recupero della capacità di controllo degli impulsi. Ad avviso del Collegio, tuttavia, tale logica non pare mutuabile al caso in questione, nel quale la condotta può originare anche da episodi estemporanei e non necessariamente si radica in un contesto criminale organizzato d’altra parte, s’è già statuita l’irragionevolezza della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, quando operante in relazione a reati non di stampo mafioso vd. Corte costituzionale, n. 213 del 2013 . Conseguentemente, in presenza di un delitto ostativo come quello in discussione, la presunzione praticamente assoluta che lo stesso costituisca espressione di criminalità [] particolarmente pervasiva, che giustifica il regime di esclusione dei benefici penitenziari [] non sembra avere fondamento ragionevole”. Conclusioni. La I Sezione prospetta efficacemente i limiti dell’attuale interpretazione che, pur legata ad ipotesi delittuose abitualmente caratterizzate da allarme sociale, ha recentemente beneficiato di un nuovo significato, capace di ragguagliare la sanzione alla concreta offensività del fatto, slegandosi, così, da una più rigida dosimetria, indefettibilmente connessa all’archetipo normativo. Pur non potendosi pronosticare con certezza l’approdo del giudizio, tuttavia, la rimessione degli atti può esser letta sin d’ora come indice di maturazione di un’esegesi più liberale, che, bilanciata dall’assenza di automatismi garantita dalla Magistratura di Sorveglianza, meglio s’attaglierebbe al diritto vivente.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 21 settembre – 16 novembre 2018, n. 51877 Presidente Di Tomassi – Relatore Bianchi Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza pronunciata in data 23/05/2017 il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha respinto il reclamo proposto da H.B. avverso il decreto, pronunciato in data 28/03/2017, con cui il Magistrato di sorveglianza di Firenze aveva dichiarato inammissibile la richiesta di permesso premio avanzata dal medesimo condannato. Il Tribunale premette che il condannato era, dal 24/07/2005, in espiazione di pena determinata in ventuno anni e cinque mesi di reclusione, considerati il periodo sofferto in custodia cautelare e la pena oggetto di indulto, per effetto di diverse condanne, oggetto di cumulo, per i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione tredici anni di reclusione , rapina aggravata e cessione di stupefacenti aggravata per l’ingente quantità. Dà atto che in relazione alla condanna per l’art. 630 cod. pen. era stata riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di lieve entità introdotta dalla sentenza n. 68 del 2012 della Corte costituzionale con ordinanza del giudice dell’esecuzione del 27/09/2016 . Ciò nonostante, ritiene che il beneficio penitenziario richiesto non fosse concedibile in quanto precluso, in assenza di collaborazione, dal titolo del reato, ex art. 630 cod. pen. appunto, in relazione al quale era intervenuta la condanna ad anni tredici di reclusione, ricompreso nell’elenco dei reati ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 recante Norme sull’ordinamento penitenziario . Non aveva, infatti, rilievo, al fine della esclusione della preclusione, la attenuante riconosciuta né risultava alcuna delle ipotesi di collaborazione effettiva, impossibile o irrilevante, di cui al comma 1-bis della norma citata, neppure prospettate dal condannato. E neppure risultava ancora per gli altri reati l’avvenuta espiazione di almeno metà della pena, come richiesto dall’art. 30-ter, quarto comma lett. c , Ord. pen., avuto riguardo al principio che, in presenza di plurime condanne riferibili anche a reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, è necessario operare lo scioglimento del cumulo al fine di accertare che la pena inflitta per il reato ostativo sia stata interamente espiata e, in caso positivo, individuare il dies a quo, rilevante al fine di verificare la sussistenza dei requisiti di legge per la concessione del beneficio, dal giorno in cui è avvenuta la espiazione della pena per il reato ostativo e non dall’inizio della carcerazione. 2. Ha proposto ricorso per cassazione personalmente H.B. . Osserva che il riconoscimento della attenuante della lieve entità del fatto al reato di cui all’art. 630 cod. pen. è incompatibile con una valutazione della condotta in termini di grave allarme sociale e dunque risulta in contrasto con la ratio che ispira la disciplina del divieto di concessione dei benefici penitenziari per certuni reati, considerati ostativi. Denunzia, per conseguenza, la illegittimità costituzionale, con riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen. nella parte in cui, non dando rilievo alla attenuante della speciale tenuità del fatto ai fini del venir meno della preclusione ai benefici penitenziari, detta una disciplina irragionevolmente diversa rispetto a quella prevista nel caso di riconoscimento di altre attenuanti art. 62, primo comma, n. 6 114 116, secondo comma, cod. pen. . Aggiunge di aver riportato condanna per spaccio di stupefacenti, in realtà e a differenza di quanto riportato nel provvedimento impugnato, non aggravato ai sensi dell’art. 80 d.P.R. n. 309/1990. La pena già espiata avrebbe perciò consentito l’accesso al beneficio. 3. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso sul rilievo che la previsione normativa di reati così detti ostativi ai benefici penitenziari, salva l’avvenuta collaborazione con gli inquirenti ovvero i casi di collaborazione impossibile od oggettivamente irrilevante, non viola il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena ha aggiunto che correttamente il Tribunale aveva ritenuto insussistenti le condizioni di legge per la concessione al ricorrente del beneficio richiesto. Considerato in diritto 1. Preliminarmente va rilevato che il ricorso presentato personalmente dalla parte è ammissibile in quanto rivolto avverso ordinanza pronunciata in data 23/05/2017, e dunque in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 23/06/2017, n. 103, che, novellando gli artt. 571 e 613 cod. proc. pen., ha escluso la facoltà di proposizione di ricorso per cassazione senza assistenza di difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione sul punto è sufficiente richiamare Sez. Un., n. 8914 del 21/12/2017, dep. 2018, Aiello, Rv. 272011 . 2. Tanto posto, osserva il Collegio che appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis Ord. pen., nella parte in cui ricomprende fra i reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, elencati al comma 1, e richiamati nel comma 1-bis, anche il reato di cui all’art. 630 cod. pen. in relazione al quale sia stata riconosciuta la speciale attenuante della lieve entità del fatto, introdotta con la sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012. 3. La questione è rilevante perché dagli atti risulta che il ricorrente H.B. , dopo essere stato condannato dalla Corte di appello di Milano, con sentenza pronunciata in data 07/01/2009, per il reato di cui all’art. 630 cod. pen., alla pena di anni 18 di reclusione, ha ottenuto in sede esecutiva ordinanza 27/09/2016 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Prato la riduzione della pena ad anni 13 di reclusione, grazie al riconoscimento della attenuante della lieve entità del fatto, per effetto della sopravvenuta sentenza n. 68 del 2012 della Corte costituzionale. Effettivamente risulta, inoltre, che il ricorrente è stato condannato anche per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, ma non aggravato ai sensi dell’art. 80, comma 2, medesimo decreto. Sicché, se dovesse escludersi l’ostatività per il reato di cui all’art. 630 cod. pen., attenuato dalla lieve entità, avrebbe potuto ritenersi maturato il diritto ad accedere al beneficio ai sensi dell’art. 30-ter, comma quarto lett. c , Ord. pen., salvo, ovviamente, le valutazioni sulla meritevolezza del beneficio, da rimettere al giudice di merito, che si è, invece, arrestato al profilo formale della preclusione in ragione del titolo di reato, in assenza di prospettazione della collaborazione, effettiva o impossibile. 4. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità si osserva quanto segue. 4.1. La disciplina dettata dall’art. 4-bis Ord. pen. è frutto di una serie di interventi riformatori che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Il legislatore, dopo la riforma di cui alla legge 10 ottobre 1986, n. 663, che aveva ampliato la disciplina dei benefici penitenziari, ha ritenuto opportuno realizzare interventi correttivi nel senso di una restrizione della accessibilità a detti benefici. Dapprima, con d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, che ha introdotto, appunto, l’art. 4-bis Ord. pen., è stato previsto un elenco di reati per i quali veniva istituito il divieto di concessione dei benefici a condizione che, per alcuni delitti così detti di prima fascia , non fossero acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ovvero, per altri delitti così detti di seconda fascia , fossero acquisiti in positivo elementi dimostrativi della attualità di tali collegamenti. Fra i delitti ostativi di prima fascia venivano ricompresi i più gravi delitti associativi art. 416-bis cod. pen., art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e il sequestro di persona a scopo di estorsione, per i quali veniva così istituita una presunzione relativa di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Si trattava, secondo quanto rimarcato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149 del 2018, di delitti tutti caratterizzati dal necessario, o almeno - come nel caso di sequestro estorsivo - dal normale inserimento del reo in una compagine criminosa, o ancora da sue specifiche connessioni con organizzazioni criminali . Successivamente, con legge 7 agosto 1992, n. 356, è stato richiesto, con riferimento ai delitti di prima fascia, l’ulteriore requisito, per consentire l’accesso ai benefici, della utile collaborazione con gli inquirenti, istituto previsto dall’art. 58-ter Ord. pen Dapprima la Corte costituzionale, con le sentenze n. 357 del 1994, n. 68 del 1995, e il legislatore, poi, con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, sono intervenuti sul requisito della collaborazione dando rilievo ai casi di collaborazione impossibile ovvero oggettivante irrilevante ove risulti, secondo il dato normativo vigente, nel primo caso, accertata la limitata partecipazione al fatto criminoso ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità e, nella seconda ipotesi, l’applicazione delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, primo comma, n. 6, cod. pen., anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, cod. pen. . Successivamente, con ulteriori interventi legge 23 dicembre 2002, n. 279 e legge 23 aprile 2009, n. 38 , è stato ampliato l’elenco dei delitti della prima e seconda fascia, ed è stato previsto, per i condannati per reati sessuali, che l’accesso ai benefici sia condizionato alla specifica osservazione della personalità per almeno un anno. Risulta così dettata una complessa disciplina, che richiede differenti requisiti di ammissibilità in relazione al titolo del reato della condanna in espiazione, di seguito sintetizzata - per tutti i delitti dolosi, può precludere l’accesso ai benefici, compresa la liberazione anticipata, la comunicazione da parte del Procuratore nazionale o distrettuale antimafia di collegamenti attuali con la criminalità organizzata comma 3-bis - nel caso di condanna per delitti di prostituzione e pornografia minorile artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies cod. pen. , delitti di violenza sessuale artt. 609-bis non di lieve entità, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies cod. pen. , l’accesso alle misure alternative, esclusa la liberazione anticipata, richiede assenza di prova di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e positiva osservazione scientifica della personalità condotta per un anno comma 1-quater - nel caso di condanna per i reati di cui agli artt. 575 cod. pen., 628, terzo comma, cod. pen., 629, secondo comma, cod. pen., 416, commi primo e terzo, cod. pen. finalizzato al compimento dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., 416 cod. pen. finalizzato al compimento dei delitti di cui agli artt. 600 604 cod. pen. art. 73 aggravato ai sensi dell’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990 art. 12, commi 3, 3-bis, 3-ter d.lgs. n. 286 del 1998, l’accesso ai benefici, esclusa la liberazione anticipata, richiede assenza di prova di collegamenti attuali con la criminalità organizzata comma 1-ter - nel caso di condanna per delitti con finalità di terrorismo od eversione dell’ordine democratico commessi mediante atti di violenza, delitti di cui agli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen., delitti commessi avvalendosi delle condizioni ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, delitti di riduzione in schiavitù e tratta di persone artt. 600, 601, 602 cod. pen. , art. 630 cod. pen., art. 12, commi 1 e 3, d.lgs. n. 286 del 1998, art. 291-quater d.P.R. n. 43 del 1973, art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, è ammissibile l’accesso ai benefici penitenziari, esclusa la liberazione anticipata, solo in caso di collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter Ord. pen. comma 1 ovvero, in caso di collaborazione impossibile od oggettivamente irrilevante, se vi è prova della assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e, in caso di collaborazione impossibile, risulti la limitata partecipazione al fatto o l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità ovvero, in caso di offerta di collaborazione oggettivamente irrilevante, vi sia stato riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, n. 6, 114 e 116 cod. pen. o l’avvenuto risarcimento del danno dopo la condanna comma 1-bis . 4.2. Fuori delle ipotesi tassativamente previste ai limitati fini del riconoscimento della collaborazione così detta irrilevante, è consolidato l’orientamento della giurisprudenza secondo cui il riconoscimento giudiziale di circostanze attenuanti non rileva ai fini della previsione legale, di cui all’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., relativa ai titoli di reato ostativi alla concessione di benefici penitenziari, incidendo tale eventuale riconoscimento solo in sede di commisurazione della pena. Una interpretazione dell’art. 4-bis Ord. pen. nel senso che l’elencazione normativa dei reati ostativi si riferisca solo ai casi in cui, giudizialmente, non siano state riconosciute circostanze attenuanti, anche incidenti sulla obiettiva gravità del fatto, è dunque impossibile alta luce dei dati testuali e del diritto vivente. 4.3. La giurisprudenza costituzionale ha, d’altra parte, riconosciuto la conformità alla Carta fondamentale dei divieti di concessione dei benefici penitenziari per i condannati per certuni titoli di reato in assenza di una scelta collaborativa con gli inquirenti da parte del condannato, osservando, con particolare riferimento ai delitti ostativi di prima fascia, che la disciplina, che condiziona l’accesso ai benefici al duplice requisito della prova positiva della assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e della collaborazione con gli inquirenti - nella triplice alternativa accezione di collaborazione utile, impossibile, oggettivamente irrilevante -, è giustificata, da un lato, dalla presunzione, per la comune esperienza criminologica, di collegamenti con la criminalità organizzata legata a taluni titoli di reato e, dall’altro, dalla considerazione della valenza della collaborazione alla stregua di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini della prova che il condannato ha reciso i legami con l’organizzazione criminale di provenienza sentenze n. 273 del 2001 e n. 135 del 2003 . Parrebbe, dunque, che alla radice della compatibilità di siffatta disciplina eccezionale con l’art. 27 Cost. stia il presupposto della particolare natura delle condotte per le quali è intervenuta la condanna per la quale vige una sorta di presunzione di non praticabilità di valide alternative rieducative in assenza di collaborazione in quanto si tratterebbe di condotte che costituiscono, di norma, espressione di una organizzata, e quindi con caratteristiche di stabilità e particolare resistenza, struttura criminale. 5. Tale presupposto non sembra tuttavia possa ragionevolmente presumersi con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen., specie nella ipotesi attenuata per la lieve entità del fatto. Già la fattispecie astratta dell’art. 630 cod. pen., nella attuale formulazione, è frutto di una serie di interventi legislativi nel corso degli anni ‘70 del secolo scorso, volti, in funzione di esigenze repressive ritenute indilazionabili, da una parte, ad aggravare la risposta sanzionatoria e, dall’altra, a favorire condotte di desistenza ovvero di recesso attivo. È significativo di tale percorso il fatto che, permanendo l’identità del fatto tipico, nella originaria formulazione la sanzione edittale prevista era della reclusione da otto a quindici anni, mentre in quella attuale, modificata per effetto della con legge 30 dicembre 1980, n. 894, è della reclusione da 25 a 30 anni. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 68 del 2012, ha tuttavia rilevato che, in realtà, la fattispecie tipica non concerne, necessariamente, fatti espressione di criminalità organizzata e di grave allarme sociale - come quelli che avevano determinato il legislatore degli anni ‘70 a triplicare il minimo edittale -, ma può essere realizzata, in base a dati di comunque esperienza, anche da fatti estemporanei, senza una significativa predisposizione di uomini o mezzi, ovvero con limitata, a poche ore, restrizione della libertà personale o con profitto patrimoniale di entità contenuta. E proprio tale rilievo ha portato a riconoscere la irragionevolezza del trattamento sanzionatorio stabilito dalla norma incriminatrice, laddove non prevedeva, come invece nell’art. 311 cod. pen. per la parallela fattispecie di cui all’art. 289-bis cod. pen. - pure introdotta, con legge 18 maggio 1978, n. 191, a contrasto di manifestazioni criminali di straordinario allarme sociale - una speciale attenuante correlata alla lieve entità del fatto. Il riconoscimento dell’attenuante in parola determina, quindi, non soltanto, ai sensi dell’art. 65 cod. pen., la diminuzione della pena fino a un terzo, spostando la forbice edittale a quella della reclusione da anni sedici e mesi otto ad anni venti, ma, in concreto, una caduta di effettività della presunzione che il fatto-reato realizzato costituisca espressione tipica di una criminalità connotata da livelli di pericolosità particolarmente elevati, collegabile a una struttura e a una organizzazione criminale resistente alla rescissione dei vincoli che legano il singolo al gruppo. D’altronde, chiamata a scrutinare l’art. 275 cod. proc. pen., nella parte in cui vincola il giudice della cautela a disporre la custodia in carcere nel caso di gravi indizi di colpevolezza per il reato di cui all’art. 630 cod. pen. uniti ad esigenze cautelari, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2013, l’ha ritenuto costituzionalmente illegittimo sul rilievo, appunto, della grande diversità dei fenomeni criminali annoverati nella fattispecie. In particolare, è stato osservato che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere trova giustificazione razionale solo in presenza di delitti, quali quelli di mafia, connotati dalla adesione a un sodalizio fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice . Mentre la fenomenologia criminale del sequestro di persona a scopo di estorsione, si manifesta in fatti di ben diverso allarme sociale, che vanno dai sequestri di lunga durata, con condizioni assai penose di restrizione e ingenti richieste di riscatto - necessaria espressione di una organizzazione criminale ampia, strutturata e con radicato consenso sociale -, ai sequestri di breve durata, anche finalizzati alla esazione di un credito fondato su prestazione illecita, espressione di una occasionalità di azione e di una organizzazione rudimentale e approssimativa. E se deve ammettersi che il delitto di cui all’art. 630 cod. pen. non richiede necessariamente l’esistenza di una stabile organizzazione criminale, ma può essere realizzato anche con condotte estemporanee, di limitato impatto sia nei confronti del bene-libertà personale sia in relazione al patrimonio della vittima, a maggior ragione dovrebbe escludersi la presunzione di un siffatto collegamento nel caso in cui all’agente venga riconosciuta l’attenuante della lieve entità del fatto. 6. In conclusione, quando, come nel caso in esame, il condannato ha in corso espiazione di pena inflitta per un fatto che, pur qualificato ai sensi dell’art. 630 cod. pen., è stato riconosciuto di lieve entità, la presunzione praticamente assoluta che lo stesso costituisca espressione di criminalità esercitata in forma organizzata, o comunque particolarmente pervasiva, che giustifica il regime di esclusione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione, non sembra avere fondamento ragionevole. Non può, pertanto, a parere del Collegio, ritenersi manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della disciplina recata dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., nella parte in cui comprende nel novero dei reati così detti ostativi di prima fascia anche la fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen. pur attenuata per la lieve entità del fatto, giacché tale esclusione riposa su una presunzione di elevatissima pericolosità, collegabile a contesti di criminalità organizzata, che non risponde, per la fattispecie in esame, a dati di esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit. Sicché il divieto istituito per tale fattispecie, in relazione alla quale appare agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione che lo giustifica, parrebbe irragionevolmente limitare il diritto del condannato ad accedere ai benefici penitenziari, a prescindere da ogni valutazione in concreto, e caso per caso, sul percorso di emenda intrapreso, e ingiustificatamente incidere, quindi, sulla finalità rieducativa della pena e sul principio di individualizzazione della stessa, che impongono - salva la ragionevolezza della presunzione legale di pericolosità - valutazioni commisurate alle condizioni e ai segnali di cambiamento del singolo individuo. 7. Consegue alle argomentazioni sin qui svolte, che deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, L. 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi, ivi indicati, il reato di cui all’art. 630 cod. pen., ove per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012. A norma dall’art. 23 L. 11 marzo 1953, n. 87, va dichiarata la sospensione del presente procedimento con l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La Cancelleria provvederà alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. P.Q.M. La Corte di Cassazione, Visto l’art. 23 L. 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, L. 26 luglio 1975, n. 354 recante Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi, ivi indicati, il reato di cui all’art. 630 cod. pen., ove per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012. Sospende il presente procedimento. Manda la Cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art. 23, ultimo comma, I. 11 marzo 1953, n. 87 e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.