Si finge poliziotto e chiede di eseguire una fittizia perquisizione: condannato

La condotta del soggetto che, presentandosi come operatore della polizia, sostiene di dover eseguire una perquisizione fittizia nell’abitazione della persona offesa, comprimendone la libertà psichica e l’autodeterminazione, per impossessarsi dei beni della stessa, integra la minaccia costitutiva del reato di rapina aggravata.

Lo ha ribadito la Cassazione con sentenza n. 35643/18, depositata il 26 luglio. Il fatto. La Corte d’Appello di Milano, confermando la decisione di prime cure, aveva condannato l’imputato per il delitto di rapina aggravata. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione contro detta pronuncia deducendo con il terzo motivo erronea qualificazione giuridica del fatto perché la condotta dell’imputato non avrebbe dovuto essere ricondotta al furto aggravato con la sussistenza del requisito della minaccia. Nella specie l’imputato era accusato di essersi introdotto nell’abitazione della persona offesa sostenendo di dover eseguire un finto mandato di perquisizione. Perquisizione fittizia. Secondo la Cassazione il motivo di ricorso è infondato in quanto correttamente la Corte d’Appello ha valutato la sussistenza di una pluralità di comportamenti in capo all’imputato ai danni della persona offesa aggressione verbale, pressione psicologica connotati da violenza e minaccia. Infatti, osservano i Giudici di legittimità, i Giudici di merito nella qualificazione giuridica della condotta dell’imputato hanno fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui integra la minaccia costitutiva del reato di rapina la condotta del soggetto che, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione – con ciò comprimendo la libertà psichica della vittima – per impossessarsi dei beni di questa, perché la minaccia può essere esercitata mediante qualsiasi comportamento che, prospettando un male, limiti la libertà di autodeterminazione . Per questi motivi la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 – 26 luglio 2018, n. 35643 Presidente Diotallevi – Relatore Ariolli Ritenuto in fatto 1. Il difensore di C.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano in data 7/3/2017 che ha confermato quella emessa dal Tribunale di Como che ha condannato l’imputato per il delitto di rapina aggravata in concorso alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 800,00 di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile. 1.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., in quanto la condanna del ricorrente è stata fondata su indizi privi dei necessari requisiti di precisione, gravità e concordanza. Invero, a fronte del mancato riconoscimento ad opera della p.o. la quale nei confronti del ricorrente si era espressa in termini dubitativi e nel corso del processo aveva indicato come concorrente un’altra persona, tale D. , poi ritenuto uno dei rapinatori , la prova di colpevolezza si fonda esclusivamente sul fatto che lo stesso giorno della rapina il telefono cellulare del ricorrente ha agganciato la cella del luogo peraltro non determinato con assoluta certezza ove era stata consumata la rapina e in ragione della pregressa conoscenza e dei contatti telefonici che sarebbero intercorsi durante la notte dell’evento criminoso con altro coimputato. 1.2. Con il secondo motivo deduce, in ragione della mancanza di consistenza probatoria degli elementi indiziari raccolti, la violazione di legge e, in particolare della regola di giudizio stabilita dall’art. 533 cod. proc. pen. affermazione della responsabilità penale dell’al di là di ogni ragionevole dubbio . 1.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge in punto di corretta qualificazione giuridica del fatto, da ricondursi, semmai, nell’alveo del furto aggravato in assenza del requisito della minaccia. 1.4. Con il quarto motivo deduce il vizio di motivazione, essendo illogica e contraddittoria la ricostruzione della vicenda per come operata dalla Corte territoriale. Considerato in diritto 2. Il ricorso è inammissibile per essere i motivi generici e/o manifestamente infondati. 2.1. Manifestamente infondati e in parte generici sono il primo, il secondo ed il quarto motivo di ricorso in punto di responsabilità, in quanto il ricorrente omette di confrontarsi con gli altri elementi di prova a carattere altamente indiziario che risultano puntualmente indicati nelle decisioni di merito a carico dell’imputato e che risultano avere carattere convergente nel senso di ritenerlo compartecipe della rapina in particolare, il ricorrente, unitamente al P. , accompagnavano presso l’abitazione della p.o. gli altri correi il S. e il D. - che materialmente entravano e commettevano il delitto . In particolare, si è fatto riferimento alla circostanza che la notte della rapina il ricorrente si trovasse in compagnia del P. certamente individuato dalla p.o. come uno dei rapinatori anche in virtù della pregressa conoscenza e la cui condanna è divenuta irrevocabile a seguito della mancata proposizione di ricorso per cassazione , per quanto dagli stessi ammesso, e che sia stato proprio il ricorrente ad indicare al pubblico ministero la complicità nella rapina di altro coimputato, il D. , anch’esso riconosciuto con certezza dalla p.o. e per cui si è proceduto separatamente. Trattasi di un’indicazione che l’imputato non avrebbe potuto inventare se non fosse stato complice consapevole del reato e che collima, poi, con il fatto che nel corso delle indagini il S. altro coimputato che ha patteggiato la pena aveva indicato come complici il P. ed il ricorrente, in assenza di qualunque elemento che deponesse per la falsità dell’accusa mossa all’imputato. A ciò si aggiunge la conoscenza del ricorrente con tutti i soggetti coinvolti nella vicenda il P. , il S. , il D. ed anche il M. con cui il P. era stato costantemente in contatto quella notte e l’improvviso abbandono da parte di tutti e quattro gli imputati P. , S. , C. e D. dei lavori che stavano facendo presso un amico della p.o. Infine, smentita risulta la versione difensiva resa dal ricorrente, in quanto in contrasto con quella resa dal coimputato P. e dalla di lui moglie. In conclusione, il ricorrente non è stato condannato solo per l’accertamento di una sua telefonata che ha agganciato la cella del luogo della rapina, ma in ragione di una pluralità di elementi, la cui gravità precisione e concordanza ha consentito di risalire al fatto ignoto, mediante una motivazione congrua e scevra da vizi logici, mediante la quale la Corte territoriale si è fatta carico di smentire la tesi difensiva dell’imputato. Risultano quindi rispettati sia i canoni di valutazione probatoria che il principio della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, come deve escludersi qualsiasi vizio della motivazione, peraltro dedotto in parte anche richiedendo alla Corte di legittimità una rilettura degli atti non consentita in questa sede. 2.2. Manifestamente infondato è il motivo dedotto in punto di qualificazione giuridica del fatto. La Corte territoriale ha correttamente escluso il furto aggravato in ragione del fatto che le modalità dell’azione ben superarono quelle dell’illecita sottrazione avvalendosi del mezzo fraudolento costituito dal dovere eseguire un finto mandato di perquisizione, ma travalicarono in una pluralità di comportamenti, puntualmente evocati dal giudice di merito, che danno conto di come venne esercitata ai danni della p.o. una violenza e minaccia psicologica si presentarono notte tempo a casa della p.o. la aggredirono subito verbalmente dicendo di sbrigarsi perché loro stavano attendendo tutta la notte il S. salì subito in macchina con la p.o. così creando una pressione psicologica appena entrati in casa la sbatterono sul muro, obbligandola a salire le scale ed aprire i cassetti, controllandone i movimenti durante l’azione e strappandogli di mano il finto decreto di perquisizione allorché ella voleva leggerlo e pure il telefono cellulare, senza riuscirvi per la reazione della vittima . Al riguardo, deve essere ribadito il seguente principio di diritto espresso da questa Corte in materia integra la minaccia costitutiva del reato di rapina la condotta del soggetto che, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione - con ciò comprimendo la libertà psichica della vittima - per impossessarsi dei beni di questa, perché la minaccia può essere esercitata mediante qualsiasi comportamento che, prospettando un male, limiti la libertà di autodeterminazione Sez. 2, n. 20216 del 6/5/2016, Rv. 266751 . 3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende in ragione dei profili di inammissibilità rilevati. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.