Quali sono i limiti del giudizio in Cassazione in materia di prevenzione?

La verifica in sede di legittimità si deve limitare alla corrispondenza degli elementi valorizzati nel provvedimento impugnato ai criteri dettati dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione ed all’esistenza delle ragioni della decisione, mentre resta escluso che la violazione di legge possa estendersi ai difetti motivazionali, consistenti nell’insufficienza, contraddittorietà ed illogicità, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità

Il caso. La Corte di Appello di Torino, Sezione Misure di Prevenzione, fatta salva una parziale riforma relativamente alle prescrizioni impartite, confermava il decreto con cui la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Torino aveva, da un lato, applicato la sorveglianza speciale di p.s. nei confronti di G.J. e G.A. e, dall’altro, disposto la confisca dei loro beni. In particolare, la Corte territoriale aveva evidenziato in motivazione come trattavasi di soggetti portatori di pericolosità sociale generica a ragione della loro dedizione alla commissione di reati contro il patrimonio, nella specie numerosi furti e rapine contro esercizi commerciali. Inoltre, su tale presupposto, era stata ritenuta legittima la confisca dei beni dei prevenuti, considerato che, nonostante il mancato svolgimento di attività lavorativa e l’assenza in capo agli stessi di qualsiasi fonte reddituale, entrambi erano titolari di significative disponibilità economiche sproporzionate rispetto alle entrate percepite. Avverso il decreto de quo ricorrevano per Cassazione entrambi i proposti deducendo, in primis, la mancata sospensione del procedimento di prevenzione in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sulla legittimità delle misure di prevenzione personali e patrimoniali a fronte della contestata pericolosità generica, a seguito della sentenza della CEDU nel caso De Tommaso contro Italia nell’alveo del quale sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale in riferimento alle norme di cui agli artt. 1, 3, 5 L. 1426/56 ed agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 con gli artt. 117 Cost. e 2 Protocollo Convenzione Salvaguardia Diritti dell’Uomo. In secundis , violazione di legge e vizio motivazionale in ordine ai criteri di valutazione della pericolosità sociale generica ed ai presupposti per la confisca dei beni. La legittimità costituzionale delle norme in materia di prevenzione. La Suprema Corte, nel dichiarare infondata la richiesta di sospensione del procedimento, ha avuto modo di precisare come la richiamata sentenza della CEDU nel caso De Tommaso contro Italia ha ravvisato il contrasto di tali disposizioni normative con l’art. 2 della Convenzione per difetto di prevedibilità delle categorie di soggetti destinatari delle misure di prevenzione e per il contenuto generico di alcune prescrizioni inerenti la misura di prevenzione personale, ma limitatamente all’imposizione dell’obbligo di vivere onestamente, rispettare le leggi, non dare adito a sospetti e non partecipare a pubbliche riunioni. In altri termini, chiariscono i Supremi Giudici, è vero che la sentenza De Tommaso ha riconosciuto una carenza di chiarezza e precisione e quindi un deficit di tassatività nella previsione normativa quanto ai presupposti applicativi della misura di prevenzione personale per l’assenza di indicazioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano considerarsi fonte di pericolo per la società, con eccessiva discrezionalità del giudice, ma è parimenti vero che la medesima pronuncia ha censurato per genericità, in caso di avvenuta sottoposizione alla misura, le sole prescrizioni generaliste quali, per l’appunto, quella di vivere onestamente e rispettare le leggi, sia per il loro contenuto estremamente vago ed indeterminato, sia per la possibile rilevanza penale della condotta che le abbia trasgredite. I limiti al sindacato di legittimità in materia di prevenzione. La Corte di Cassazione, nello statuire l’inammissibilità dei ricorsi presentati dai due proposti, ha avuto modo di ribadire come il decreto di prevenzione sia ricorribile per Cassazione esclusivamente per violazione di legge. Più precisamente, il vizio in questione si ravvisa – oltre che in caso di totale assenza di motivazione quando il provvedimento consti di solo dispositivo – allorquando l’apparato esplicativo del provvedimento sia privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidoneo a rendere comprensibile la ratio decidendi , ovvero ancora quando non affronti le tematiche poste con l’impugnazione, sostanzialmente eludendole. Donde, la verifica in sede di legittimità si deve limitare alla corrispondenza degli elementi valorizzati nel provvedimento impugnato ai criteri dettati dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione ed all’esistenza delle ragioni della decisione, mentre resta escluso che la violazione di legge possa estendersi ai difetti motivazionali, consistenti nell’insufficienza, contraddittorietà ed illogicità, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 15 marzo – 31 luglio 2018, n. 37026 Presidente Mazzei – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1. Con decreto emesso dalla Corte di appello di Torino, sezione misure di prevenzione, in data 6 luglio 2017 veniva parzialmente riformato il decreto emesso dal Tribunale di Torino il 18 gennaio 2017, che aveva disposto la sottoposizione di J.G. e A.G. alla misura della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno per la durata di anni tre e la confisca dei loro beni mobili ed immobili, e, per l’effetto, limitava il divieto di partecipare a pubbliche riunioni per le quali deve essere dato preavviso alle pubbliche autorità, eliminava la prescrizione di non dare ragioni a sospetti e di non trattenersi in bar, osterie e locali simili ed autorizzava l’A. a recarsi in territorio del comune di Moncalieri per svolgere attività lavorativa, confermando nel resto il decreto impugnato. A fondamento della decisione la Corte distrettuale rilevava che con il provvedimento del Tribunale era stata fondatamente applicata nei riguardi di entrambi i proposti la misura di prevenzione personale, in quanto soggetti portatori di pericolosità sociale generica a ragione della loro dedizione alla commissione di furti, tentati e consumati, e dello J. anche di rapine in danno di numerosi esercizi commerciali del settore della grande distribuzione in Torino e provincia. Su tale presupposto era stata disposta anche la confisca dei beni ivi indicati, posti l’assenza in capo ai proposti di redditi leciti diversi dalla pensione di invalidità civile, percepita dallo J. , e dai contributi erogati dal Comune di Torino e da enti assistenziali per il mantenimento dei tre figli minori, il mancato svolgimento di attività lavorativa e la mancata percezione di incrementi patrimoniali a titolo successorio, il che aveva reso ingiustificata la titolarità di significative disponibilità economiche di valore sproporzionato rispetto alle entrate percepite anche se considerate le rimesse di denaro ricevute da familiari. 2. Avverso detto provvedimento ricorrono i proposti per il tramite dei loro difensori con atti distinti, ma dal contenuto esattamente corrispondente, con i quali hanno dedotto a motivazione carente ed illogica quanto alla mancata sospensione del procedimento in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulla legittimità delle misure di prevenzione personali e reali a fronte della contestata pericolosità generica. A seguito della sentenza pronunciata dalla Corte EDU nel caso De Tommaso contro Italia del 23 febbraio 2017 sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 5 L. 1423/56 e 1, 4 D.Lgs. 159/11, per contrasto con l’art. 117 Cost. e 2 Protocollo Convenzione Salvaguardia Diritti dell’Uomo sulla base di considerazioni in ordine a vaghezza, indeterminatezza e genericità delle norme di prevenzione, che non sono superate dai rilievi esposti nel decreto impugnato e dalla esclusione di alcune delle prescrizioni imposte col primo provvedimento del Tribunale. b Violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine ai criteri di valutazione della pericolosità generica. Il decreto impugnato, alle pag. 19 e 20, indica i presupposti richiesti per l’applicazione delle misure di prevenzione personale, che nel caso sono insussistenti. In ordine alla posizione dello J. la Corte di appello ha acquisito d’ufficio il certificato del casellario giudiziale, pur in assenza di istanza e di gravame della Procura della Repubblica, non presente in atti poiché il Tribunale aveva acquisito soltanto quello a norme di J.G. , rispondente alle corrette generalità del proposto, dal quale documento sono emerse ulteriori condanne in merito alle quali non è stato consentito il contraddittorio difensivo, né sono state prodotte le copie delle sentenze per consentire di valutare i fatti giudicati e la redditività degli stessi. Il suo coinvolgimento nel procedimento n. 34964/14 attiene a fatti di reato commessi in danno di esercizi commerciali della grande distribuzione limitati al periodo luglio-settembre 2014, compiuti per esigenze contingenti ed irripetibili, legate alla necessità di aiutare il padre durante la latitanza nella speranza di convincerlo a costituirsi e comunque costretto dallo stesso genitore che in un’occasione lo aveva brutalmente percosso a cinghiate. La realizzazione di tali furti è estranea alla personalità ed alla vita pregressa del proposto, in precedenza dedito a furti di modesto valore e con modalità semplici incompatibili con la sottoposizione a misura di prevenzione perché episodici ed il rapporto criminale col padre Vittorio non è stato dimostrato, perché mai coinvolto in fatti di reato commessi in concorso con questi e nemmeno nella vicenda di omicidio che gli è stata attribuita in tal senso non hanno avuto seguito le dichiarazioni accusatorie del Parlato e nemmeno quanto emerso dalle intercettazioni sicché non può ritenersi che lo stesso sia dedito a traffici delittuosi. La sua condizione di invalido civile per la quale è supportato da istituzioni di assistenza gli ha permesso condizioni di vita modeste. Quanto alla posizione della A. , il volume d’affari illecito conseguito dai reati per i quali è stata giudicata non assume mai i connotati di un sufficiente mezzo di sostentamento e tali illeciti sono collocabili in un arco temporale dal 1996 al 2002 quelli di cui al casellario e nel 2014 quelli di cui al procedimento pendente. L’assunto prospettato nel decreto per il quale il modesto valore economico oggetto dei reati più risalenti non sarebbe rilevante per l’assenza di lecite fonti di reddito in capo alla proposta, è inesatto ed illogico la difesa ha documentato che ella svolge attività lavorativa in ambito familiare retribuita con un rimborso spese e con elargizioni spontanee e comunque le sentenze di condanna acquisite attestano l’assenza di un profitto ricavato dai modesti reati commessi, tale da consentire alla proposta di poter far fronte alle esigenze di vita proprie e familiari. Ed anche le vicende oggetto del procedimento n. 34964/14 riguardano un brevissimo lasso temporale ed ella vi ha svolto un ruolo marginale e subordinato. c Violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine ai presupposti per disporre la confisca dei beni intestati alla A. . Tale determinazione contrasta con le allegazioni difensive circa la legittima provenienza delle somme e dei beni oggetti di preventivo sequestro, dall’altro con la disciplina che attribuisce gli oneri probatori in materia di misure di prevenzione. Le obiezioni difensive non sono state considerate in relazione all’onere probatorio che grava sul proposto, che si traduce in una mera attività di allegazione di elementi favorevoli, che i giudici devono verificare nella loro fondatezza ed alla richiesta di rinnovazione istruttoria al fine di acquisire le testimonianze dei terzi che hanno fornito al ricorrente somme, regalie ed aiuti economici. Nella memoria depositata in data 22 giugno 2016, corredata di copiosa documentazione allegata, sono stati ricostruiti i redditi da lavoro, svolto in ambito familiare, dal 1990 ad oggi, come coadiuvante dei nonni in attività di vendita di frutta e verdura, nel negozio di installazione di autoradio del fratello, in ambito domestico come colf, baby sitter e badante. Tali attività risultano certificate non solo dalle dichiarazioni e attestazioni dei familiari beneficiari, ma da un principio di prova documentale quale la licenza di vendita dei nonni, il libretto sanitario della signora A. , le visure camerali della ditta del fratello, documentazione medica e copia dei redditi dei dichiaranti, che non costituiscono mere attestazioni scritte lacunose ed indeterminate, ma sono corroborate da riscontri contabili della provenienza delle somme. Non è poi corretto ritenere che di tali redditi non possa tenersi conto perché mai dichiarati e sottratti all’imposizione fiscale il precedente richiamato dalla Corte di appello sez. V n. 9727 del 19.1.2017 De Masi riguarda il caso di un imprenditore che aveva percepito parte dei profitti dall’alienazione degli immobili costruiti in nero, sottraendo il profitto agli obblighi fiscali, situazione ben diversa dall’attività di babysitter e badante a favore di prossimi congiunti retribuita con liberalità e rimborsi spese. Anche gli aiuti economici ricevuti dai familiari sono attestati da dichiarazioni, riscontrabili mediante l’esame dei testi. Il decreto impugnato è ancora più illogico e immotivato nella parte in cui ritiene che la provenienza illecita delle somme utilizzate nel 2004 per l’acquisto dell’appartamento di OMISSIS , si trasferisca sui maggiori importi ricavati dalla vendita ed investiti nei titoli postali oggetto di confisca l’immobile è stato acquistato con i risparmi da lavoro domestico per somme, circa 45.000 Euro, compatibili con tali attività svolte da oltre 10 anni ed incompatibili invece con il provento dei reati commessi dalla proposta. Parimenti contraddittorie sono le valutazioni della Corte secondo cui le regalie ricevute da parenti ed amici in occasione del matrimonio e del battesimo dei tre gemellini non sarebbero documentate il libretto depositato contenente l’elenco dettagliato dei doni in denaro e dei soggetti che li hanno offerti costituisce un elemento indiziario circa la legittimità e l’ammontare delle somme, poi utilizzate per l’acquisto della prima casa. La documentazione bancaria consente di ricostruire le somme percepite ed i lavori indicati in base alle liberalità ricevute, corrispondenti nei tempi e negli importi ai dati dichiarativi forniti sia dai proposti, sia dai terzi, ma differenti rispetto ai proventi dei reati commessi tra il 2001 ed il 2002 per modesti importi. I fatti contestati nel 2014 sono, invece, successivi di anni alle acquisizioni patrimoniali, sicché non sussiste la pretesa correlazione temporale tra le acquisizioni patrimoniali 2004 e 2011 ed i precedenti penali e giudiziari di cui è gravata la ricorrente 1996 - 2002 . 3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, dr.ssa Maria Francesca Loy, ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi, in quanto il provvedimento impugnato ha ricostruito con precisione e ampia motivazione i presupposti del giudizio di pericolosità e della disposta confisca, non potendosi considerare redditi asseritamente percepiti in violazione degli obblighi fiscali. 4. Con successiva memoria le difese, nell’interesse di entrambi i ricorrenti, hanno insistito nel dedurre la rilevanza della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni regolatrici le misure di prevenzione, affette da genericità ed indeterminatezza, tali da comprometterne la conformità ai precetti costituzionali hanno quindi rappresentato che per la posizione della A. i reati accertati a suo carico sino al 2014 presentano una modesta redditività e non sono correlati con le acquisizioni patrimoniali, mentre è stato dimostrato che ella ha potuto beneficiare dei più consistenti emolumenti tratti dalla propria attività lavorativa lecita, mentre lo J. ha beneficiato della pensione di invalidità, percepita per la grave patologia da cui è affetto. In ordine alla disposta confisca hanno replicato alla requisitoria del Procuratore Generale, osservando che i proventi percepiti dall’attività lavorativa non regolare e denunciata non possono considerarsi sottratti all’imposizione fiscale. Considerato in diritto Il ricorsi sono inammissibili. 1.Va in via preliminare rilevata l’infondatezza della richiesta avanzata dai ricorrenti di sospensione del procedimento in attesa della decisione che la Corte costituzionale dovrà assumere sull’incidente di costituzionalità, sollevato da varie autorità giudiziarie in riferimento alle norme di cui agli artt. 1, 3, 5 della L. n. 1423/56 ed agli artt. 1 e 4 del D.Lgs. n. 159/11. 1.1 La Corte distrettuale torinese, nel disattendere la richiesta, ha prospettato una alternativa possibilità di procedere alla lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata delle norme denunciate come contrarie ai precetti della Carta costituzionale. Partendo dalla premessa nozione di prevedibilità della norma di legge, che richiede al legislatore di stabilire in maniera sufficientemente precisa il relativo precetto, in modo da consentire al cittadino di regolare la sua condotta e di consentirgli di avere cognizione delle possibili conseguenze della sua trasgressione, ha osservato che la decisione della Corte EDU De Tommaso contro Italia, richiamata dalla difesa, ha ravvisato il contrasto tra l’art. 2 della Convenzione e le disposizioni della legge n. 1423/56 per difetto di prevedibilità quanto alle categorie di soggetti destinatari delle misure e quanto al contenuto generico di alcune prescrizioni, inerenti la misura di prevenzione personale, ma limitatamente all’imposizione dell’obbligo di vivere onestamente, rispettare le leggi, non dare adito a sospetti e non partecipare a pubbliche riunioni. Ha però evidenziato che la pronuncia in questione ha arrestato la disamina del sistema prevenzionale italiano all’anno 2014, senza tenere conto della successiva evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale, offerta dalla sentenza della Corte di cassazione, sez. 1, n. 31209 del 2015, Scagliarini, che aveva dettato precisi criteri per la ricostruzione della pericolosità generica ed indicato idonei dati di fatto dai quali poter desumere la prognosi sui futuri comportamenti del proposto, così consentendo di superare i rilievi della Corte sovranazionale. Ha comunque mostrato di aderire ai rilievi critici esposti nella sentenza De Tommaso mediante la parziale riforma del decreto del Tribunale e l’eliminazione di quelle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale ritenute generiche e non consentite. 1.2 Osserva il Collegio che le puntuali e giuridicamente ineccepibili osservazioni esposte nel decreto impugnato non hanno ricevuto una contestazione, altrettanto congrua e specifica il primo motivo dei due ricorsi, identici sul punto, si limita a reiterare la richiesta di sospensione del procedimento in termini del tutto indifferenti alle ragioni della decisione avversata ed a contestare l’utilità, allo scopo di superare le criticità evidenziate dalla Corte EDU, dei criteri nel frattempo enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, ritenuti genericamente insufficienti. Risponde al vero che la pronuncia De Tommaso, resa in un caso in cui era stata accertata la condizione di pericolosità cd. generica del soggetto sottoposto a sorveglianza speciale di p.s., ha riconosciuto una carenza di chiarezza e precisione e quindi un deficit di tassatività nella previsione regolatrice della norma dell’ordinamento italiano quanto ai presupposti applicativi della misura personale per l’assenza di indicazioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano considerarsi fonte di pericolo per la società, con la conseguente eccessiva discrezionalità del giudice e pregiudizio dei diritti protetti dalla Convenzione Europea del 1950 e dai successivi protocolli. È altrettanto vero che ha censurato per genericità, in caso di avvenuta sottoposizione alla misura, delle sole prescrizioni generaliste, quali quella di vivere onestamente e di rispettare le leggi, sia per il loro contenuto estremamente vago e indeterminato , sia per la possibile rilevanza penale della condotta che le abbia trasgredite. Le impugnazioni trascurano però che sul tema, oltre alla sentenza Scagliarini, citata nel decreto impugnato, sono già intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 40076 del 27/04/2017, Paternò, rv. 270496, che in riferimento alla configurabilità del reato di cui all’art. 75 D.Lgs. n. 159/2011 hanno recepito le indicazioni esegetiche della Corte EDU e limitato il giudizio di irrilevanza penale della violazione delle sole prescrizioni generiche di vivere onestamente e rispettare le leggi da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, la cui infrazione hanno ritenuto non integrare la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, assumendo la stessa rilievo al solo fine dell’aggravamento della misura di prevenzione personale . Al contempo le Sezioni Unite hanno escluso di poter estendere a tutto il sistema prevenzionale i medesimi rilievi e di poter praticare la soluzione alternativa della proposizione di incidente di costituzionalità delle norme sostanziali regolatrici le misure di prevenzione in termini corrispondenti a quanto argomentato dai giudici di appello nel presente procedimento. In senso conforme è successivamente intervenuta anche altra pronuncia di questa sezione prima, n. 349 del 15/06/2017, Bosco, rv. 271996, che ha escluso la valenza generalizzante del giudizio espresso dalla Corte EDU, la quale in passato e con plurimi pronunciamenti ha riconosciuto la conformità alla Convenzione del sistema prevenzionale italiano e ha ravvisato in tale giudizio il fondamento della linea interpretativa che considera tassativi i presupposti di fatto, in base ai quali inquadrare la tipologia di pericolosità di cui è portatore il proposto e formulare la prognosi negativa alla base dell’applicazione delle misure di prevenzione, in modo tale che ne risulta limitata la discrezionalità del giudice, che deve attenersi alle risultanze probatorie e desumere da esse il proprio giudizio. In conseguenza resta esclusa la denunciata incostituzionalità degli artt. 1 e 4 del D.Lgs. n. 159/2011. Di tali apporti ermeneutici alla soluzione della tematica in diritto, sollevata dai ricorrenti, le impugnazioni non hanno tenuto conto per esprimerne una motivata critica, ma solo per affermare il carattere non vincolante dell’interpretazione proposta dalla Corte di cassazione, che lascia ampio spazio per differenti determinazioni ai giudici chiamati a pronunciarsi sull’applicazione di misure di prevenzione personali. Per quanto l’obiezione trovi fondamento nel sistema dei rapporti tra giudice di legittimità e giudici di merito, che non è risolto in termini di obbligatoria e generalizzata conformazione al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 627 cod. proc. pen., e nella previsione costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla legge, art. 101 Cost., ciò nonostante si deve altresì ricordare che la questione di legittimità costituzionale, sollevata in via incidentale nel corso di un procedimento penale, va considerata quale questione pregiudiziale ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 3 e 479 cod. proc. pen., ma che, qualora sia richiamata in altro procedimento, non vincola il giudice alla sospensione del procedimento pendente secondo la previsione di cui all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, indipendentemente dall’esame pregiudiziale sulla rilevanza e sulla fondatezza dell’eccezione sez. 1, n. 2629 del 11/12/1972, dep. 03/04/1973, Manenti, rv. 123692 . 2. La natura promiscua dei motivi di ricorso impone ulteriore precisazione preliminare. Per effetto della disciplina stabilita dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 9, riprodotta nell’art. 10 del D.Lgs. n. 159 del 2011, il decreto con il quale la Corte di appello decida in ordine al gravame proposto dalle parti avverso il provvedimento del Tribunale applicativo della misura di prevenzione è ricorribile per cassazione esclusivamente per violazione di legge. Il vizio in questione si ravvisa, per consolidata lezione interpretativa di questa Corte, nei casi, per lo più scolastici, di assenza totale della motivazione quando il provvedimento consti di solo dispositivo, integrante in sé un’ipotesi di trasgressione, sia del disposto generale dall’art. 125 cod.proc.pen., sia della prescrizione dell’art. 4, comma 10, della legge n. 575/65, nonché del predetto art. 10 D.Igs. n. 159/11, secondo i quali testi normativi la Corte di Appello decide con decreto motivato . Vengono a questi assimilati i casi, ben più frequenti, nei quali l’apparato esplicativo del provvedimento sia privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidoneo a rendere comprensibile la ratio decidendi , ovvero ancora quando non affronti le tematiche poste con l’impugnazione, nella sostanza eluse, tutte situazioni nelle quali le argomentazioni giustificative, pur presenti, in realtà non assolvano alle funzioni cui sono destinate. Pertanto, la verifica conducibile in sede di legittimità si deve arrestare alla corrispondenza degli elementi valorizzati nel provvedimento impugnato ai criteri dettati dalla legge per l’applicazione della misura di prevenzione ed all’esistenza delle ragioni della decisione, mentre resta escluso che la violazione di legge possa estendersi ai difetti motivazionali, consistenti nell’insufficienza, contraddittorietà ed illogicità, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità. A siffatta circoscrizione del perimetro cognitivo, proprio dei procedimenti di prevenzione, riconosciuta come coerente con i precetti costituzionali da ultimo C. cost. sentenza nr. 106 del 15/4/2015 , si sommano i limiti intrinseci del giudizio di legittimità, che, com’è noto, non può occuparsi della revisione del giudizio di merito, né della valutazione dei fatti sui quali lo stesso si sia fondato, ma deve attenersi alla verifica della correttezza giuridica e logica del provvedimento impugnato, rispetto alle cui statuizioni la Corte di cassazione non dispone del potere di sostituire una propria alternativa decisione. 3. Tanto esposto, la considerazione delle impugnazioni alla luce dei superiori principi induce in primo luogo ad escludere che il decreto impugnato sia affetto da violazione di legge per totale carenza o apparenza della motivazione, perché, al contrario, illustra in modo compiuto, chiaro e comprensibile, oltre che aderente ai motivi d’appello proposti, le ragioni di confutazione di tali censure. 3.1 In particolare, il giudizio di pericolosità sociale dei due proposti è stato affermato nel decreto impugnato, non tanto a ragione di una loro generica proclività a delinquere, ma in base a dati conoscitivi precisi, ben evidenziati e riscontrabili, desunti dai procedimenti penali già definiti e da quello pendente a loro carico. In tal modo la Corte di appello ha correttamente valorizzato le tappe cronologiche e le caratteristiche qualitative della carriera criminale dei ricorrenti, contrassegnata da plurime condanne irrevocabili, quanto alla A. , per rapina in concorso commessa nel 1996, molteplici furti tra il 1999 ed il 2002, reiterato utilizzo illecito di carte di credito nel 2001 e nel 2002 ed il coinvolgimento in altri otto episodi furtivi commessi nel 2014 quanto allo J. , per detenzione illegale di armi e munizioni e due episodi di ricettazione nel 1995, furto aggravato nel 1996, rapina aggravata e violazione delle disposizioni sulle armi nel 1997, le cui pene sono state espiate tra il 2000 ed il 2004, nonché nel periodo successivo per altri due furti nel 2005, furto nel 2009, furto nel 2013 e tra l’agosto ed ottobre 2014 ulteriori ventitre furti tentati o consumati in danno di esercizi commerciali di Torino città e della provincia, quindi un ennesimo furto nel 2015. Ha quindi apprezzato in modo specifico il ruolo e la tipologia di attività criminosa compiuta dai due proposti. A tal fine ha posto in luce che l’A. , pur con un ruolo subalterno rispetto al marito, era risultata inserita in modo per nulla estemporaneo in un sistema di azioni predatorie, nel cui ambito aveva agito anche al di là delle istruzioni ricevute dal marito costui, in coerenza con quanto esposto anche nell’ordinanza che nell’ultimo processo penale lo ha sottoposto a custodia cautelare in carcere, è stato definito soggetto stabilmente inserito in un ambiente criminogeno, nel cui ambito ha operato quale promotore ed organizzatore di intraprese delittuose in danno dell’altrui patrimonio e nel mantenimento di contatti con committenti-ricettatori, nonché col personale compiacente addetto alla sorveglianza degli esercizi presi di mira, che gli si era rivolto per ottenere il compenso pattuito per l’ausilio prestato, aduso a ricorrere alle minacce ed all’intimidazione per imporre ad altri l’adeguamento ai suoi progetti. Da tale quadro fattuale, desunto dai giudicati di condanna e dagli atti del procedimento penale ancora pendente, ritenuto già eloquente nell’indicare, non già il compimento di condotte genericamente devianti o la mera frequentazione di ambienti delinquenziali, ma la stabile e risalente nel tempo attività criminosa in danno dell’altrui patrimonio, cui egli si è dedicato, la Corte di appello ha aggiunto la considerazione di quanto emerso nel processo penale per l’uccisione di Salvatore Germanò. Ha evidenziato che, secondo le rivelazioni del collaboratore Parlato, acquisite in quel processo, egli lo aveva rifornito di armi e munizioni ed aveva organizzato un assalto ad un furgone blindato portavalori, che stava trasportando gli incassi di un supermercato, ma il compimento dell’azione era stato impedito dalla presenza delle forze dell’ordine, mentre dalle intercettazioni condotte nel procedimento penale citato era emerso anche il compimento di condotte di riciclaggio per avere lo J. , nel periodo di dedizione ai furti nei supermercati, discusso di banconote e chiesto informazioni sulla loro eventuale segnalazione, comportamenti che ha ritenuto riscontrati dalla dimostrata dedizione pregressa da parte del proposto al maneggio di armi ed ai furti in danno di supermercati. Ne ha dedotto che il percorso esistenziale dei due proposti è indicativo della stabile, duratura ed ostinata propensione alla commissione di reati a scopo di lucro, dai quali hanno tratto, almeno in parte, i mezzi di sostentamento, stante l’esiguità dei redditi legali percepiti negli ultimi dieci anni, propensione specifica e concreta, non contenuta dalle condanne e per lo J. nemmeno dall’espiazione di pena detentiva e mai superata da un mutamento di abitudini, constatazione che ha indotto a ritenere palesemente priva di fondamento la censura difensiva, secondo la quale i più recenti fatti di reato accertati a carico di quest’ultimo sarebbero avulsi dal percorso personale e di vita del proposto , essendone piuttosto emersa la commissione seriale in perfetta continuità e coerenza con le passate intraprese delittuose. 3.2 Per la posizione dello J. la Corte di appello ha già esaminato e disatteso anche le ulteriori obiezioni riproposte con il ricorso, ossia il contenuto arco temporale nel quale erano state compiute le condotte furtive del 2014, elemento stimato irrilevante rispetto all’elevato numero dei reati commessi in precedenza ed in quell’arco temporale pur limitato, alla loro lucrosità, al coinvolgimento di plurimi complici, compresa la moglie, al carattere organizzato dei delitti ed al suo ruolo primario nella pianificazione ed esecuzione delle azioni criminose. 3.2.1 Ha parimenti respinto come non pertinente l’assunto secondo il quale egli avrebbe violato la legge penale per sostenere il padre nella latitanza perché alcuna prova era stata acquisita in senso confermativo e comunque tale evenienza, confinata quanto al suo rilievo al piano del movente, non può sminuire, ma accrescere la sua caratura criminale per il livello di pericolosità del padre, esponente di spicco della criminalità organizzata calabrese, sottrattosi all’esecuzione di una misura cautelare disposta per il reato di omicidio e perché dalla relazione parentale sarebbe scaturita ulteriore spinta criminogena. Di tale argomentazione il ricorso non tiene conto e, nel prospettare a tinte drammatiche il quadro fattuale della soggezione del ricorrente al padre, sostiene che egli sarebbe stato costretto a delinquere dal genitore, che l’avrebbe preso a cinghiate , trascurando di indicare anche un solo dato probatorio in grado di avvalorare quanto allegato e di alleggerirne la posizione sul piano volitivo. Quanto alla doglianza sulla produzione solo parziale delle dichiarazioni del collaboratore Parlato e degli esiti delle intercettazioni, se ne rileva la genericità poiché con la memoria difensiva non si è dedotto quali altri apporti conoscitivi acquisiti nel parallelo processo penale sarebbero in grado nella loro completezza di smentire i dati probatori considerati quali precisi indizi di reità e di pericolosità sociale. 3.2.2 Non ha pregio nemmeno la deduzione relativa alla pretesa violazione del contraddittorio a ragione dell’avvenuta acquisizione d’ufficio da parte della Corte di appello del certificato del casellario giudiziale emerge dagli atti che non soltanto il documento è stato sottoposto alla disamina delle parti in udienza, ma che anche lo stesso interessato ha potuto prenderne contezza e confermare che riguardava la sua persona. 3.2.3 Inoltre, allo stato delle disposizioni vigenti, la regolamentazione del rapporto processuale di prevenzione, pur con i necessari adattamenti, condizionati dall’assunzione di una decisione giudiziale non preceduta da un accertamento irrevocabile di responsabilità penale, viene mutuata da quella del processo di esecuzione rileva in particolare che l’art. 666, comma 5, cod. proc. pen. conferisca al giudice la facoltà di chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno , con ciò alludendo alle autorità pubbliche, l’accesso alle quali per la parte privata è ritenuto eccessivamente gravoso, se non precluso, mentre se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio . La Corte di appello ha quindi esercitato facoltà che le sono attribuite per legge ed il proposto è stato posto nelle condizioni di controdedurre e di dimostrare, producendo le copie delle sentenze, che i fatti in esse giudicati assumevano rilievo trascurabile per l’oggetto, le modalità o le utilità ricavatine, ed erano privi di significato ai fini del giudizio di pericolosità, attività deduttiva e dimostrativa che non risulta esercitata. 3.3 Anche per la posizione della A. il ricorso ripropone tematiche in punto di fatto già ampiamente risolte nel decreto contestato, che ha confermato il giudizio di generica pericolosità sociale della ricorrente senza limitarsi a considerare meri sospetti o a formulare congetture slegate dal suo vissuto esistenziale, ma si è basato su dati oggettivi desunti dalla sua carriera criminale, svoltasi sempre sul versante dell’aggressione al patrimonio, dai quali episodi ha certamente ricavato qualche utilità economica anche nel caso della sottrazione di capi di abbigliamento. 3.3.1 La Corte di appello non ha mancato di sottoporre al proprio vaglio critico anche la deduzione dell’avvenuto svolgimento di attività lavorativa da parte della ricorrente alle dipendenze di congiunti e conoscenti, che le avrebbero erogato compensi in denaro e rimborsi spese, ma ha correttamente rilevato che i pretesi rapporti lavorativi si erano svolti in modo irregolare con elusione degli obblighi contributivi e fiscali imposti per legge e comunque non erano stati sufficientemente dimostrati, posto che le dichiarazioni rilasciate dai familiari, peraltro dal contenuto vago e generico, erano provenienti da soggetti a lei legati da vincoli familiari, uno dei quali, la cognata S. , anche sua complice nella rapina del 21/08/1996, mentre il fratello Roberto A. è coindagato nel procedimento per i furti del 2014. Ed anche la sua assunzione quale addetta alle pulizie è stata apprezzata quale evenienza recente, verificatasi soltanto nel maggio 2017, tale da non contraddire la sua dedizione al crimine, dal quale ha tratto almeno in parte i mezzi di sostentamento. 3.3.2 Il ricorso insiste nel segnalare, in modo indifferente all’apparato argomentativo del decreto in esame ed in termini non consentiti quanto alla denunciata illogicità, che la A. avrebbe assolto al proprio onere deduttivo, ma non riesce nemmeno a scalfire i contrari rilievi esposti dai giudici di merito, così come è irrilevante che ella possa avere assunto un ruolo marginale e subordinato nelle vicende dei furti ai danni dei supermercati, circostanza che, oltre a non essere dimostrata, è irrilevante poiché il provvedimento indica con chiarezza e ampi riscontri probatori come tali episodi abbiano consentito alla stessa ed al marito, questi in posizione assolutamente strategica quale organizzatore e promotore, di conseguire lauti proventi illegali. 4. Il decreto in contestazione supera ogni censura anche laddove ha confermato la confisca dei beni intestati alla A. . Ha ritenuto insufficiente la produzione documentale delle difese, attestante la percezione di redditi leciti, erogazioni gratuite provenienti dai familiari e contribuzioni assistenziali perché di importo tale da non consentire nemmeno la sopravvivenza e tanto meno da giustificare gli acquisti effettuati da parte di soggetti formalmente privi di un’occupazione, di emolumenti legali diversi dalla pensione di invalidità dello J. e comunque beneficiari di sussidi erogati da enti pubblici. Ha quindi considerato non probanti perché inattendibili le mere dichiarazioni scritte dei congiunti della A. , alcuni persino correi, nei termini già esposti, tali da non autorizzare nemmeno di assumerne le testimonianze perché non in grado di superare i profili di inaffidabilità evidenziati. Né in tal senso si è ritenuto che la documentazione afferente le attività economiche di parenti, pretesi datori di lavoro, possa apportare elementi di conoscenza tali da risolvere l’inidoneità dimostrativa delle dichiarazioni dei terzi, perché nulla può rappresentare sull’effettiva prestazione di lavoro subordinato retribuito da parte della ricorrente. Ed anche l’annotazione in un libretto delle regalie ricevute da parenti ed amici in occasione delle nozze o della nascita dei figli è stata apprezzata nella sua consistenza materiale di appunto manoscritto dalla stessa A. e quindi privo di qualsiasi oggettività anche in riferimento alla data della sua redazione, che non può escludersi sia stata successiva al provvedimento di sequestro oltre a tali rilievi il Tribunale aveva già osservato come fosse inverosimile che tali liberalità, anche se ritenute reali nell’importo risultante dal libretto, fossero state preservate integre nel tempo e non destinate a sopperire alle esigenze familiari di mantenimento e cura dei proposti e dei tre figli. 4.1 Non è poi mancato nemmeno un approfondimento del profilo di correlazione temporale tra il periodo di manifestazione della pericolosità sociale dei proposti e quello di acquisizione dei beni confiscati al riguardo la Corte di appello ha osservato che, se, come preteso anche dalle difese, la ricchezza asseritamente accumulata in modo lecito risale agli anni novanta e si è incrementata nel tempo, la stessa è entrata nel patrimonio dei coniugi J. in concomitanza con la commissione dei reati a scopo di lucro e tanto soddisfa il requisito richiesto per imporre la misura ablativa. La decisione è dunque coerente con i criteri interpretativi, dettati da questa Corte, secondo i quali l’individuazione dell’arco temporale di riferimento può avvenire senza particolari difficoltà , posto che si tratta di determinare, sulla base di incontrovertibili parametri di riferimento quali i precedenti penali e giudiziari il periodo in cui si è manifestata l’abituale dedizione al delitto del proposto in motivazione, Sez. U., n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli, rv. 262604-262605 . Per contro, non risulta che i ricorrenti per sostanziare il vizio di motivazione apparente abbiano dedotto elementi specifici in grado di collocare in diverso contesto temporale la loro pericolosità sociale, oppure, in alternativa, di porre al di fuori del periodo rilevante la data di acquisto dei beni sottoposti ad ablazione, senza al contempo avere ricevuto risposta in proposito da parte del giudice di merito. 4.2 Inoltre, il decreto in esame ha correttamente affermato che l’origine criminosa dei mezzi utilizzati per acquistare l’immobile di via OMISSIS consente di sottoporre a confisca anche il prezzo ricavato dalla sua alienazione nel 2012 ed i buoni postali,nei quali tra il 2012 ed il 2014 lo stesso era stato reinvestito,in quanto reimpiego di un provento di origine illecita. 4.3 A fronte di una struttura motivazionale del provvedimento impugnato, che è effettiva, puntuale e comprensibile, le doglianze difensive si scontrano con la indeducibilità di vizi motivazionali e con la natura fattuale delle relative deduzioni. In particolare, l’assunto dell’avvenuta dimostrazione della legittima derivazione dei mezzi finanziari utilizzati per le acquisizioni patrimoniali non si confronta realmente con quanto statuito dai giudici di appello e richiama infondatamente l’onere probatorio che grava sull’autore della proposta. Nel caso di specie, tale onere è stato assolto mediante il ricorso legittimo alla presunzione relativa, rimasta insuperata da contrarie evidenze probatorie, della vistosa sproporzione tra la ricchezza disponibile di lecita acquisizione ed il valore superiore dei beni ottenuti nel periodo di manifestazione della pericolosità di entrambi i ricorrenti, che non hanno allegato circostanze verificabili e verificate quanto alla percezione di ulteriori introiti legali. 4.3.1 In ordine alla presunta solo parziale considerazione delle liberalità ricevute dallo J. da stretti congiunti non può censurarsi il provvedimento impugnato, che ha valorizzato, come già operato dal Tribunale, soltanto le rimesse documentate da bonifici e/o da vaglia postali, confermando l’incapacità della di lui madre di erogare le somme pretese in chiave difensiva per l’insufficienza dei redditi di cui aveva disposto, rilievo che non può superarsi in base a quanto rappresentato nella memoria difensiva, che, oltre a contenere l’illustrazione di circostanze di fatto, estranee al perimetro cognitivo del giudice di legittimità, pretende che costei avesse stornato parte della pensione di invalidità percepita per conto di altro figlio invalido per farne dono al ricorrente al di fuori di qualsiasi specificazione degli importi, delle date di prelievo e delle modalità di erogazione. 4.3.2 I decreto in esame contiene già la replica anche alle altre obiezioni difensive, laddove ha osservato che le carenze rinvenibili nelle allegazioni dei proposti non avrebbero potuto trovare soluzione con la rinnovazione dell’istruttoria e l’esame dei soggetti autori delle pretese regalie, non in grado di riferire sulla destinazione e conservazione delle somme donate, né di coloro che avrebbero ricevuto le prestazioni lavorative della A. in assenza di qualsiasi riscontro oggettivo ad avvalorare l’effettivo svolgimento di tale attività. Tali osservazioni esplicitano le ragioni della decisione senza ne sia rinvenibile l’apparenza o l’assoluta inconsistenza logica. 4.3.3 Quanto alla inclusione dei redditi percepiti da evasione fiscale, va disattesa la doglianza che critica la mancata considerazione dei redditi da lavoro erogati alla A. non soltanto non vi è prova valutabile di tale percezione, ma è incensurabile per la sua correttezza giuridica l’opinione espressa dalla Corte di appello, che ha ritenuto di non poter tenere conto di introiti sfuggiti all’imposizione fiscale. Che tale condotta non integri una fattispecie di reato non assume alcun rilievo, dal momento che, per costante insegnamento di questa Corte, i flussi di ricchezza conseguiti dal risparmio derivante dal mancato assolvimento degli obblighi tributari, gravanti non solo sul datore di lavoro, ma anche sul lavoratore, che si avvale della sostituzione d’imposta operata dal datore stesso, non possono confluire nella valutazione comparativa tra i mezzi disponibili ed il valore dei beni tramite gli stessi acquistati Cass. Sez. U., n. 33451 del 29/5/2014, Repaci, rv. 260244 sez. 1, n. 53636 del 15/06/2017, Gargano e altro, rv. 272167 sez. 2, n. 14346 del 13/03/2018, Barbagallo e altro, rv. 272376 sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristodaro e altri, rv. 271221 sez. 5, n. 9729 del 19/01/2017, P.G., De Masi altri, rv. 269173 sez. 6, n. 4908 del 12/01/2016, Hadjovic e altri, rv. 266312 , trattandosi in ogni caso di disponibilità acquisite illecitamente. Il principio è stato elaborato in riferimento ai soggetti portatori di pericolosità qualificata perché indiziati di appartenenza ad associazione di stampo mafioso, ma nell’interpretazione offertane dalla Suprema Corte è stato successivamente esteso anche nei confronti di chi presenti pericolosità generica a ragione della specifica finalità perseguita dalla confisca, egualmente attuabile per ogni tipo di situazione presupposta, individuata dalle Sezioni Unite nella sentenza Repaci nell’ impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza , conseguiti mediante condotte elusive degli obblighi contributivi che realizzino una provvista finanziaria qualificabile come provento di reato, dal momento che l’evasione fiscale integra ex se attività illecita contra legem anche qualora non integri reato . Inoltre, sul piano testuale l’art. 16, comma 1, del D.Lgs. n. 159 del 2011 equipara espressamente, sotto il profilo della operatività della disciplina relativa alle misure di prevenzione patrimoniale, gli indiziati di appartenenza ad associazione di tipo mafioso ed i soggetti rientranti nelle altre categorie di persone socialmente pericolose, mentre l’art. 24, comma 1, dello stesso decreto riproduce la lettera dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 laddove consente la confisca dei beni di cui la persona non possa giustificare le legittima provenienza e di cui risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché, dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego . Da tali rilievi si è tratta la conclusione che i proventi di evasione fiscale non possono essere addotti a giustificazione per colmare la sproporzione tra redditi dichiarati o attività svolte e beni acquisiti e per evitarne la confisca, principio cui il Collegio ritiene di aderire anche per l’assenza di argomenti giuridicamente fondati in grado di smentirne la correttezza. Invero, è generica l’affermazione contenuta in ricorso sulla contrarietà della decisione al disposto normativo che si trascura di specificare ed illustrare nella sua portata precettiva, mentre non giova alla tesi difensiva obiettare che il principio espresso da Cass., sez. 5, n. 9727 del 2017, De Masi, citata, riguardi la posizione di un imprenditore già condannato per appartenenza ad associazione mafiosa, poiché il canone interpretativo è il medesimo e non vi sono ragioni giuridiche, testuali, sistematiche o teleologiche, per discriminare la condizione del prestatore di lavoro, che, in assenza di qualsiasi deduzione sulla subita imposizione dell’irregolarità dell’attività svolta, si sia avvantaggiato del mancato adempimento degli obblighi tributari e pretenda di trarne la prova della legittima derivazione di risorse finanziarie, che hanno in sé origine illecita. Può quindi formularsi il seguente principio di diritto In materia di misure di prevenzione reali, il proposto non può giustificare l’accertata sproporzione tra i redditi fiscalmente dichiarati e le attività svolte ed il valore dei beni acquisiti mediante l’allegazione della percezione nel periodo di riferimento di introiti, derivanti dallo svolgimento di attività lavorativa irregolare, non dichiarati e sfuggiti all’imposizione fiscale, trattandosi di risorse percepite, almeno in parte, in contrasto con le disposizioni di legge . Per le considerazioni svolte i ricorsi vanno dichiarati inammissibili con la conseguente condanna dei proponenti al pagamento delle spese processuali e, in relazione ai profili di colpa insiti nella presentazione di tali impugnazioni, anche al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si reputas equo determinare in Euro 2.000,00 ciascuno. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di Euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.