Collegamenti con la criminalità del detenuto e valutabilità della collaborazione con la giustizia

Per il superamento delle condizioni ostative alla fruizione di determinati benefici deve essere il condannato a prospettare elementi validi circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione con la giustizia tanto da consentire l’ottenimento del risultato desiderato .

Così la Cassazione con sentenza n. 36457/18, depositata il 30 luglio. Il caso. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano accoglieva il reclamo proposto dal detenuto avverso il provvedimento con cui veniva dichiarata inammissibile l’istanza di concessione di un permesso-premio per mancanza del requisito della collaborazione con la giustizia o delle collaborazione impossibile. Il Tribunale rilevava che l’interessato, detenuto da più di vent’anni, aveva un comportamento regolare e svolgeva attività lavorativa stabile. Inoltre, secondo i Giudici, la DDA si era limitata ad ipotizzare una possibile collaborazione attendendo che il condannato offrisse i suoi contribuiti anziché fornire gli spazi utili per il confronto, finendo per indicare come attuali dei contatti con la criminalità organizzata che altro non esano che supposizioni svincolate da elementi oggettivi . Pertanto a sostegno della sua decisione il Tribunale aveva ritenuto che, nonostante la mancanza di elementi attestanti la presa di distanza del detenuto con il contesto associativo, non poteva ritenersi che dopo anni egli avesse un ruolo particolare nell’associazione criminosa. La decisione di merito è impugnata per cassazione con ricorso del Procuratore Generale il quale sostiene che la decisione fosse stata assunta senza il rispetto dei canoni ermeneutici relativi all’accertamento della condotta collaborativa o dissociativa del condannato ed, anche, senza considerate gli elementi informativi alla base della valutazione di pericolosità. Condizioni ostative e valutabilità della collaborazione. Premette la Cassazione che l’art. 4- bis ord.pen. enuncia le condizioni ostative ai benefici penitenziari c.d. di prima fascia” che richiedono per il loro superamento l’accertamento della collaborazione con la giustizia. Dalle disposizioni normative, analizzate dalla Suprema Corte, emerge che non è affatto previsto che sia l’autorità inquirente a dover per forza prendere l’iniziativa di cercare una collaborazione con la giustizia, ma, al contrario, che sia il condannato ad offrire un proprio contributo in tal senso . In altre parole l’iniziativa dell’autorità inquirente non è una preliminare condizione di valutabilità della collaborazione, ma deve essere il condannato, al fine di superare le condizioni ostative della condizione di determinati benefici, a proporre istanza valorizzando elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione. Dalla decisione impugnata, invece, osservano gli Ermellini, deriverebbe una sorta di titolo vantato dal condannato qualora l’autorità inquirente non lo avesse interpellato in merito ad una possibile collaborazione, offrendogli indicazioni sullo spazio collaborativo che da lui si attende . A sostegno di quanto premesso, il Supremo Collegio ha aggiunto che il contributo collaborativo che può fornire il condannato è molto vasto e non si concilia con una obbligatoria iniziativa dell’autorità inquirente alla quale non può chiedersi di ipotizzare gli apporti informativi possibili che possano richiedersi ad un condannato . Esclusione dell’attualità dei collegamenti con la criminalità. Infine la Cassazione si è occupata degli elementi che escludono l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata, i quali devono essere acquisiti positivamente. Infatti è noto che lo stato detentivo del condannato non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio criminoso di tipo mafioso . Nella fattispecie in esame, il Tribunale non ha fatto alcun riferimento a prove positive per dimostrare la mancanza di collegamento con la criminalità organizzata. Per tutte le ragioni esposte la Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Milano.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 9 aprile – 30 luglio 2018, numero 36457 Presidente Mazzei – Relatore Minchella Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 08/06/2017 il Tribunale di Sorveglianza di Milano accoglieva il reclamo proposto da F.G. detenuto in espiazione della pena conseguente a condanne per i delitti di cui all’art. 416 bis cod.penumero e all’art. 575 cod.penumero e 7 del d.l. numero 152 del 1991 avverso il provvedimento in data 07/02/2017 del Magistrato di Sorveglianza di Milano che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di concessione di un permesso-premio per mancanza del requisito della collaborazione con la giustizia o della collaborazione impossibile. Rilevava il Tribunale di Sorveglianza che la decisione negativa si era basata sulle condotte di cui alle sentenze di condanna da cui era risultata una partecipazione non marginale alle attività illecite e sulla informative e della Questura di Palermo, che avevano indicato nel condannato una persona organicamente inserita nella consorteria mafiosa denominata omissis e che non aveva mai dato segni di dissociazione né di propositi collaborativi con la giustizia. Il Tribunale di Sorveglianza rilevava che la detenzione del condannato perdurava dall’anno 1998 ed era connotata da regolarità comportamentale e da svolgimento di un’attività lavorativa e, pur respingendosi la prospettazione di una collaborazione impossibile limitata ai soli fatti di cui alle sentenze di condanna, si notava che la DDA si era limitata a ipotizzare una possibilità di collaborazione, senza precisare gli ambiti della stessa e ad attendere che il condannato offrisse i suoi contributi anziché indicare essa stessa gli spazi di un utile contributo, finendo per indicare come attuali dei contatti con la criminalità organizzata che altro non erano che supposizioni svincolate da elementi oggettivi quali il tenore di vita dei familiari, i contatti eventualmente emersi con soggetti pregiudicati et similia pertanto, seppure nessun elemento attestava una presa di distanza del detenuto dal contesto associativo, nemmeno poteva affermarsi che, dopo venti anni, egli conservasse un ruolo particolare nel sodalizio dove invece non aveva avuto una posizione apicale. Si riconosceva così la sussistenza del requisito della collaborazione impossibile o inesigibile con la giustizia. 2. Avverso detta ordinanza propone ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, deducendo erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione sostiene che la decisione era stata assunta senza il rispetto dei canoni ermenutici relativi all’accertamento della condotta collaborativa o dissociativa del condannato e senza avere considerato gli elementi informativi che erano stati alla base delle valutazioni di pericolosità sociale del condannato. Con motivi aggiunti il P.G. ricorrente ripercorre le ragioni del reclamo. 3. Il P.G. in sede ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. È opportuno premettere che il primo periodo del comma 1 dell’art. 4 bis Ord.Penumero enumera quelle ragioni di ostatività ai benefici penitenziari che vengono ordinariamente definite come di prima fascia e che richiedono, per il loro superamento, l’accertamento della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter del medesimo ordinamento penitenziario o, sia pure con effetti parzialmente differenti e con diverse condizioni, l’accertamento della impossibilità di collaborare con la giustizia ovvero dell’irrilevanza di una siffatta collaborazione e questa norma contempla appunto, oltre alla partecipazione alle attività illecita di una cosca mafiosa, tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod.penumero o comunque commessi per agevolare l’attività di associazioni per delinquere di tipo mafioso, locuzione che richiama pienamente il contenuto della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n 152 del 1991, applicata nella fattispecie. Pertanto, pacificamente questa è la condizione di ostatività connessa ai delitti commessi dal ricorrente ed alla pena attualmente in espiazione da parte del medesimo. Tanto premesso, occorre sottolineare che l’ordinanza impugnata incorre in erronee applicazioni del disposto dell’art. 4 bis Ord.Pen, evidenziando anche una conseguente manifesta illogicità nel suo contenuto. 2. In primo luogo, l’ordinanza impugnata prospetta apoditticamente una concretizzazione dello spazio collaborativo del condannato che non trova riscontro nella normativa. Essa, infatti, pag. 4 sostiene che è sempre necessario che sia l’A.G. incaricata delle indagini ad indicare se, nel corso delle stesse, eventualmente collegate con altre tuttora in corso, siano rimasti fatti connessi, circostanze, spunti investigativi che a suo tempo non trovarono uno sbocco processuale ed ancora l’ordinanza afferma che ove la DDA interpellata fornisca solo genericamente indicazione di una qualche utilità della collaborazione, quella stessa autorità non potrà che sentire l’istante ove questi si renda disponibile a fornire gli elementi in questione . Ma, ancora di più, il Tribunale di Sorveglianza afferma che ove gli organi investigativi a ciò non provvedano, dopo il trascorrere di un tempo ragionevolmente congruo, l’accertamento dell’impossibilità della collaborazione potrà considerarsi pressoché in re ipsa . Ed ancora, l’ordinanza afferma che quel che è certo è che l’autorità giudiziaria non può mettersi, come nella fattispecie, in una posizione di attesa rispetto a contributi collaborativi su contenuti che si pretende vengano individuati dall’istante e suoi quali viene formulata una sorta di riserva di valutazione successiva di utilità, dovendo invece l’organo investigativo in termini positivi affermare che, nei termini di cui si è detto, ancorché genericamente, l’istante in relazione a specifici fatti connessi all’organizzazione criminale di appartenenza, per la sua posizione all’interno del sodalizio, ove tuttora operante, o diramazioni dello stesso, è in grado di fornire ora qualche utile collaborazione . Tutto ciò non trova rispondenza nella normativa, la quale non prevede affatto che sia l’autorità inquirente che pure può procedere a colloqui investigativi a dovere necessariamente prendere l’iniziativa di cercare una collaborazione con la giustizia, ma, al contrario, che sia il condannato ad offrire un proprio contributo in tal senso. O, più precisamente, non prevede che l’iniziativa dell’autorità che svolge indagini sia una preliminare condizione di valutabilità della collaborazione in effetti, il concetto espresso nell’ordinanza impugnata scivola verso una sorta di necessariamente preliminare invito alla delazione, con offerta - da parte di chi svolge indagini dell’indicazione di argomenti sui quali viene ritenuta apprezzabile una collaborazione con la giustizia meccanismo che, per paradosso, potrebbe talora determinare ombre di ambiguità sul contributo dichiarativo. Del resto, a tal proposito, elementi di conferma a detto assunto si colgono anche esaminando le decisioni in materia questa Corte ha avuto modo più volte di ribadire che, al fine del superamento di condizioni ostative alla fruizione di determinati benefici, è necessario che sia il condannato, nella sua istanza, a prospettare, almeno nelle linee generali, elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione tanto da consentire l’ottenimento del risultato desiderato, non essendovi dubbio che solo in tal caso è possibile valutare se la collaborazione del condannato sia impossibile perché fatti e responsabilità sono stati già completamente acclarati o irrilevante perché una posizione marginale nell’esecuzione dei delitti non avrebbe consentito di conoscere fatti e compartecipi pertinenti alla esecuzione di livello superiore Sez. 1, numero 47044 del 24/01/2017, Rv. 271474 . È stato parimenti specificato che l’instante non ha l’onere di dimostrare la specifica impossibilità della collaborazione, ma soltanto di indicare la prospettazione di massima delle circostanze suffraganti la sua richiesta, restando poi alla competenza del Tribunale di Sorveglianza - al quale non è precluso alcun accertamento di ufficio in materia di misure alternative - la decisione finale assunta alla stregua dell’esame della documentazione agli atti Sez. 1, 09.06.1998 numero 2923 . Al contrario, dalla prospettazione offerta dalla ordinanza impugnata deriverebbe una sorta di titolo vantato dal condannato qualora l’autorità inquirente non lo avesse interpellato in merito ad una possibile collaborazione, offrendogli indicazioni sullo spazio collaborativo che da lui si attende. Più di recente, questa Corte ha precisato che, ai fini della concessione dei benefici penitenziari alle persone condannate per taluno delitti indicati nell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, numero 354, il presupposto della utile collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter della medesima legge non è limitato soltanto ai comportamenti di collaborazione che ineriscono al delitto per cui è in esecuzione la pena, ma comprende anche contributi informativi - che consentono la repressione o la prevenzione di condotte criminose diverse - integranti un aiuto concreto per l’autorità di polizia o per quella giudiziaria, da intendersi come apporto non oggettivamente irrilevante e, quindi, dotato di una reale efficacia ai fini della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle responsabilità, che contribuisce alla formazione in dibattimento di prove indispensabili per dimostrare la responsabilità degli imputati e determinarne la condanna Sez. 1, numero 58075 del 26/10/2017, Rv. 271616 . All’evidenza, la vastità del contributo collaborativo ora descritto non si concilia con una obbligatoria iniziativa dell’autorità inquirente alla quale non può chiedersi di ipotizzare gli apporti informativi possibili che possano richiedersi ad un condannato. Del resto, quanto ora precisato non costituisce che una conseguenza di altra premessa già presente in decisioni di questa Corte relative ai cosiddetti reati ostativi, in relazione appunto ai quali la collaborazione con la giustizia e la perdita di legami con il contesto di criminalità organizzata da cui era scaturito il reato si mostrano come indici legali di un ravvedimento Sez. 1, numero 7428 del 17/01/2017, Rv. 271399 . Così impostato il significato della collaborazione con la giustizia, è evidente che una siffatta iniziativa, per essere apprezzabile ai fini che qui interessano, deve muovere dal condannato parimenti, la disciplina che subordina la concessione di benefici alla collaborazione con la giustizia consente al condannato stesso di scegliere se collaborare o meno, sicché essa non si pone in contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena. Detta condizione non implica affatto ineffettività del beneficio richiesto, né la sua trasformazione in una misura inaccessibile ai soggetti condannati per delitti ostativi. Di converso, proprio la particolare gravità di talune tipologie di fatti prevede che l’ammissione a determinati benefici possa avvenire soltanto all’esito dell’acquisizione di indicatori specifici tra cui la collaborazione nelle sue distinte forme idonei a superare la intrinseca pericolosità, che da essi trae scaturigine. La stessa Corte Costituzionale ha spiegato come l’art. 4-bis L. 26 luglio 1975, numero 354 sia rispondente all’esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa e come si giustifichi la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia permane cioè aperta la possibilità per i detenuti che perseguono un programma di rieducazione di avvalersi di uno degli istituti volti a tale scopo Sez. 1, numero 27149 del 22/03/2016, Rv. 271232 . 3. In secondo luogo, l’ordinanza impugnata sembra ribaltare lo schema dimostrativo dell’ulteriore condizione richiesta dal comma 1 bis dell’art. 4 bis Ord.Penumero infatti, in relazione alla duplice premessa della espiazione di delitti ostativi di prima fascia ipotesi che si riscontra nella fattispecie e della sussistenza di una collaborazione impossibile o irrilevante o inesigibile, la norma menzionata richiede che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità’ di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva . Pertanto gli elementi che escludono l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, in detta ipotesi, devono essere acquisiti positivamente ciò è conseguenza della particolare natura dei delitti menzionati e, in particolare, della natura mafiosa delle consorterie che vengono in rilievo è, infatti, noto che il sopravvenuto stato detentivo dell’interessato non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio criminoso di tipo mafioso, che viene meno solo nel caso, oggettivo, della cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi soggettive, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato Sez. 1, numero 46103 del 07/10/2014, Rv. 261272 Sez. 2, numero 17100 del 22/03/2011, Rv. 250021 . La presunzione di permanenza del vincolo non è frutto di una finzione di carattere giuridico, ma piuttosto di una massima di esperienza, in base alla quale il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso di appartenenza, atteso che, in determinati contesti delinquenziali, i periodi di detenzione sono accettati dai sodali come prevedibili eventualità le quali, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non fanno cessare la disponibilità a riassumere un ruolo attivo non appena venga meno il forzato impedimento Sez. 1, numero 12907 del 23/11/2000, Rv. 218440 . Ciò è coerente con l’elemento strutturale della fattispecie associativa e con l’oggetto giuridico del reato il delitto è tipizzato in funzione del requisito essenziale e caratterizzante della proiezione indeterminata, verso il futuro e senza alcuna limdazione temporale, della progettualità delittuosa dei compartecipi. Il pericolo per l’ordine pubblico tutelato dalla fattispecie associativa insorge per il solo fatto del pactum sceleris e della pura e semplice disponibilità degli associati alla perpetrazione delle concorsuali attività delittuose. Di conseguenza, la permanenza è perfettamente compatibile con la inattività degli associati nella perpetrazione dei reati fine e, pure, con lo stato silente della associazione sicché ha termine solo nel caso oggettivo della cessazione della consorteria criminale ovvero nei casi soggettivi, concernenti i singoli associati, del recesso o della esclusione del compartecipe, positivamente acclarati. Tali considerazioni - pare superfluo affermarlo - sono ulteriormente rafforzate quanto al vincolo derivante dall’appartenenza ad un clan di tipo mafioso al quale l’associato è legato tendenzialmente per tutta la vita in maniera assai forte Sez. 1, numero 46065 del 22/10/2015, Rv. 265313 . Nella fattispecie, il Tribunale ha fatto invece riferimento ad uno schema dimostrativo differente e cioè alla mancanza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità’ organizzata, terroristica o eversiva condizione, quest’ultima, però prevista dal comma 1 ter dell’art. 4 bis Ord.Penumero ma riferita ad una differente tipologia di delitti. E ciò fa l’ordinanza cadendo in una manifesta illogicità pur dando atto che nessuna circostanza positivamente attesta una formale presa di distanza del detenuto dal contesto associativo e ritenendo che la lunga detenzione e la mancanza degli elementi sopra menzionati potesse sopravanzare la natura ostativa dei delitti in espiazione. 4. Di conseguenza, l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Milano per nuovo esame. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Milano.