Cella troppo piccola? Viola la Cedu

In tema di trattamento dei detenuti, se lo spazio personale per il detenuto è inferiore a tre metri quadri in una cella condivisa con altri soggetti, è ravvisabile la forte presunzione, non assoluta, di violazione dell’art. 3 Cedu in tema di trattamenti inumani e degradanti, con onere della prova di superamento di tale presunzione a carico del Governo del Paese in cui la detenzione è in corso.

Lo ha ribadito la prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46134, depositata l’11 ottobre 2018. La fattispecie rilevante nella giurisprudenza della CEDU La Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto più volte modo di pronunciarsi circa la violazione dell'art. 3 CEDU, e dunque circa trattamenti degradanti dei detenuti nelle carceri italiane. In una delle suddette decisioni, essa ha ritenuto che, per il ricorrente, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, avere a disposizione solo 2,70 metri quadrati aveva causato disagi e inconvenienti quotidiani, costringendolo a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti . Sebbene non sia possibile fissare in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto all'interno delle singole celle a ciascun detenuto ai termini della Convenzione – aveva affermato la Corte – la mancanza evidente di spazio personale costituisce violazione dell'art. 3 CEDU. In una decisione del 2013, la CEDU ha invece avuto modo di accertare il carattere strutturale e sistemico della situazione carceraria italiana, ed ha adottato una sentenza ‘pilota', sospendendo tutti i ricorsi dei detenuti italiani aventi ad oggetto il riconoscimento di analoga violazione e concedendo allo Stato italiano un anno dal passaggio in giudicato della decisione per adottare le misure necessarie ossia istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi ed idonei ad offrire una riparazione del danno adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario. ed in quella della Corte Costituzionale. La Consulta, nel 2012, ha deciso sulla legittimità dell'art. 147 c.p. nella misura in cui non prevede un rinvio della pena per le situazioni in cui l'esecuzione della pena carceraria debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità. La Corte ha dichiarato inammissibile il quesito perché il sovraffollamento non avrebbe potuto essere contrastato con il rinvio della pena ex art. 147 c.p., il quale, anche ove riuscisse ad abbattere il numero della popolazione carceraria, giungerebbe a questo risultato in modo casuale, e dunque a prezzo di una disparità intollerabile di trattamento tra i detenuti, in mancanza di un criterio idoneo a selezionare chi debba ottenere il rinvio fino al raggiungimento del numero dei reclusi compatibile con lo stato delle strutture carcerarie ma ha riconosciuto l’insopportabilità della situazione generale delle carceri e l'esigenza di predisporre, a fronte dei concreti casi di compressione di diritti, un rimedio individuale in grado di far cessare il pregiudizio e compensare il detenuto del danno patito, rilevando in proposito come gli attuali reclami fossero un rimedio non ‘effettivo', in mancanza della possibilità di assicurare concreta esecuzione delle decisioni della magistratura di sorveglianza. In un’altra decisione, la Corte Costituzionale ha statuito che le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all'art. 14- ter ord. penit., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria o di altre autorità. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che non spettava al Ministro disporre che non fosse data esecuzione all'ordinanza del magistrato di sorveglianza che aveva ordinato all'amministrazione penitenziaria il ripristino della possibilità per un detenuto – sottoposto al regime di cui all'art. 41- bis ord. penit. – di assistere a determinati programmi televisivi. La cella è luogo aperto al pubblico? Recentemente la Suprema Corte ha escluso che le celle siano luogo di privata dimora ai fini dell'ammissibilità e dell'utilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ma ha più volte affermato che le stesse, come i corridoi e le parti comuni della struttura penitenziaria costituiscano luoghi aperti al pubblico sia per la configurabilità del reato di atti osceni, sia per la configurabilità del reato di porto e detenzione illegale di armi. È importare rilevare, poi, che la giurisprudenza attribuisce alle celle ed alle altre parti degli istituti penitenziari la qualifica di luogo aperto al pubblico, in quanto osservano che tutte le parti degli stabilimenti carcerari sono aperte ad una quantità indeterminata di persone, cioè a coloro che debbono esercitare la vigilanza sui detenuti stessi. In linea generale, infatti, la giurisprudenza tende a ritenere che il luogo aperto al pubblico è anche quello al quale può accedere una specifica categoria di persone - che abbia determinati requisiti.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 15 novembre 2017 – 11 ottobre 2018, numero 46134 Presidente Carcano – Relatore Saraceno Ritenuto in fatto 1. Con provvedimento reso in data 20 maggio 2015 il Magistrato di sorveglianza dell’Aquila rigettava l’istanza-reclamo proposta ex art. 35 ter ord. penumero dal detenuto V.M. in relazione al periodo in cui il medesimo era stato ristretto presso la Casa circondariale di Sulmona, mentre dichiarava inammissibile l’istanza, per difetto dell’attualità del pregiudizio, in relazione ai pregressi periodi di detenzione presso gli istituti penitenziari di Vibo Valentia, Asinara, Palmi, Messina, Livorno, Reggio Calabria, Novara, Ascoli Piceno, L’Aquila. 1.1 Il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, con ordinanza del 29 novembre 2016, accoglieva parzialmente il reclamo proposto dal detenuto ed accertava il diritto del V. a ottenere il risarcimento dei danni per essere stato detenuto in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione EDU per trenta giorni in relazione ai soli periodi trascorsi presso la Casa circondariale di Palmi, riducendo di giorni tre la pena in espiazione. 1.2 A ragione delle raggiunte conclusioni, premesso che le richieste del detenuto inerivano a molteplici periodi di detenzione, in parte rapportabili a titoli esecutivi diversi e precedenti a quello recante la pena in espiazione, osservava che 1 la domanda riferita alla detenzione conseguente al differente titolo esecutivo non era valutabile 2 in relazione alla carcerazione sofferta nella Casa circondariale di Reggio Calabria la domanda era rimasta sfornita di prova, avendo la Direzione dell’istituto comunicato che per le detenzioni antecedenti l’anno 2000 non era in grado di fornire notizie per mancato reperimento degli atti ufficiali 3 quanto agli altri periodi di detenzione difettava il presupposto del trattamento inumano o degradante. 2. Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso il V. personalmente per chiederne l’annullamento per violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’art. 35 ter ord. pen, all’art. 27 Cost, all’art. 3 CEDU. 2.1 Con i primi due motivi lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla mancata considerazione della detenzione antecedente al 29 giugno 1996 segnatamente il periodo 16 marzo 1992/28 giugno 1996 perché inerente a titolo esecutivo diverso da quello relativo alla pena in corso di espiazione. Rileva il ricorrente che il Tribunale solo apparentemente aveva dichiarato di aderire al principio sancito dalla Corte di cassazione, secondo cui il requisito dell’attualità non deve essere considerato pregiudizievole per l’esame della richiesta, essendosi ritenuto competente all’esame dei soli periodi detentivi riferibili al titolo esecutivo in corso ed escludendo immotivatamente dall’esame il periodo detentivo pregresso, già espiato dall’interessato. Di contro, l’art. 35 ter abilita il detenuto ad agire per la riparazione del pregiudizio subito nel corso della detenzione, indipendentemente dall’attualità delle condizioni inumane di carcerazione Cass. numero 46966/2015 e dalla riferibilità del pregiudizio al titolo esecutivo in espiazione, sicché censurabile, perché priva di fondamento giuridico, apodittica e manifestamente illogica, era l’affermazione secondo la quale dovevano e potevano essere presi in considerazione solo i periodi detentivi precedenti purché riferibili allo stesso titolo in esecuzione così opinando, e dunque escludendo la possibilità per il detenuto di esperire il rimedio risarcitorio compensativo innanzi al magistrato di sorveglianza per pregiudizi relativi a pene già espiate, l’unica forma di tutela accordatagli essendo quella di un possibile risarcimento monetario da richiedere dopo la liberazione, peraltro nel caso di specie solo lontanamente possibile, essendo il ricorrente in espiazione della pena dell’ergastolo. 2.2 Con il terzo motivo censura l’illegittimità della reiezione della richiesta relativa alla detenzione subita nella Casa circondariale di Reggio Calabria, motivata dal Tribunale sulla base dell’impossibilità per l’amministrazione di fornire informazioni a causa del mancato reperimento degli atti ufficiali, impossibilità ritenuta non imputabile alla stessa. Viceversa, secondo la giurisprudenza della Corte EDU Torreggiani e altri c. Italia, § § . 71-76 , è onere dell’amministrazione farsi carico di fornire la documentazione idonea a certificare le condizioni di detenzione e tutte le informazioni in suo possesso la procedura prevista non si presta, infatti, ad un’applicazione rigorosa del principio affirmanti incumbit probatio, con la conseguenza che il mancato reperimento degli atti da parte della direzione della Casa circondariale di Reggio Calabria per il periodo precedente all’anno 2000 non poteva essere ritenuto motivo di rigetto della domanda in parte qua. 2.3 Con il quarto motivo articola analoga censura con riferimento alla valutazione compiuta in relazione al periodo di permanenza presso la Casa circondariale di Novara dal 12.10.1999 al 21.1.2000, per il quale la Direzione dell’istituto non era stata in grado di fornire la relativa documentazione e, nondimeno, il Tribunale aveva escluso la violazione dell’art. 3 CEDU, ricorrendo a mere presunzioni. 2.4 Con il quinto motivo lamenta l’illegittimità della decisione assunta riguardo alle detenzioni subite negli istituti di L’Aquila, Messina, Torino, Livorno, Ascoli Piceno, Sulmona in particolare si duole della mancata considerazione ovvero della valutazione parziale delle condizioni detentive complessive, avendo il Tribunale ritenuto che lo spazio restrittivo individuale superiore ai tre metri quadri fosse sufficiente ex se a provare l’insussistenza della violazione dei diritti fondamentali del detenuto. Considerato in diritto Il ricorso è fondato nei limiti che si diranno. 1. Fondati sono i primi due motivi. 1.1 Questa Corte ha ripetutamente chiarito che l’attualità, al momento della domanda, del pregiudizio lamentato, costituito dalla detenzione in condizioni contrastanti con le prescrizioni dell’art. 3 CEDU, non costituisce requisito di ammissibilità dell’istanza e ha ribadito la competenza a provvedere della giurisdizione di sorveglianza qualora il richiedente sia tuttora sottoposto ad esecuzione in ambiente carcerario. Corollario di tali affermazioni di principio è il riconoscimento del rimedio risarcitorio anche in riferimento a condotte lesive non solo non più in essere al momento della richiesta, ma anche verificatesi prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 35 ter ord.penumero , disposta dal d.l. numero 92 del 26 giugno 2014, convertito con mod. nella legge numero 117 del 2014. La citata normativa, difatti, non ha riconosciuto un diritto soggettivo in precedenza inesistente, dal momento che nella specifica materia la fonte normativa è costituita direttamente dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fonte resa esecutiva con legge di ratifica 4 agosto 1955, numero 848, che all’art. 3 riconosce il diritto del detenuto ad ottenere che l’espiazione della pena detentiva non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti, così estendendo e rafforzando la previsione generale, peraltro già contenuta nell’art. 27 Cost., e consentendo di riconoscere quale illecito civile la sua violazione. Dunque, già prima dell’introduzione del reclamo ex art. 35 ter ord. penumero , il detenuto, per ottenere la riparazione del pregiudizio derivatogli da condizioni detentive inumane o degradanti, avrebbe potuto esperire il rimedio già esistente nell’ordinamento mediante la proposizione di un’ordinaria azione risarcitoria del danno morale, derivante dalla lesione di diritti fondamentali della persona, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., tale però da non assicurare una piena e rapida tutela, come ritenuto dalla Corte EDU nella pronuncia Torreggiani c. Italia, tutela che, viceversa, risulta garantita dallo strumento di cui all’art. 35 ter ord. penumero . Si è, infatti, affermato che la specialità di tale rimedio, e la sua idoneità al conseguimento di una riparazione veloce ed effettiva, è riconoscibile a partire dalla competenza a conoscere della domanda proposta da chi è detenuto o internato, attribuita al magistrato di sorveglianza in via di eccezione alla disciplina generale che assegna alla giurisdizione civile la cognizione sulla materia risarcitoria dalle caratteristiche formali dell’azione che si qualifica per aspetti originali ed innovativi, poiché va rivolta, non con atto di citazione o con ricorso, ma con il reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35 bis ord. penumero , proponibile dall’interessato personalmente e che richiede un contenuto minimo, essendo sufficiente l’esposizione in fatto del pregiudizio subito dal contenuto della tutela assicurata, costituita dalla riduzione della pena in esecuzione in misura proporzionale alla durata del pregiudizio sofferto e che, dunque, riconosce al soggetto detenuto una compensazione specifica che abbrevia il trattamento punitivo in modo svincolato da qualsiasi accertamento sulla condotta tenuta durante il trattamento e da un’indagine sulla sua meritevolezza, in quanto ciò che rileva è esclusivamente il dato oggettivo delle condizioni detentive contrarie alle prescrizioni dell’art. 3 CEDU. L’oggetto della tutela e le modalità di determinazione della misura riparatoria militano nel senso della natura indennitaria e non risarcitoria dell’istituto giuridico, essendo normativamente previsto un criterio fisso e generalizzato di decurtazione della pena o di liquidazione del rimedio monetario, entrambi commisurati soltanto alla protrazione della lesione e non alla sua natura ed entità, né alle conseguenze cagionate. Tanto posto, il tenore letterale della norma non è di ostacolo ex se al riconoscimento del rimedio compensativo specifico che è l’opzione privilegiata dal legislatore nelle ipotesi di trattamento lesivo subito per un titolo diverso da quello in esecuzione nel caso in cui l’espiazione del nuovo titolo avvenga senza soluzione di continuità con il precedente nell’ambito di una esecuzione unificata in un provvedimento di cumulo di pene viceversa, nel caso in cui l’espiazione del nuovo titolo non avvenga in continuità con il precedente, sussistendo cesura temporale tra la precedente esecuzione -in cui si assume essersi verificata la violazione e quella in corso al momento della domanda, potrà azionarsi il rimedio avente ad oggetto il solo ristoro monetario entro il termine decadenziale di sei mesi dalla data di entrata in vigore del d.l. 26 giugno 2014, se la violazione è precedente, ovvero entro il termine decennale di prescrizione se successiva al 28 giugno 2014, e se l’interessato è detenuto la domanda potrà essere proposta al magistrato di sorveglianza dell’esecuzione in corso per il diverso titolo. La discontinuità tra le fasi esecutive preclude la possibilità di richiedere e ottenere una decurtazione sulla pena espianda imputabile a trattamento degradante subito nel corso di una precedente esecuzione, ormai esaurita e non unificata a quella attuale diversamente opinando, si riconoscerebbe un credito e correlativamente uno sconto di pena contrario ai principi di correlazione tra esecuzione e titolo di riferimento e interferente con la disciplina di cui all’art. 657 cod. proc. penumero , comma 4, ché la riduzione di pena sarebbe praticabile persino in relazione a condotte di rilevanza penale non ancora realizzate e sarebbe riferibile a reati antecedenti a quello in espiazione. Tale aspetto, dunque, meritava più attenta verifica, mentre il provvedimento impugnato nulla precisa sul titolo esecutivo in corso di espiazione, su quelli già espiati, sulla continuità o discontinuità delle fasi esecutive tanto più in considerazione del fatto che il ricorrente assume di essere stato ininterrottamente detenuto dal 16 marzo 1992. Il provvedimento va, pertanto, annullato con rinvio per nuovo esame sul punto alla luce dei superiori rilievi. 2. Fondato è anche il terzo motivo di ricorso. A fronte di specifiche allegazioni del detenuto su condizioni detentive, in tesi integranti il trattamento inumano o degradante, la mancata risposta della controparte o la mancata comunicazione ad opera dell’amministrazione delle informazioni necessarie, pur nell’ipotesi in cui non possa ravvisarsi un colpevole silenzio o una colpevole inerzia, non possono, come correttamente rilevato anche dal Procuratore generale nella sua requisitoria, sterilizzare lo strumento normativamente apprezzato per rimediare alla violazione di diritti fondamentali sanciti dall’art. 3 CEDU . In altri termini la lacuna informativa non può andare a detrimento della posizione dell’interessato che abbia assolto il proprio onere di specifica allegazione e che, pertanto, non può essere penalizzato sol perché la controparte nulla è in grado di provare a smentita di quanto dedotto. È pertanto nel giusto il ricorrente a lamentare, con riferimento al rigetto della sua richiesta in relazione alla detenzione subita nella Casa circondariale di Reggio Calabria, una grave carenza giustificativa della decisione che integra l’apparenza della motivazione e un’erronea applicazione delle indicazioni provenienti dalla Corte Edu, in quanto nella situazione data sarebbe stato necessario un approfondimento istruttorio, nella specie affatto assente. 3. Manifestamente infondata è, viceversa, l’analoga censura svolta nel quarto motivo di ricorso con riferimento alla detenzione subita presso l’istituto di Novara per il periodo dal 12.10.1999 al 21.01.2000. Il Tribunale, pur in difetto di specifica documentazione, non in possesso dell’amministrazione, essendo il periodo in questione precedente al sistema di archiviazione digitale delle allocazioni giornaliere dei detenuti, ha tenuto conto e ha congruamente utilizzato tutte le informazioni disponibili, osservando che, essendo il V. detenuto sottoposto al regime di alta sicurezza, la sua allocazione non poteva essere che quella riservata ai detenuti in tale regime nell’apposito reparto, costituito da celle singole con superficie, al netto del mobilio, di mq. 3,83, oltre annesso bagno munito di doccia e di acqua calda che nelle stanze di pernottamento la luce naturale era assicurata da ampia finestra e ai detenuti era garantito la permanenza all’aria aperta per quattro ore giornaliere come pure l’accesso a tutte le attività trattamentali. Si è in presenza, dunque, di un apprezzamento di merito compiutamente motivato, basato su ragionevoli indici, non presuntivi, ma agganciati alle concrete caratteristiche delle celle di pernotto e delle condizioni generalmente assicurate a tutti i detenuti, come il ricorrente, sottoposti al regime di alta sicurezza e allocati nello speciale reparto ad essi dedicato. Dovendosi appena aggiungere che la sentenza della Corte Edu citata dal ricorrente Torreggiani e altri c. Italia , non afferma il principio dal medesimo evocato, ossia che la mancata produzione di documentazione da parte dell’Amministrazione si risolva in mancata contestazione dei fatti costitutivi del diritto addotto dal ristretto, che pertanto devono ritenersi provati, ma rimarca la necessità di delibare la domanda alla luce delle informazioni dell’interessato e di tutte le altre informazioni disponibili il che è esattamente quanto ha fatto il Tribunale con valutazione in questa sede incensurabile perché logica e più che adeguatamente giustificata. 4. Anche il quinto motivo appare inammissibile. Vanno richiamati in sintesi i criteri di valutazione da ultimo dettati dalla pronuncia della Grande Camera del 12.3.2015 nel caso Mursic c. Croazia. Tale decisione ha confermato il rilievo preminente che il dato spaziale assume nell’apprezzamento globale delle condizioni della detenzione, ribadendo il criterio di riferimento dei tre metri quadri di superficie utilizzabile per ciascun detenuto, alloggiato in cella collettiva, per apprezzare la lamentata violazione dell’articolo 3 della Convenzione in riferimento all’esecuzione carceraria e ha affermato i seguenti principi -se lo spazio personale per il detenuto è inferiore ai tre metri quadri in una cella condivisa con altri soggetti è ravvisabile la forte presunzione, non assoluta, di violazione dell’art. 3 CEDU spetta al Governo del paese in cui si svolge la detenzione offrire prova convincente della presenza di fattori in grado di compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale e di superare la presunzione, quali la ridotta permanenza in celle dallo spazio così angusto, la sufficiente libertà di movimento, lo svolgimento di adeguate attività all’esterno, l’adeguatezza e la decenza delle condizioni generali della struttura carceraria qualora lo spazio individuale in una cella collettiva sia compreso tra i tre ed i quattro metri quadri, sussiste una violazione dell’art. 3 Cedu se tale condizione si accompagni ad altri aspetti negativi della detenzione, quali limitazioni alla possibilità di svolgere attività fisica all’aria aperta, assenza di luce naturale e aria nella cella, inadeguatezza della ventilazione e della temperatura, mancanza di riservatezza nell’uso dei servizi igienici e carenze dei requisiti igienico-sanitari se, invece, lo spazio individuale fruibile superi i quattro metri quadri, non sussiste la violazione dell’art. 3 CEDU, ma possono assumere rilievo eventuali altri aspetti negativi riguardanti le condizioni di detenzione. Tanto precisato, il Tribunale ha escluso di poter ravvisare i presupposti per l’accoglimento della domanda, osservando quanto alla Casa circondariale di L’Aquila, che il V. nel periodo di permanenza dal 15.7.2002 al 23.3.2006, in regime di 41 bis ord. penumero , aveva alloggiato in una stanza singola di mq. 9,33 lordi e con una superficie netta di circa mq. 7, considerato l’ingombro del letto e di due armadi. La cella era munita di bagno separato dalla stanza con muro a tutta altezza. Il detenuto aveva, pertanto, potuto fruire dei servizi igienici in maniera riservata, della doccia calda giornaliera negli appositi locali, della possibilità di permanere all’aria aperta per due ore giornaliere, di cui una in saletta di socialità, al pari degli altri detenuti in regime di detenzione speciale quanto alla Casa circondariale di Messina, il detenuto aveva alloggiato in celle di mq. 10,3, 10,5 e 15, al netto del bagno separato da muro e porta. Era stato unico occupante, ad eccezione di un periodo beve in cui aveva condiviso la cella di mq. 10,5 con altro detenuto, sempre fruendo di una superficie netta ben al di sopra dello spazio minimo individuale di tre metri quadri quanto alla Casa circondariale di Torino, il V. aveva condiviso la cella di pernottamento solo con un altro detenuto, con superficie netta pro capite di mq. 3,03 e bagno separato da porta e muro aveva fruito di docce calde ogni giorno, di adeguate condizioni di riscaldamento assicurato da due termosifoni nel locale pernotto e uno nel locale bagno, di quattro ore giornaliere all’aria aperta e di altre due ore serali di socialità quanto alla Casa circondariale di Livorno, V. aveva occupato da solo stanze di mq. 9, al lordo di un letto di mq. 1,78 e di un armadio con superficie di mq. 0,18, e al netto del bagno separato e dotato di porta e finestra a tutti i detenuti era assicurata la possibilità di fruire di cinque ore al giorno di permanenza all’aperto, della palestra, della biblioteca e di saletta ricreativa quanto alla Casa circondariale di Ascoli Piceno, il V. , ristretto in regime di 41 bis ord. penumero aveva occupato da solo stanze di mq. 10,12 e 11,91, con annessi bagni separati di oltre mq. 4 quanto, infine, alla Casa circondariale di Sulmona, il detenuto aveva occupato ed attualmente occupava da solo una cella della superficie, al netto degli arredi, di mq. 6,78, con bagno annesso separato e possibilità di fruire di docce calde tutti i giorni. Il provvedimento ha dato conto, dunque, di avere compiuto corretta interpretazione ed applicazione dei criteri legali, come interpretati dalla Corte sovranazionale, ed ha esplicitato puntualmente la base fattuale del giudizio espresso, la cui natura di merito non consente contraddittorio in questa sede, mentre non ricorre né la dedotta violazione di legge né la lamentata carenza argomentativa, essendo la motivazione esibita tutt’altro che inesistente o meramente apparente, ma corretta, esaustiva, completa, tal che con essa cadono le censure articolate, generiche oltre che manifestamente infondate. 4. In conclusione, il provvedimento va annullato con rinvio per nuovo esame della domanda con riferimento ai periodi detentivi, in tesi ingiusti nel quomodo, antecedenti al 29 giugno 1996 e a quelli subiti presso la Casa circondariale di Reggio Calabria. Il ricorso va dichiarato inammissibile nel resto. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente alle domande relative ai periodi di detenzione subiti presso la Casa circondariale di Reggio Calabria e a quelli antecedenti al 29 giugno 1999, e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza dell’Aquila. Dichiara inammissibile nel resto.