Il concorso morale nel reato di estorsione

Ai sensi del disposto di cui all’art. 629 c.p., il reato di estorsione si configura ogniqualvolta si costringa una persona, mediante violenza o minaccia, a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto il profitto che ne ricava direttamente l’autore.

Lo ha ribadito di nuovo la Corte di Cassazione con sentenza n. 38800/18 depositata il 22 agosto. La vicenda. L’imputato era stato chiamato a rispondere di 4 episodi di cessione di cocaina in concorso e di tentativo di estorsione poiché, in veste di istigatore o concorrente morale, aveva compiuto atti diretti a farsi consegnare, dopo minaccia, del denaro da un altro soggetto, come prezzo d’acquisto dello stupefacente precedentemente consegnato, evento però non verificatosi perché l’altro soggetto non era reperibile. Pertanto, l’imputato propone ricorso per cassazione. Il reato di estorsione. È orientamento ormai consolidato della Suprema Corte quello secondo cui, il reato di estorsione previsto dall’art. 629 c.p. ricorre quando si costringe, mediante minaccia o violenza, una persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto il profitto che l’autore ne ricava direttamente e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio il mandante di tale operazione, titolare del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale . Il ricorso è quindi dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 22 febbraio – 22 agosto 2018, n. 38800 Presidente Rosi – Relatore Macrì Ritenuto in fatto 1. L.M. , classe ‘78, è stato chiamato a rispondere di quattro episodi di cessione di cocaina, di cui ai capi a , b , d , e , in concorso, e di tentativo d’estorsione di cui agli art. 56, 110, 629, comma 1, cod. pen., perché, in qualità d’istigatore o di concorrente morale, aveva compiuto atti diretti in modo non equivoco a farsi consegnare, a seguito di minaccia, da P.E. del denaro, quale prezzo d’acquisto dello stupefacente in precedenza consegnato, evento non verificatosi perché il P. si era reso irreperibile capo c , in omissis ed altrove, nel 2011, come meglio specificato nei capi d’imputazione. 2 Con sentenza in data 10.2.2015 la Corte d’appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza in data 16.5.2013 del Giudice dell’udienza preliminare di Pesaro, ritenuta la continuazione tra i fatti della sentenza impugnata ed i fatti della sentenza del Tribunale d’Ancona n. 188/2012 del 26.3.2012, valutato più grave il fatto di cui al capo e di questo procedimento cessione di gr. 20,460 di cocaina contenenti mg. 3826 di principio attivo , ha rideterminato la pena in anni 4, mesi 8 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa. 2. Con il primo motivo di ricorso, l’imputato lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen. in relazione agli art. 56, 110, 629, comma 1, cod. pen. Con riferimento al reato di cui al capo c , la Corte territoriale aveva ritenuto accertato il fatto e la sua responsabilità, sulla base delle telefonate intercorse tra L.M. ed il cugino F. e tra questi e P.E. , delle osservazioni del Carabinieri di Pergola, dei messaggi telefonici inviati da P. a L.F. e delle sommarie informazioni rese da quest’ultimo. Precisa che i contenuti delle telefonate intercorse tra i cugini L. non erano riferite al P. e quindi non si poteva ravvisare il tentativo a causa dell’inidoneità degli atti. Dalle sommarie informazioni testimoniali della persona offesa non risultava avesse subito un’estorsione. Ai fatti ed alle telefonate non erano seguite iniziative criminose ed il P. non si era reso irreperibile Pertanto, mancava la minaccia integrante il reato contestato. Con il secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e , cod. proc. pen., in relazione alla richiesta di qualificazione del fatto come di minore gravità. Ritiene che, alla luce dei mezzi, delle modalità dell’azione, della qualità e quantità della sostanza trattata, non poteva escludersi l’applicazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990. Considerato in diritto 3. Il ricorso è manifestamente infondato. 3.1. La prima doglianza si risolve in questioni di fatto non apprezzabili da questa Corte. I Giudici di merito hanno ricostruito la vicenda nei termini che seguono P. era debitore dei cugini L. e l’imputato faceva pressioni sul cugino F. affinché riuscisse ad ottenere l’adempimento il 6.6.2011 la questione non era stata ancora risolta, sicché l’imputato aveva detto al cugino che sarebbe venuto il mercoledì successivo per parlare con questo scemo il giorno dopo aveva sollecitato il cugino a recarsi da questo stronzo con cadenza periodica per definire la questione perché altrimenti . la risolviamo in altro modo F. aveva fatto pressioni sul P. dicendogli M. , per quanto ancora pensi di prendere per il culo? La pazienza è finita. Stasera vengo al tuo capannone il P. aveva risposto di non disporre del denaro, circostanza che confermava l’esistenza del debito quando F. aveva riferito a M. dell’ennesima richiesta di dilazione, questi gli aveva ordinato di andare a prendergli la macchina il 20.6.2011, F. aveva chiamato P. sollecitando un incontro in sede di sommarie informazioni testimoniali, P. aveva dichiarato che da circa 3-4 anni acquistava cocaina da F. e, nel tempo, aveva accumulato un debito di Euro 3.000,00, che nell’ultimo periodo aveva ricevuto da F. richieste di pagamento minacciose perché F. gli aveva prospettato che, in caso di mancato pagamento, si sarebbero recate da lui altre persone per riscuotere nel corso della perquisizione dei Carabinieri in data 19.11.2011 erano stati rinvenuti sul cellulare di F. messaggi con la richiesta di pagamento infine, in un’occasione, F. aveva detto all’imputato che aveva appena finito di parlare con P. e che gli aveva detto che lunedì voleva i soldi, altrimenti si sarebbe preso il furgone. In definitiva, F. , su istigazione dell’imputato, aveva ripetutamente minacciato P. di modo da ottenere il pagamento del debito per l’acquisto dello stupefacente. Tale essendo la ricostruzione dei fatti, non v’è alcun dubbio sulla correttezza della contestazione. Ed invero, va data continuità all’orientamento di questa Corte, secondo cui ricorre il reato di estorsione previsto dall’art. 629 cod. pen., e non già quelli di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen. o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 cod. pen., quando si costringa, mediante violenza o minaccia, altra persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto, in quanto connesso ad azione intimidatoria, il profitto che ne ricava, direttamente, l’autore, e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio il mandante di tale operazione, titolare del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale Cass. Sez. 5, n. 5193/98, PG e altri, Rv. 211492, ma si veda altresì Cass., Sez. 2, n. 46288/16, Musa e altro, Rv. 268360, secondo cui il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, per agevolazione, o anche morale, mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 cod. pen. e Cass., Sez. 2, n. 47972/04, Caldara e altri, Rv 230709, per la quale ricorre il reato di estorsione per le modalità di intimidazione cui la parte lesa era stata sottoposta da parte di terzi, su mandato del titolare del credito . Quanto al secondo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha condivisibilmente rappresentato che dagli atti era emerso che l’attività di spaccio durava da anni, non era occasionale, ma reiterata e svolta in modo professionale, come desumibile dalla disponibilità costante dello stupefacente, dall’organizzazione del commercio illecito, dall’utilizzo di altri soggetti per la cessione diretta, dal numero dei clienti, dai quantitativi ripetutamente ceduti e dalle somme ricavate e che l’imputato era in grado di soddisfare le richieste di un numero elevato di soggetti di cui era, per interposta persona, un sicuro referente, perché sempre in possesso di sostanza stupefacente. Anche tale motivazione si appalesa congrua, precisa ed immune dalla censura sollevata. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186,, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.